di Heiko H. Caimi
Moni Ovadia, Ritratto di Sam Franza |
Moni Ovadia si è dimostrato gentile, disponibilissimo,
e ci ha permesso di fargli un’intervista in due parti, a cavallo con i suoi
impegni. Ha partecipato, si è accalorato e non c’è argomento che non gli abbia
suscitato una risposta.
L’intervista, inedita fino ad oggi, è stata raccolta tra il 29 aprile e il 3
maggio 2009; per questo alcune domande vertono sul 25 aprile e sul 1° maggio.
Ne presentiamo qui la prima parte.
So che recentemente ha partecipato a una
manifestazione per il 25 aprile, precisamente davanti alla casa dei fratelli
Cervi…
Sì, al museo Cervi, sì.
In un articolo pubblicato in internet da
Caliceti, che è uno dei pochi che hanno fatto menzione dell’evento, ho letto
che lei ha fatto alcune dichiarazioni molto dirette, molto precise. In
particolare lei afferma che è importante sapere da dove arriva, questa festa di
oggi.
Certo, naturale.
Ma, se sono veritiere le interviste che
hanno mostrato al TG, ci sono moltissime persone che non sanno che cosa
veramente si festeggi.
È il problema dell’Italia. Lo dicevo anche in un’intervista che ho rilasciato a
Micromega. Berlusconi non sarebbe al governo se la gente conoscesse la
Costituzione e sapesse che cosa sia stata la Resistenza antifascista. I
presupposti della Resistenza antifascista sono, e questo lo dice anche Primo
Levi, che, in una società dove ci sono dei privilegi, c’è ancora la radice del
nazifascismo. Primo Levi ammonisce a combattere il privilegio come uno dei
terreni di coltura del fascismo. Noi abbiamo un Paese in cui il privilegio
regna sovrano. Una giustizia che -uso un termine che potrebbe sembrare
veterocomunista, ma non lo è- è una giustizia di classe: i poveracci vanno in
galera, i grandi malfattori stanno fuori. C’è l’impunità dei grandi malfattori,
e non voglio negare che qualche mafioso stia in galera, tuttavia questo non
impedisce alla mafia di avere il controllo di una parte significativa del
territorio nazionale. Quindi il grande insegnamento della Resistenza
antifascista è che rende protagonisti per la prima volta gli umili, le classi
che si chiamavano subalterne, i lavoratori; la Resistenza antifascista è
combattuta anche da intellettuali, da persone della borghesia progressista o
liberale di alto profilo, ma è combattuta in gran parte da lavoratori, da contadini,
da operai, da artigiani.
È una rivolta che viene dal basso…
È una rivoluzione dal basso che porta questa novità. Intanto rende il popolo
italiano un popolo unico per la prima volta, nel senso che solo con la
Resistenza le cittadine e i cittadini diventano uguali. Prima le donne erano
cittadini di serie zeta: attrici o prostitute, oppure tutte e due insieme,
qualche volta, ma la concezione della donna che si aveva durante il fascismo
era una concezione discriminatoria, estremamente antidemocratica. Solo con la
Resistenza antifascista le cose cambiano, e se lo dovrebbero ricordare
certe pasionarie del centrodestra che, se oggi si agitano in
Parlamento con tutto quel pathos, come la Mussolini, lo devono ai partigiani. E
lo devono anche ai partigiani comunisti. Anzi, soprattutto ai partigiani
comunisti. Queste cose vanno sapute: se fossero coscienza collettiva noi non
avremmo quello che abbiamo oggi. Non solo, ma la Resistenza antifascista
dichiara una cosa solennemente, ed è il proprio presupposto: che non ci sono
democrazia e libertà senza eguaglianza.
Fra l’altro è importantissimo, nella
guerra di Resistenza, l’apporto delle partigiane. Le donne hanno fatto
moltissimo in quella Resistenza. Dalle staffette a vero e proprio partigianato,
anche combattente.
Esattamente. Anche combattente. E lo fanno in maniera significativa all’interno
della lotta partigiana, perché sanno che la posta in gioco è la loro dignità di
esseri umani; e lo è anche la dignità della donna in quanto essere umano e
cittadino, cosa che nel fascismo è totalmente negata, o perché subordinata al
ruolo di sfornare figli, o perché destinata a svolgere, nell’altro caso, il
ruolo sessuale di soddisfare il riposo del guerriero.
