di Heiko H. Caimi
Moni Ovadia,
Ritratto di Sam Franza
Moni Ovadia, gentile, disponibilissimo, ci ha permeso
di fargli un’intervista in due parti, ed allo steso modo abbiamo deciso di
presentarla su queste pagine. Concludiamo quindi la pubblicazione
dell’intervista.
Lei pensa che in Italia sia possibile
riappropriarci della nostra cultura?
Io penso di sì. Quando avremo toccato il
fondo. Evidentemente non abbiamo capito, questa volta, quanto è profondo. È
profondo quanto la Fossa delle Marianne. Gli italiani, e anche parte
dell’opposizione, hanno lasciato sfregiare la democrazia italiana, permettendo
ad una specie di caudillo di governare il Paese sulla base dei suoi interessi,
della sua demagogia populista.
È una vergogna. Io credo che le future
generazioni verranno a sputare sulle nostre tombe, per averlo permesso.
A questo proposito mi viene in mente una
frase di Clio Pizzingrilli: “Occorre trovare un sistema per sbarazzarsi dei
carnefici, che però non abbia nulla da spartire con la vigente messa-a-morte,
appannaggio dei carnefici medesimi. Questo dà da pensare. In fin dei conti è
proprio sul modo di sbarazzarsi dei carnefici che si gioca lo scacco”.
Noi dobbiamo capire una cosa, per
arrivare a questo: che la democrazia è un processo. Tutti i processi devono
essere costantemente riattivati. Se noi pensiamo che la democrazia è un dono
dall’alto, che non è una conquista che va difesa, come la salute, la perderemo.
La democrazia è come la salute di un corpo: non è data per sempre.
Se tu la salute non te la conservi, la
perdi; così la democrazia. E noi l’abbiamo persa, perché abbiamo lasciato che
la malattia avesse il sopravvento su di noi. Non abbiamo fatto la profilassi.
Non abbiamo utilizzato i farmaci. E ancora adesso, che è quasi in metastasi,
facciamo finta di niente.
Sembra quasi che non ce ne si accorga…
No, perché mantenere la saluta implica
rinunce, trainings, attenzione costante: fatica. Quello italiano è un
popolo che ha vastissime aree di qualunquismo. Il qualunquista non vuole
faticare mai, e anche pensare è fatica: pensi qualcun altro per me.
Ho rivisto per l’ennesima volta, lo
rivedo ogni volta che lo passano in televisione, “La parola ai giurati”, di
Sidney Lumet, uno strepitoso film a basso budget che si svolge tutto in una
sala dove i giurati devono decidere della vita di un giovane che, a tutte le
evidenze, sembra colpevole; ma, grazie alla caparbietà di un solo uomo perbene,
il giovane verrà assolto, perché si capisce, in realtà, che le prove e gli
indizi sono pieni di lacune.
Uno dei giurati che poi, grazie a questo
uomo coraggioso e civile, capirà, ad un certo punto, mentre si lavano le mani
nel bagno, gli chiede: “Ma lei non ragiona mai sulle cose?”, e questo risponde
di sì. E l’altro dice: “Io lascio che sia il mio capo a ragionare, io lavoro”.
Ecco quello che è caratteristica di troppi italiani.
La gran parte della classe dirigente di
questo Paese non ha voluto bene alla sua gente. Si è accontentata molto più di
retorica che di controllare che lo stato della democrazia fosse diffuso. Perché
c’è gente nel nostro Paese, troppa, che non sa neanche cos’è la Costituzione
repubblicana. Ebbi modo di constatarlo facendo il commissario d’esame. Per
diritto, perché io sono laureato in scienze politiche.
Quando vennero da me i privatisti di
Padova, siccome provavo grande pena per la loro stanchezza -mi ricordavo di me,
quando all’epoca della maturità ero sfinito-, mi dissi: farò delle domande
facili, che m’importa se sanno cos’è una cambiale? Questo non è importante.
L’importante è che siano dei buoni cittadini: vediamo come va col diritto
pubblico. E allora feci domande di questo tipo, bastava leggere i giornali:
domandai a questi privatisti di Padova chi fa le leggi nel nostro Paese.
Da alcuni di loro mi sentii rispondere:
il Presidente della Repubblica. Questa gente andava a votare!
Io ho una proposta di legge per il futuro: che non importa se non si sa la
matematica o la fisica, il latino o le scienze, ma che non si possa uscire
dalla scuola dell’obbligo senza sapere a memoria la prima parte della
Costituzione – a memoria e commentata con parole proprie – e senza sapere la
carta dei diritti universali dell’uomo di Ginevra, e di Parigi, a memoria e
commentata con parole proprie.
Se non la sai, non esci dalla scuola
dell’obbligo, che significa che non vai a lavorare e non prendi la patente.
Questo permetterebbe di avere dei cittadini veri. Non si potrebbe farla
retroattiva, non possiamo pretendere che un uomo di cinquant’anni torni a
studiare queste cose, però, se fosse per me che sono giacobino, farei anche
questo.
Cominciando come fa Gherardo Colombo,
che ha scritto una Costituzione per bambini degli asili e delle elementari, in
modo che i bimbi vadano a casa e, quando vedono il proprio padre compiere atti
incostituzionali, siano i primi a dirgli: “papà, ma questo non si fa, perché
nel nostro Paese è legge”. Si immagina l’effetto? Se questo fosse obbligo
scolare, per gli asili, fino alla fine del corso studiorum, avrebbe un
impatto enorme sulle coscienze.
Lei pensa che l’arte possa cambiare
qualcosa?
L’arte può svolgere un ruolo estremamente
importante se, naturalmente, il Paese investe sull’arte. Permette di capire, di
fare.
Quindi lei ritiene che attraverso la
cultura si possano trovare possibilità di cambiamento?
Senza cultura noi non siamo niente. La
cultura è conoscenza e, siccome lo specifico dell’uomo è lavorare e conoscere,
senza l’aspetto della conoscenza rimane solo il lavoro, che, senza l’elemento
della conoscenza e della crescita, della formazione di relazioni col mondo e
con se stessi e col prossimo, diventa un lavoro schiavistico, servile.
Come nel citato articolo 1 della
Costituzione, dove, a guardare bene i fatti, bisognerebbe sostituire la parola
“lavoro” con la parola “sfruttamento”…
E certo… Sfruttamento, raggiro, quelle
cose lì, perché poi, insomma, il lavoro, il precariato… Ogni volta che parlano
c’è questo cosiddetto turbo-capitalismo, che ha dimostrato la sua infamia, la
sua inefficienza, si è permesso per lustri e lustri di dire flessibilità,
elasticità, licenziamento: è una vergogna.
Con un camuffamento del senso delle
parole in cui flessibilità significa in realtà precariato…
Eh, certo…
Però mi sembra che, in Italia
specialmente, si stia cercando, da molte parti, di affossare in tutti i modi
possibili la cultura…
Sì, per forza, perché dà fastidio al
potere. Perché la cultura è critica, e un potere così mediocre come quello che
abbiamo noi non può confrontarsi con la cultura, perché non ha strumenti.
Allora cerca di abbassare il livello, di distruggere i livelli più alti per
poter, in qualche modo, almeno far credere che capisce qualcosa.
La televisione ha contribuito a questo
abbassamento, secondo lei?
La televisione ha creato una vera
devastazione, da quando è sceso in campo Berlusconi. La televisione
commerciale. Già la RAI non era proprio il massimo, ma, insomma, noi
ascoltavamo per ore parlare Pasolini, in RAI, non ci sono confronti. Adesso il
99% è un totale schifo, tranne preziose eccezioni come la Gabanelli, ma siamo
al 5% della televisione.
L’arte può fare qualcosa in questo
senso, in potenza?
Si, l’arte ha il formidabile strumento
della pietas. Parlo, per esempio, del teatro. Il teatro, per convenzione,
accetta di essere finto, ed è proprio grazie a questa convenzione che, non
essendo pericolosa, è stato possibile dire la verità.
L’arte può dire la verità, perché è un
linguaggio trasfigurato che non pretende di avere la verità divina, ma una
capacità di trasfigurare le relazioni, e permette di affrontare i temi più
terribili entrandoci in relazione, senza rimanerne distrutti. Però bisogna che
gli artisti sappiano questo loro ruolo.