Oppure l’angelo del focolare, nel
migliore dei casi…
Sì, la retorica più vieta e più frusta.
Nel TG cui ho accennato, una ragazza
intervistata affermava, più o meno: “Io all’epoca non c’ero, quindi la cosa non
mi riguarda”. Non è un’affermazione inquietante?
Un’affermazione del genere dimostra la pochezza della formazione alla coscienza
collettiva, alla coscienza civile dei nostri giovani. Questa signorina non si
rende conto che, se non ci fosse stato quell’evento cui lei non ha partecipato,
la sua vita sarebbe completamente diversa. È come se lei dicesse: siccome io non
c’ero, la mia vita la considero semplicemente il dono di qualcuno, oppure un
incidente, non m’interessa; e quindi, se un domani le dicessero che lei non è
libera di votare, dovrebbe stare zitta. Ma purtroppo questo atteggiamento
qualunquista, che è diffuso in certe fasce della popolazione, in certi
soggetti, non solo in Italia, ma soverchiamente nel nostro Paese, è il frutto
di una mancata defascistizzazione dell’Italia e anche di un’operazione a
rendere innocua la coscienza collettiva, così difficilmente e sanguinosamente
conquistata. Perché non era interesse di allora. Mi spiego… Noi abbiamo una
Germania, oggi, ben diversa dalla Germania di ieri, perché
la denazifi-zierung è stata presa sul serio. Pensi che la
Costituzione tedesca -io vorrei fare battaglia perché fosse introdotto anche
nella nostra- sancisce il diritto costituzionale a ribellarsi a leggi ingiuste.
Perché ha tratto ammaestramento da quell’orrendo assetto culturale che permise
ai caporioni nazisti di dire “obbedivo agli ordini”. Da noi, cos’è successo?
Quando ci sono state le urgenze della guerra fredda, il governo, in ossequio ai
desiderata del governo degli Stati Uniti d’America, espulse dai corpi dello
stato -parliamo soprattutto di polizia, prefettura e servizi segreti- tutti
coloro che avevano fatto la Resistenza e reintegrò tutti i fascisti che
l’avevano fatta franca grazie al guardasigilli Togliatti, che firmò l’amnistia.
La volle, la propose e la firmò. Togliatti fece una cosa giusta da un lato,
l’avrei fatta anch’io, perché non si vive in guerra permanente, però avrei
chiesto una cosa: nessuno che sia stato compromesso col regime fascista
repubblichino o con i nazisti deve poter entrare negli organi dello Stato.
Almeno dire: vadano liberi, amnistiati, ma non potranno mai più, vita natural
durante, avere accesso alle strutture delicate e cruciali degli organi
repubblicani costituzionali. Invece no, fecero l’esatto contrario: espulsero i
partigiani.
In quanto destabilizzanti…
Perché considerati pericolosi, sovversivi e simpatizzanti dell’Unione
Sovietica. Noi abbiamo avuto questa cosa. Ora, quando questa cosa è finita, non
ci si è preoccupati di dire “adesso però…”; no, al contrario, questa cosa è
proseguita con l’ingresso dei fascisti, degli ex fascisti, in una forza del
centrodestra. Poi, naturalmente, questi ex fascisti hanno fatto un percorso
iniziale di grande maquillage. Oggi il loro attuale rappresentante, il
nostro presidente del Parlamento Gianfranco Fini, sembra francamente aver fatto
un percorso più profondo, e più onesto forse, anche perché ricopre un ruolo
istituzionale, o forse perché ha pian piano preso coscienza di che cosa è
praticamente il fascismo. A volte può succedere questo: che uno, obnubilato per
un lungo periodo anche per l’appartenenza a una certa famiglia, per consentire
una tradizione, quando viene sollecitato, e se è dotato di una sensibilità
umana, possa veramente capire un grande errore, anche perpetrato a lungo. Però,
secondo me, una parte dei militanti di Alleanza Nazionale, quelli soprattutto
che provengono dalle file del M.S.I., manifesta ancora forti nostalgie e
turbamenti verso l’idea dell’ordine costituito, altrimenti sarebbero i primi a
ripudiare certe leggi. Come le impronte digitali ai bambini rom o i medici
delatori proposti dalla Lega Nord, che è un partito xenofobo e razzista. Anche
se io ritengo che le sue scelte di orientamento xenofobico e razzista siano
fatte più per interessi di bottega che per sentire reale: hanno capito che così
hanno un buon elettorato, quello più fragile, quello meno acculturato. Però,
detto questo, una vastissima parte della popolazione italiana, qualcosa come il
55% forse, non conosce la Costituzione repubblicana, non ne sa i valori
autentici e guarda con un certo fastidio, o indifferenza, alla lotta
antifascista e alla Resistenza.
Ma l’anomalia italiana non può essere
dovuta anche al fatto che in Italia non abbiamo avuto l’equivalente del
processo di Norimberga?
Sono d’accordo con lei. Anch’io ne parlo spesso. Paradossalmente, le dico uno
dei grandi paradossi italiani, tutto questo è avvenuto a causa della grandezza
della Resistenza antifascista e partigiana: perché i partigiani, gli
antifascisti, hanno salvato l’onore dell’Italia, mentre un fenomeno consimile
non c’è stato in Germania, se non marginalmente, anche perché i nazisti
all’origine furono molto più duri e spietati, liquidarono proprio fisicamente
gli oppositori. In Italia noi siamo quelli che “sì, qui il fascismo ha perso la
guerra, però c’è stato il 25 aprile, l’8 settembre, la Resistenza, per cui
siamo anche paese combattente a fianco degli Alleati” e via dicendo. Questo ha
permesso di sfangarla, unito al mito di “italiani, brava gente”. C’è un
bellissimo libro con questo titolo, dello storico Del Boca, il più grande
specialista dell’Africa Orientale e di tutti i crimini perpetrati dagli
italiani, a cominciare dalla Cirenaica a finire con la Libia. Ora le dico: 720
criminali di guerra del fascismo italiani sono stati chiesti al giudizio da
greci, albanesi, africani e slavi; non uno è stato consegnato, non le dico alla
condanna, ma al giudizio. Ancora responsabilità della guerra fredda: non
bisognava indebolire l’Italia. E oggi noi abbiamo istituito il giorno del
ricordo, in cui si ricordano giustamente le vittime delle Foibe, le sofferenze
dell’esodo istriano; ma i crimini specifici del fascismo italiano, spaventosi e
orrendi genocidi, sono cose ignorate dall’80% degli italiani. Infatti io penso,
l’anno prossimo, di celebrare il giorno del ricordo, ma di celebrarlo in altra
maniera.
Può anticiparci qualcosa?
È molto semplice: utilizzare il giorno del ricordo per parlare sì delle Foibe,
dei profughi, ma per parlare anche dei crimini del fascismo italiano. Mi sembra
il minimo. È una vergogna che anche una parte dell’opposizione manifesti,
rispetto a questo problema, molta debolezza e molta connivenza con il gioco a
fare “chi ha dato ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto”.
Credo che gli elettori di sinistra si
sentano molto poco rappresentati, in questo momento.
Eh, purtroppo.
Fra l’altro siamo a cavallo tra due date
importanti, tra due “festeggiamenti” importanti, perché ci avviciniamo al Primo
Maggio, che viene considerato festa dei lavoratori, festa del lavoro, ma di cui
spesso non si sa l’origine: non si sa che cosa avvenne a Chicago, non si sa
quale sia il motivo per cui si celebra.
Non c’è dubbio che anche su questa questione bisognerebbe riaprire
completamente il discorso, perché il primo articolo della Costituzione
repubblicana recita “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Non c’è
nulla di più truffaldino di questo. Potremmo dire che è basato sull’evasione
fiscale, sulla speculazione finanziaria, è fondato sul potere mediatico di un
solo uomo, è fondato sulla furbizia, su tutto fuorché sul lavoro. È il settore
della vita nazionale più umiliato, più percosso dall’ingiustizia: abbiamo oltre
mille morti per incidenti sul lavoro, abbiamo folle di precari, persone che non
possono fondare sul lavoro la costruzione di una vita che abbia elementi di
sicurezza per poter allevare una famiglia. Il lavoro è trattato peggio di una
cenerentola, è il figlio del cane della serva. Quindi mentono, mentono. Noi
abbiamo ripetutamente governi e classi politiche fuorilegge. Perché la
Costituzione ammaestra sui diritti del lavoro, poi siamo arrivati a un momento
molto alto con lo Statuto dei Lavoratori, ma adesso lo vogliono cancellare. E
allora ecco che, ancora una volta, l’insegnamento straordinario dei padri
costituenti fu quello slogan, Piero Calamandrei, nel suo famoso “Generale
Kesserling, se vorrai tornare ci ritroverai morti e vivi…”, finisce con un
monito: “Ora e sempre Resistenza”. Ora e sempre! È la seconda parte che
dobbiamo mettere in campo. La Resistenza è sintesi dei valori più alti
conseguiti nella storia dell’umanità, ma non può esistere una democrazia
fondata sulla Resistenza senza considerare la Resistenza un processo di lotta
per continuare a conquistare e a riaffermare i diritti fondamentali, di
lotta al privilegio, alla disuguaglianza, all’ingiustizia. Quindi, siccome
disuguaglianza e ingiustizia regnano sovrane, la grandissima parte della
Resistenza è ben lungi dall’essere attuata, e noi siamo chiamati a combattere
in modo più duro per riaffermare, ora e sempre, quella Resistenza tramandataci
dai padri costituenti.