Oltre a se stesso, lei vede nel panorama
italiano qualche altro artista che porti avanti un discorso di questo tipo?
Ma certo che ce ne sono, ci sono
teatranti e anche poeti, letterati e scrittori, gente di prim’ordine che fa questa
cosa.
Purtroppo le loro voci sono soffocate o
molto marginalizzate. Potrei parlare di me, non che io sia così importante, ma
giusto per fare un esempio: io in certe trasmissioni televisive non ci vado, e
ad altre non ho accesso, perché mi tengono lontano.
Eppure, nonostante
la televisizzazione anche della comicità, spettacoli come i suoi
riescono ad ottenere un buon successo anche se portano avanti una comicità
molto più raffinata, che richiede pazienza, ascolto e comunque un certo
impegno.
Io sono stato anche fortunato, da un
certo punto di vista: ho avuto grande appoggio da parte della stampa migliore,
ma anche dalla stampa locale, e a volte anche in radio e in televisione, è
fuori discussione. Poi sono stato molto accanito nel non lasciarmi intimidire,
nel non ascoltare le sirene del cosiddetto “ah, ma il pubblico vuole questo,
vuole quell’altro”: tutte sciocchezze.
Contano molto meno di quello che i
cosiddetti soloni dell’informazione e del linguaggio dello spettacolo vogliano
far credere. Io ho creduto, il pubblico mi ha premiato, però non ho un uditorio
che mi permetta di parlare a milioni di persone con il mio linguaggio.
Ma prendiamo Dario Fo, un artista
supremo, o altri: siamo relativamente marginalizzati. La scena è tenuta dai
grandi fratelli, dalle isole dei famosi, dagli stupidi talk-show che ripetono
uno schema noioso, mortifero, ma che evidentemente fanno audience perché si è
progressivamente abbassato il livello della percezione, della fruizione; così,
naturalmente, gli spettacoli di infimo livello guadagnano grandi ascolti.
Secondo lei, l’arte può avere ancora un
potere rivoluzionario?
Potrebbe, potrebbe avere una funzione
rivoluzionaria. Perché non è un caso che i grandi artefici della satira vengano
emarginati dalla televisione.
Vuol dire che il potere ne ha ancora
paura. Lo strumento artistico, con la sua capacità di esporre iperboli, di
trasfigurare colpendo nel segno, rendendo il re nudo, potrebbe eccome avere una
funzione rivoluzionaria.
Naturalmente il fare artistico è escluso
dai grandi palcoscenici, è relegato a piccoli pubblici. Per quanto grandi, sono
sempre piccoli.
Lei, citando un famoso detto, ha parlato
di “re nudo”. Questo mi porta anche a pensare a un altro tempo, in Italia. Lei
cosa pensa del Sessantotto e degli anni immediatamente successivi?
Da un certo punto di vista è stata una
stagione molto galvanizzante, aveva in sé embrioni di ricerca, di voglia di
innovare, di rompere pregiudizi e schemi.
Da un altro punto di vista poi, in
realtà, è stato minorato da se stesso, perché sono rimasti gli aspetti più
corrivi, quelli di costume: il Sessantotto è stato un microbo per far entrare
il neocapitalismo con la sua diffusione di ciarpame, cioè la cultura di massa.
Quindi, il Sessantotto non ha compiuto
se stesso, in realtà: è stato inghiottito prima. Non è un caso che un numero
impressionante di sessantottini sono finiti nelle file delle formazioni più
conservatrici e reazionarie.
Il fatto che, con l’informazione molto
pilotata che abbiamo, nell’immaginario collettivo il Sessantotto sia confuso
con gli Anni di Piombo, non significa un timore di quella possibilità?
Questa è una squallida operazione per
liquidare gli aspetti dirompenti del fenomeno. Cosa chiedeva il Sessantotto?
Intanto chiedeva che il sapere fosse a disposizione di tutti, che non fosse più
un sapere di nicchia e di casta, e questo sicuramente rimane un valore.