Quello che mi sembra latitare in Italia,
più che in altri Paesi, è proprio la memoria, la memoria storica.
Questa è un’altra questione. Oggi c’è un gran parlare di memoria legato alla
Shoah, e con “Shoah” si intende lo sterminio degli ebrei; come lei sa, io sono
ebreo, ma trovo che il problema della memoria sia molto più vasto. Per esempio
quella del lavoro. Sarebbe importante fare capire come un Paese e le sue
fortune si edifichino sul lavoro. Quanti dei nostri giovani sanno che il Primo
Ministro De Gasperi vendette carne umana al Belgio, minatori in cambio di
carbone? Quanti lo sanno? Dovrebbe essere consapevolezza nazionale il dolore
dei nostri lavoratori, la fatica che hanno fatto per darci prosperità e
benessere; dovrebbe essere qualcosa che si sa, che si apprende col latte
materno, in modo che noi impariamo qual è il valore del lavoro nel mondo. E
invece noi, con trasmissioni come le veline… Vede una sola trasmissione in
televisione dedicata al lavoro?
No, nessuna.
Dedicate alle scommesse, al crimine, a vendere il proprio corpo, a fare i
cretini…
Ogni tanto c’è qualche accenno in
trasmissioni come “Report” o in documentari a tarda notte.
Guardi, se io fossi il signor presidente della RAI, o un funzionario
importante, per esempio, chiamerei i più bravi registi italiani o stranieri e
gli direi di fare una fiction dedicata al lavoro; e attraverso la fiction, uno
strumento popolare, farei capire agli italiani, appassionandoli con le vicende
dei protagonisti, cosa è veramente il mondo del lavoro: le sue difficoltà, i
licenziamenti, i drammi. L’altra sera sono stato a fare un incontro su
“Olocausto e memoria”, ma ho parlato della memoria del lavoro, della memoria
operaia. C’erano con me i lavoratori di una fabbrica occupata, e mi hanno
raccontato i loro drammi: si comincia con la cassa integrazione, vogliono
licenziarli, ad opera di un imprenditore che ha fatto fallire diverse aziende,
riempiendosi le tasche. Ebbene, uno di loro, che fa parte del Comitato di
difesa del posto di lavoro, ha raccontato storie tragiche: ci sono stati due
tentati suicidi, ci sono degli operai, dei lavoratori ridotti a clochard,
perché non avendo lo stipendio sono stati buttati fuori di casa, avevano
l’affitto in nero. Chi le conosce queste cose? Sì, se ne parla magari ad “Anno
Zero” e se ne parla dalla Gabanelli, ma anche se hanno un’audience dignitosa,
la stragrande maggioranza del Paese ignora queste cose.
Ma… secondo lei perché la cultura a
molti fa paura?
La cultura è lo strumento di rimessa in questione della politica, della
società, della vita del cittadino. Lo strumento della cultura è strumento
eminentemente critico. Altrimenti non è autentica cultura. E naturalmente è
scomodo pensare. Pensare è scomodo. In un Paese civile la cultura dovrebbe
essere tra i primi tre o quattro punti dell’agenda politica di ogni serio
partito, e invece è il fanalino di coda. La gran parte della classe politica
italiana ignora i valori della cultura, li usa solo come fiore all’occhiello.
Pensano che la cultura sia qualcosa che si esibisce perché si è persone
studiate, o non so io cosa, ma non il valore fondante di una civiltà, perché se
no sarebbero ben altri gli investimenti sulla cultura. E invece, appena
possono, tagliano proprio la cultura. La cultura forma la dignità di un Paese.
Se l’Italia non avesse la sua cultura cosa sarebbe? Togliamo all’Italia il
Barocco, il Rinascimento e via dicendo, togliamo poi Dante, togliamo Ariosto,
Petrarca, togliamo la grande arte, leviamo tutto: che cosa resta dell’Italia?
Una fila squallida di fabbrichette o di grandi empori del consumismo. È,
questo, un Paese? È un luogo in cui nessuno vorrebbe vivere.
Ho letto un intervento che lei ha
scritto per l’Unità del 3 aprile, nel quale si scaglia contro la reazione di
Israele per quanto riguarda gli attacchi di Hamas nella striscia di Gaza.
È chiaro che l’operazione di Hamas di gettare missili sui civili in
un’operazione illegale è totalmente inaccettabile. Ma la reazione di Israele,
che pretenderebbe di essere motivata da questi lanci, in realtà non ha sortito
l’effetto di sconfiggere Hamas, ma solo di creare ulteriori dolore e
disperazione per il popolo palestinese. Tra l’altro, a quanto pare, sono stati
commessi dei crimini di guerra, in quella striscia di Gaza. Hamas controlla
Gaza, Gaza è un luogo tenuto sotto assedio, è una prigione a cielo aperto. Gli
israeliani, però, quando c’è stato l’ultimo lancio l’hanno blindata, l’hanno
chiusa. È una gabbia a cielo aperto. Io credo che la politica israeliana nei
confronti di Gaza sia quanto di più sciagurato e ingiusto: è la più totale
mancanza di lungimiranza che io abbia visto negli ultimi anni. Le valutazioni
israeliane così sono surrettizie e capziose… Non c’è una sola ragione per
occupare una terra, un popolo e ridurlo alla disperazione, non una. Le uniche
ragioni che ci sono, sono deteriori, ingiuste e negative.
Lei ha avuto modo di leggere qualcuno
dei testi di Ibrahim Souss?
Sì, ho letto qualcosa. Noi dobbiamo sapere una cosa: che bisogna superare la
logica della fazione per trovare una soluzione ai problemi di lì, perché i due
popoli o escono insieme, o non escono da quella situazione. Però l’idea degli
israeliani di mantenere lo statu quo facendo finta di niente è
semplicemente delirante, ed è causa di continue infamie e ingiustizie. Non è
bello per un popolo fare lo sbirro a un altro popolo. Non è bello, è
disonorato, è ignobile. Questa occupazione danneggia gli israeliani in modo
diverso ma in modo altrettanto forte dei palestinesi.
E infatti lei, in un’intervista di
qualche anno fa, ha dichiarato che c’è una sorta di delirio di sé, in Israele.
La paura è motivata da fatti oggettivi, perché nessuno può dire che Israele non
abbia avuto morti; tuttavia è in gran parte capziosa e surrettizia: oramai lo
scopo è espropriare i palestinesi delle loro risorse, e al contempo
espropriarli dalla loro vita, dalle loro topografie esistenziali. Una cosa
davvero vergognosa. Poi l’establishment israeliano fa una cosa inaccettabile,
cioè quella di pensare di essere al di sopra della legalità internazionale,
nonostante ci siano due risoluzioni dell’ONU, che si chiamano 338 e 242,
vincolanti perché votate da tutto il consiglio di sicurezza, Stati Uniti
compresi. Tant’è vero che oggi una certa zona già indica Barak Obama come non
buono per Israele perché, per quell’establishment conservatore se non
reazionario, che oggi ha un ministro degli esteri che è un razzista, Lieberman,
Obama non è affidabile. Gli israeliani pensano che l’israeliano non sia
razzista, che sia solo una reazione alla cattiveria dei nemici di Israele. Io
credo che sia arrivata l’ora di dire basta a questo uso strumentale. Sia
chiaro, l’antisemitismo è un crimine ignobile, disgustoso e bisogna
contrastarlo con la massima fermezza. Detto questo, però, non è che si può
starnazzare all’antisemitismo ogni volta che qualcuno critica Israele. Non se
ne può più di questo ignobile ricatto. Non se ne può più. Io ho intenzione di
essere molto fermo in questa cosa, e di cominciare a dire: adesso basta. Bisogna
distinguere tra antisemitismo e legittimissima critica al governo d’Israele. E
il governo di Israele, se compie degli atti illegali e degli atti di violazione
della legalità internazionale, va denunciato con estrema fermezza, come
chiunque altro. Non ci si può fare ricattare da questa cosa, anzi, bisogna
elaborare una cultura politica, come ha fatto magnificamente Avraham Burg. Non
so se lei conosce il libro di Avraham Burg…
Purtroppo no.