Chiedeva libertà civili, chiedeva
l’immaginazione al potere, cioè come dire: basta con il potere, con i suoi
meccanismi autoreferenziali, il potere dev’essere nelle mani degli esseri
umani, dei cittadini, che devono avere la libertà di trasformare la società e
il mondo in una direzione di democrazia non formale, ma di democrazia
sostanziale, di uguaglianza, di pari dignità. È chiaro che queste cose, siccome
sono sempre pericolose e dirompenti, se vengono identificate con il terrorismo
allora si può cancellare anche il resto.
È un po’ come la rivoluzione bolscevica:
ci si è quasi dimenticati che lo zar era un tagliagole e che la Russia era un
paese feudale. Allora, certo che la rivoluzione bolscevica si è trasformata
nell’incubo staliniano, però ha posto delle grandi domande, ha sollecitato
grandi passioni.
È stato un sogno immenso, sognato da
grandi uomini, che poi sono diventati vittime del loro stesso sogno, ma,
insomma, il comunismo non è stato solo Stalin, è stato molte cose. Ma si dice
che è stato Stalin, così lo si può cancellare, cancellando anche le
domande che pone, che sono domande ancora scomode.
Per esempio, noi abbiamo una democrazia
sedicente, perché lei vede come sono ipocriti e schifosi; nel senso che noi
siamo arrivati a un regime doppio: per noi poveri cittadini c’è il libero
mercato, che ha il pieno arbitrio di fregarci, di raggirarci, con i
meccanismi dell’uso spregiudicato della gestione dei prezzi, di false
pubblicità, di ignobili posizioni di privilegio com’è nelle grandi corporation.
Pensi solo alle telecomunicazioni: fanno
quello che vogliono. Se una legge come lo Shurman Antitrust Act, fatto negli
Stati Uniti per mitigare il capitalismo, fosse fatta da noi in Europa, forse ci
avvicineremmo a una vera democrazia. E invece fanno i monopoli, fanno i
cartelli, raggirano, se ne vedono di tutti i colori.
Ecco, per noi c’è il libero mercato, ma
per le grandi corporation c’è il socialismo, perché sono in piedi solo perché
gli dà i soldi lo Stato.
Pensi che ieri sono andato a Locarno a
trovare un caro amico svizzero, il quale mi ha detto che l’Union de Banques
Suisses, la più grande banca svizzera, ha fatto bancarotta. La UBS, che aveva
come proprio reddito sei volte il PIL svizzero, ha fatto bancarotta
fraudolenta. Lo Stato svizzero, per impedire il disastro, ha voluto dare 60
miliardi di euro a una banca che ne valeva 30.
Sono dei poveracci, dicono che il lavoro
costa troppo, però quando loro combinano disastri allora no, gli si devono dare
i soldi. Siamo al di là di ogni decenza. Almeno Barak Obama, che è un grande
Presidente, ha detto: tutti i manager a casa. Chi è colpevole del disastro va
via. Che è un minimo di decenza.
E poi ha parlato della difesa del
lavoro, “a patto che si difenda il lavoro”, finalmente! Ma il sistema
capitalistico, del turbo-capitalismo, non è disposto ad andare verso una
società collettivista.
Io penso che una dinamica di mercato vada bene, ma dentro una società di tipo
socialista, dove lo Stato interviene a correggere le storture, a difendere i
lavoratori; permette agli imprenditori di fare il loro legittimo guadagno, ma
impedisce loro di speculare, di arricchirsi sulla pelle della povera gente; una
sorta di socialdemocrazia, per lo meno.
Ebbene, Barak Obama si è mosso, in
qualche modo, in questa direzione, perché il grande mito del capitalismo di
Milton Freeman, dei Chicago Boys, il capitalismo che produce ricchezza, è una
bufala, la più grande bufala della Storia. Però hanno fatto quello che hanno
voluto, mentre quello che meritavano era di morire di fame.
Sono capace anch’io di distruggere le
aziende, se mi pagano come pagano loro. Non ci vuol niente a distruggere le
aziende, anzi, forse lo faccio in un tempo più veloce, così si va ai conti.
Secondo lei questi manager saranno gente
che vive in appartamenti di 60 metri quadri? Hanno le loro ville, le piscine,
il golf…! E poi dicono che il capitalismo stimola la concorrenza, il merito:
bugie su bugie su bugie.
Però, purtroppo, il rimbesuimento
attraverso i media, attraverso l’uso della cultura di massa, è riuscito
talmente a spogliare gli esseri umani della loro capacità di capire, che non
c’è stata una vera ribellione.
Ho sentito di questa operazione di
Marchionne, che invece è un manager capace, per quanto anche la FIAT abbia
assorbito delle voragini di denaro. Lo Stato nazionale, come dice Sigmund
Bauman, ha perso la sua funzione, e anche lottare per lo stato sociale
nazionale è una perdita di tempo: bisogna cominciare a combattere per il
pianeta sociale.
Mentre le corporation internazionali
fanno le cosiddette merger, le fusioni, cioè FIAT sta facendo la fusione con
Chrysler per andare a fare la fusione poi con la Opel, i lavoratori dei diversi
Paesi, gli operai e i sindacati italiani, tedeschi e statunitensi dovrebbero
fare un grande sindacato sovrannazionale, per curare gli interessi di tutti,
non i tedeschi e gli statunitensi contro gli italiani, gli uni contro gli
altri. Difendiamoci tutti insieme, facciamo qualcosa.
La sinistra ha perso il trono, la
sinistra si è occupata di questioni di lana caprina invece di occuparsi dei
veri problemi. Si è divisa, la falce e il martello, “io sono più a sinistra, tu
sei più a destra”, dicendo di fare gli interessi della classe operaia, ma in
realtà non ha saputo portare avanti strategie di grande respiro, significative.
Purtroppo non ci sono reazioni adeguate
da parte della popolazione…
Ma lei non ha visto? Questa crisi gli ha
mangiato i risparmi, la gente è scesa in piazza. Adesso non dico di fare la
rivoluzione, ma insomma, pensavo: scenderanno a milioni, occuperanno le piazze,
a dire “fino a quando non ci date ragione di quello che ci avete fatto noi non
ci muoviamo di qui”.
No, ci sono due sindacati che hanno
fatto degli accordi vergognosi. L’unico sindacato in Italia degno di questo
nome è la CGIL, che è però in condizioni di isolamento. Capisce a che livello
di schifo siamo?
Non sarà che, come è accaduto a gran
parte della popolazione italiana, anche i partiti hanno perduto quella che è la
propria identità, e quindi un’appartenenza?
Beh, ma già mi colpisce che una destra
populista, avventurista, guidata da un padrone il quale si è arricchito
progressivamente, non faccia ragionare la gente. Noi siamo paradossalmente quasi
peggio che ai tempi del fascismo: peggio, perché il fascismo c’è stato. Noi
siamo qui con le pezze al culo e quello lì non fa altro che arricchirsi: quello
ci sta fottendo, come si fa a non capirlo?
Fa impressione, un uomo poco serio, che
fa fare una figura meschina al Paese, però perché? Perché le sinistre si sono
anche loro corrotte alla comoda vita dei politici: nessuno paga più niente. Il
politico che perde le elezioni dovrebbe andare a casa. Eh caspita, ragazzi,
siete la classe politica che nel bilancio di dieci anni non ha combinato
niente. A casa! Tutti a casa!
Questo avverrebbe anche in un’azienda
seria…
Eh, ma di aziende serie non ce ne sono
mica tante. Quelli che hanno combinato disastri sono andati a far disastri in
altre aziende, con liquidazioni principesche.
Non solo: ci sono politici che, dopo
aver lasciato la politica, diventano manager di aziende.
Si, ma Jospin è tornato fare il
professore, e Kohl… chi l’ha più sentito, Kohl? È stato un enorme statista.
Naturalmente per me è sempre stato un avversario, ma mi levo il cappello di
fronte all’uomo. È quello che ha seguito l’unificazione tedesca, è un anello
importante della storia del suo Paese.