Si tratta di un libro durissimo nei confronti dell’establishment israeliano
attuale, del militarismo che permea, da un certo punto di vista, la gran parte
dell’establishment politico israeliano al potere. Avraham Burg è stato
Presidente del Parlamento israeliano, però naturalmente adesso anche lui è
considerato un antisemita e un nemico del popolo ebraico! Abbiamo firmato un
documento in Italia con Ali Rashid, segretario della delegazione palestinese in
Italia, e io, proprio in quanto ebreo, sento un dovere molto forte contro
questa ambiguità: sembra che lo stato d’Israele pretenda l’assoluta impunità,
qualsiasi cosa faccia. Questo è davvero intollerabile, perché fa male, prima di
tutto, proprio ad Israele. Quelli che si dicono gli amici di Israele sono i
suoi peggior nemici. Direi “dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi
guardo io”. Sono proprio entrati in una specie di delirio.
Lei invece ha fatto una ricerca
approfondita nelle radici della tradizione ebraica.
Sempre con gli strumenti dell’uomo di teatro e dell’indagatore rapsodico,
perché io non sono uno studioso. Non sono studioso di niente. Non ho tempo per
esserlo.
Spesso però cita alcuni testi, durante i
suoi spettacoli.
Sì, beh, ho studiato, quello che ho letto lo cito. Ho cercato di fare questa
ricerca anche nella persuasione che, per collegarlo al discorso di prima,
l’ebraismo, senza universalismo e critica dell’uomo, senza la centralità
dell’uomo, è solo un pensiero tribale; se diventa il pensiero degli ebrei, se
torniamo a prima di Abramo, allora tanto vale. Abramo ricerca la benedizione
universalista: “in te si benediranno tutte le famiglie della terra, ama lo
straniero come te stesso” è il comandamento più ripetuto nell’Antico
Testamento. Nella Torah. Se perdiamo questo, se perdiamo l’idea che il delirio
della terra è un atto d’idolatria grave, allora l’ebraismo regredisce a un
pensiero tribale.
E qui arriviamo al suo libro “Contro
l’idolatria”…
È quello che ho cercato di esprimere in questo mio librino: che l’ebraismo è il
pensiero anti-idolatrico. Se si sostituisse alla Torah l’idolatria dello stato
d’Israele saremmo a un pensiero tribale. Io penso che lo stato d’Israele abbia
pieno diritto alla sicurezza, a vivere in pace e tranquillità, dentro i confini
della legalità internazionale: perché c’è scritto proprio nella Torah, “c’è un
confine”. Quindi Israele avrebbe piena legittimità anche, se vuole, a farsi un
muro, all’interno della Linea Verde. Quello è il suo confine, è riconosciuto
dal 99% dei Paesi del mondo, Stati Uniti compresi. Israele dice: sicurezza.
Benissimo, Israele ha pienamente diritto a difendersi, però all’interno del
proprio confine. Del resto anche Abd Allah, principe di Arabia Saudita prima, e
oggi re, ha fatto la famosa proposta del 2002, rinnovata nel 2007, che Israele
si ritiri sul confine della Linea Verde e che tutto l’Islam e i Paesi Arabi
riconosceranno pienamente Israele. Israele si è ben guardato dal rispondere,
perché non ne ha la minima intenzione. Parlo del governo in carica,
naturalmente. All’interno dell’establishment politico attuale la migliore, in
questo momento, mi sembra essere Tzipi Livni. Tzipi Livni è stata molto
sapiente nel non essere andata col governo di Netanyahu, perché Netanyahu l’ha
detto esplicitamente, di uno stato palestinese non se ne parla neanche. Ma la
cosa tragica è che le comunità ebraiche non siano insorte dicendo: “Come,
Netanyahu non vuole uno stato palestinese? Noi siamo per la legalità
internazionale”. No, tutto normale. Un Paese democratico non occupa un altro
popolo. Non lo fa, non è uno statuto accettabile. Intanto non esiste sul
terreno una proposta israeliana: l’ha mai sentita? Dicono: “faremo grandi
sacrifici”. Tutto generico. Ma non hanno mai detto, per esempio: “noi
dichiariamo solennemente che le terre del ’67 non sono nostre. Non le vogliamo.