Poi, per una cosa veniale, per non aver
rivelato la fonte di un finanziamento… finito, basta! Nessuno ne parla più. In
Italia l’avrebbero promosso, sarebbe stato Presidente della Repubblica Federale
e poi sarebbe diventato Papa.
Noi viviamo in una strana apparenza,
perché sembra che, oggi come oggi, non ci sia più censura, mentre in realtà mi
sembra che sia semplicemente più subdola, più indiretta…
Ma non è vero che non c’è censura: c’è
un’apparente situazione, ma dove vogliono colpire, non fare sentire,
colpiscono. Lei sa che il Corriere della Sera non riportava la notizia del
divorzio di Berlusconi? La richiesta di divorzio di sua moglie non c’era sul
Corriere della Sera.
A volte, infatti, basta tacere per non
far passare un’informazione.
Ma com’è possibile, il Presidente del
consiglio non dà una notizia, che è fatta anche di gossip, di cronaca, di quello
che vuoi, ma non passa la notizia che la moglie ha chiesto il divorzio dopo la
gazzarra ignobile delle veline della festa, la diciottenne che lo chiama
“papi”.
Un uomo che in questo Paese piace alle
mamme, alle mogli, alla famiglia e che ha umiliato sua moglie. Ha umiliato i
figli della sua prima moglie, che sono suoi figli. Non lo so, c’è in Italia una
popolazione totalmente narcotizzata, incapace di vedere, come se fossero
ciechi, sordi, muti. Il grande Majakovskij diceva: “Non siamo schiavi, gli schiavi
sono muti”. Ma purtroppo sembra che non sia così.
Secondo lei è passato quel pensiero
secondo il quale l’importante, anche per un’opera d’arte, per qualsiasi cosa, è
semplicemente che renda in termini economici?
Non è neanche questo, perché quando devono
dare i soldi ai loro amici incapaci glieli danno, glieli trovano. Hanno un’idea
della resa mercantile che è totalmente idiota, perché oggi noi non avremmo la
Cappella Sistina, né le opere di Michelangelo, né il Bernini, né niente, se
avessero pensato al guadagno, alla resa.
E quindi un Paese come l’Italia, che
pratica questa politica, merita che le sue opere d’arte vengano alienate e date
ai giapponesi, agli spagnoli, a gente che ne farebbe miglior uso. Perché dire
una cosa del genere è da idioti, proprio.
Pretendere che la redditività detti
legge. Per un prodotto al pubblico, la redditività è la lunga durata. Per
esempio, l’Italia ha una sorta di vantaggio nel campo della moda, ma quel
vantaggio, quello del leggendario gusto italiano, è stato creato anche da
Fellini, dal mito dell’Italia, della sua commedia dell’arte. Anche questo gioca
per portare l’Italia in una posizione di eccellenza.
Secondo lei, un artista che si sia
completamente assoggettato alle regole di mercato, è ancora un artista?
Io non posso dire che Picasso non sia
stato un artista, perché dicevano delle battute terribili quando gli chiedevano
come mai avesse fatto dei dipinti molto somiglianti, e lui diceva: per soldi.
Un grande artista può anche decidere di usare la sua arte per fare denaro.
Io non credo ai miti, sa, l’arte, il
talento straordinario, però certo noi ricordiamo Picasso per ben altre cose che
non perché ha venduto molti quadri. Lo ricordiamo per il leggendario
“Guernica”, lo ricordiamo per il suo impegno civile.
E anche per i suoi dipinti che
rappresentano il travaglio dell’uomo. Non è che Picasso abbia ritratto il ricco
con la figlia ricca che sullo yacht sguazzano nel denaro e nell’ozio. Non mi
sembra. Non può essere oggetto dell’arte, e quindi è molto difficile che un artista
possa vivere per soldi. Può farlo, ma può farlo lui, non può farlo la sua arte.
Un progetto artistico, sia in teatro,
che in letteratura, che nella pittura o in qualsiasi altro campo, è o dovrebbe
essere anche un progetto di vita, secondo lei?