A noi basta che i palestinesi smettano di farci atti ostili e noi le
restituiremo tutte, fino all’ultimo centimetro”. No. Hanno piazzato colonie a
macchia di leopardo in ogni angolo dei territori palestinesi. Quando si sono
ritirati da Gaza l’hanno poi blindata in una prigione. È un atto di ostilità, l’assedio
è un atto di ostilità. Tutto è costruito su un cumulo di propaganda e di
ideologia, forte dell’utilizzare l’argomento di ciò che gli ebrei hanno subito
nel passato in una maniera assolutamente capziosa e strumentale, il che è
vergognoso. Anche questo fatto di non presentarsi a Ginevra, alla conferenza
sul razzismo: perché lasciare il palcoscenico ad Ahmadinejad? Non capisco.
Ahmadinejad è un dittatore, non sa neanche che cos’è la democrazia, quindi ha
pochi titoli per parlare, perché, onestamente, che guardi un po’ nel sacco suo!
Ci racconti come vengono trattate le donne, in Iran. Però vai lì e diglielo.
Vai lì, ti presenti e dici: “noi non riconosciamo nessuna legittimità al
presidente Ahmadinejad. Il Presidente Ahmadinejad non è stato nominato da nessuno,
rappresenta solo se stesso”. Ti rivolgi ai popoli e alla gente, vai lì e lo
contesti, lo fai a pezzi. Il non andare è un sottrarsi, naturalmente, a domande
imbarazzanti. Se invitassero me, andrei dal presidente Ahmadinejad a dirgli:
“Presidente, lei propone di fare lo Stato ebraico nella Carinzia, in Polonia e
in Germania. Io sono d’accordo. Per cortesia, convinca i tedeschi, i polacchi e
gli austriaci, che poi ne riparliamo. Ma, finché non li ha convinti, ci
risparmi le sue cazzate, perché abbiamo cose più serie di cui occuparci”. Io
saprei che cosa dire ad Ahmadinejad. È ovvio: quegli uomini lì bisogna
farli a pezzi ridicolizzandoli. Perché è chiaramente ridicola la posizione di
Ahmadinejad. Perché non propone che tutti gli Stati Uniti vengano restituiti ai
nativi? Ma la storia è trasformazione: noi dobbiamo trovare per i palestinesi
una soluzione equa, che salvaguardi gli israeliani, che ormai lo sono da
quattro generazioni. Persino in Sudafrica, dove c’è stata una vera e propria
occupazione coloniale, Nelson Mandela si è ben guardato dal dire cose del
genere. I cittadini bianchi del Sudafrica sono cittadini esattamente come i
neri. Si cerca di riportare un giusto equilibrio, con molta fatica, con molta
difficoltà, tutto quello che si vuole, ma… No, le pare?
Mi pare eccome.
Lei ha anche invitato a ridere i lavoratori di tutto il mondo, parlando
invece di stalinismo, ma anche di anticomunismo…
Guardi, con questo apriamo un altro capitolo. Siccome io ho sempre alle spalle
una scelta programmatica, è diciamo un ri-avvicinarsi a quella storia, a
quell’epopea straordinaria e tragica che fu la rivoluzione bolscevica, con il
suo esito nello stalinismo e poi nell’Unione sovietica, con uno sguardo umano,
contro i revisionisti; il revisionismo da boudoir televisivo che tratta
quell’epoca come se in Unione sovietica ci fossero stati Stalin e una massa
disperata di gente in pigiama da carcerato. L’Unione sovietica è stata anche
altro. L’Unione sovietica è stata un grande sogno che ha avuto il suo esito in
un incubo nella fase staliniana, poi un tentativo fallito di costruire
un’alternativa al capitalismo sulla base anche di premesse ideologiche, ma è
stata fatta anche da molte donne e uomini che hanno creduto in un grande
ideale, che hanno posto delle domande cui non è ancora stata data risposta:
“Quando finirà lo sfruttamento? Quando ci sarà la giustizia sociale? Quando
ogni uomo avrà la stessa dignità dell’altro?”. E poi ho riaperto il discorso
sui 27 milioni di sovietici che dettero le loro vite perché la barbarie
nazifascista fosse fermata, sull’assedio di Leningrado, che è uno degli esempi
più sconvolgenti di tutta la storia dell’uomo di Resistenza umana contro la
ferocia e la barbarie. È stata, l’Unione sovietica, molte cose. Ed è stata
anche di molte donne e uomini che hanno amato, hanno vissuto, sono esistiti e
che hanno anche creduto di mettere in campo un progetto per il riscatto
dell’umanità tutta. Meritano dignità e rispetto. Raccontare dei crimini
staliniani non deve e non può far dimenticare tutto il resto.