Per quello che riguarda me, sì. Per
quello che attiene al mio modo è sempre una relazione con le grandi tematiche
umane, con i grandi travagli: è un modo per capire l’uomo, per capire il suo
destino e per permettere all’uomo stesso, attraverso la restituzione della
trasfigurazione artistica, di capirsi e di potersi anche reinventare. Io credo
che un grande spettacolo possa cambiare una vita intera, così come un grande
dipinto e un grande libro.
Come dicevamo prima, in Italia dovremmo
essere privilegiati per il fatto che viviamo in un Paese che ha grandi
tradizioni, radici profonde e una lingua ricca, molto sfaccettata, feconda di
sfumature; come mai allora, secondo lei, il linguaggio medio non solo delle
persone, ma anche di molti scrittori, si è irrimediabilmente appiattito?
L’impoverimento del linguaggio
corrisponde all’impoverimento della società. La società di massa ha bisogno di
linguaggi standardizzati, schematici. Tutta la società ne risente, e lo
scrittore non può usare un linguaggio sofisticato perché non ha un pubblico che
lo capisca.
E allora la scoperta di un linguaggio
nervoso, veloce può essere un vantaggio, ma spesso è un impoverimento, come la
perdita dei tanti dialetti e della loro ricchezza, che sono impoverimenti
perché la società di massa, dal punto di vista della cultura, è una società
devastante.
Insomma, chi va con lo zoppo impara a
zoppicare, come dice il noto proverbio…
Ma sì, è ciò che constatiamo in questi
tempi. È inequivocabile, lo vediamo ogni giorno, ogni ora.
Secondo lei perché pochissimi autori,
nei vari ambiti artistici, si occupano poco della propria cultura e delle
proprie radici?
Dipende, non è così vero, ma è il Paese
che non se ne occupa. Facciamo un esempio. Oggi c’erano degli inviati che
venivano da noi. Se non avessimo costruito una relazione con la nostra storia
di ieri e con tutte le ricadute culturali che questo ha avuto, anche nella
produzione di cultura tradizionale, popolare, se questo diventasse dominio
comune, noi ci renderemmo conto che siamo esattamente come quei poveracci a cui
prendono le impronte digitali per emarginarli.
E questo è scomodo: meglio spingere,
togliere gli elementi di pregio, un tassello qui, un tassello là, per poi
eliminare il cammino che può essere compiuto, all’interno di una trasmissione
televisiva, per arrivare poi magari ad un’altra visione delle cose. Ovviamente
l’irrompere di questa ricchezza è pericoloso per il potere. Il potere ha
bisogno di “sissignore”, non della gente che pensa.
Lei cosa pensa del lavoro che sta
facendo, sia come traduttore che come autore, Erri De Luca?
Secondo me lui ha svolto un ruolo
importante. Essendo un grande talento di narratore, lui ha colpito, i suoi
libri hanno raggiunto numeri importanti. La sua comprensione sia della lingua
yiddish che della lingua ebraica, per esempio, gli ha permesso di raccontare in
un ebraico molto più ricco e pregnante e, essendo conosciuto, di svolgere in
questa chiave un lavoro molto importante.
Perché ha capito alcune cose
fondamentali: ha capito che un popolo è rappresentato dalla sua lingua, ha
capito le differenze fra l’ebraismo diasporico e l’ebraismo ortodosso, ma anche
le grandi differenze fra l’establishment religioso e invece la verità profonda,
che non è mai quella dei chierici.
E in questo senso ha svolto un lavoro
molto prezioso, al di là del valore suo intrinseco di scrittore e di pensatore.
Per concludere le volevo proporre un
pensiero di Yashar Kemal, lo scrittore turco più volte candidato al premio
Nobel. “Se la gente di un paese vuole vivere bene e felice prima deve rispettare
e fare propri i valori universali, e garantire la libertà di pensiero senza
confini. […] La ricchezza culturale del nostro Paese è nelle nostre mani”.
È un pensiero molto giusto questo, siamo
noi i responsabili, è fuori da ogni discussione: dipende dalle scelte, dal
coraggio, dalla determinazione a cui stiamo con la nostra cultura. Qual è
l’orientamento del Paese? Condivido, assolutamente.
LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’INTERVISTA
· (pubblicato con l'autorizzazione di www.inkroci.com)
Nessun commento:
Posta un commento