Però viene strumentalizzata in questo
senso…
Siccome i revisionisti da boudoir televisivo non hanno lo scopo di parlare di
quell’epoca, ma di fare raschiare voti ai loro sponsor politico-economici,
allora ho pensato che uno sguardo, soprattutto attraverso la grande griglia
urticante dell’umorismo ebraico, potesse ripristinare certe cose. Parlavamo di
Israele: oggi è uscito un coraggioso libro dell’editore Teti, ad opera di un
giornalista e storico russo che si chiama Leonid Mlecin, intitolato “Perché Stalin
creò Israele”. Senza Stalin, senza la sua azione politica e il suo appoggio
militare, lo Stato di Israele non sarebbe mai esistito. Poi Stalin invertì la
rotta con un tipico modo suo e scatenò una vera e propria campagna antisemita
nella Russia sovietica, però non si può negare che Stalin fu il principale
artefice internazionale dell’esistenza dello Stato di Israele e della sua
difesa, nei momenti più difficili. Perché mentre l’imperialismo britannico
armava giordani ed egiziani, gli Stati Uniti precipitavano nel maccartismo, che
oltre a essere una caccia alle streghe comuniste fu un’orchestrata e ben
condotta campagna antisemita. Se consideriamo che le vittime di Stalin furono
al 70-75% ebrei e mezzi ebrei, gli Stati Uniti e l’Inghilterra, nel ’47, hanno
decretato il blocco alla fornitura di armi ai combattenti ebrei in Palestina.
Se fosse stato per gli Stati Uniti, Giordania e Egitto avrebbero fatto a pezzi
l’embrione dello Stato d’Israele, che sarebbe stato cancellato. Ma queste cose
nessuno le ricorda. Stalin fu il primo a dare il proprio sostegno politico ai
combattenti ebrei della Palestina nel ’44; e, fino al ’48, al ’49, il suo
sostegno fu pieno. Quando, attraverso la Cecoslovacchia, aggirò il blocco degli
inglesi e degli americani, e dette le armi ai combattenti ebrei della
Palestina, Abba Eban disse: “L’URSS era l’unica potenza a sostenere la nostra
causa”; e Golda Meir disse: “non sappiamo se avremmo potuto resistere senza le
loro armi”. Stalin mandò non solo armi leggere, ma anche armi pesanti e
l’aviazione: mandò ai combattenti israeliani i micidiali caccia Messerschmitt
che aveva sequestrato ai nazisti. Anche simbolicamente, dette quelle armi ai
combattenti ebrei della Palestina. Tutto questo non fa comodo ricordarlo. Si
dovrebbe invece dire: è vero che Stalin scatenò una campagna antisemita negli
anni fra il ’49 e la sua morte, ma è anche vero che prima è stato il principale
artefice dell’esistenza dello stato d’Israele. Sintomo per l’epoca, nei cinema
di Tel Aviv si cantava, alla fine delle proiezioni, la Ha-Tikvah, la
speranza di un israeliano, subito dopo l’Internazionale e, per ultimo,
l’inno nazionale sovietico. Vale la pena leggere il libro di Mlecin: è molto
bello, scritto in uno stile agile, giornalistico, e super-documentato, perché Mlecin
ha avuto accesso anche agli ultimi archivi aperti, alle carte e agli archivi
sovietici aperti dopo cinquant’anni dalla morte di Stalin. Li hanno aperti nel
2003. Leonid Mlecin, “Perché Stalin creò Israele”, Teti editore. È un
libro che va diffuso, fatto conoscere.
FINE PRIMA PARTE
(pubblicato con l'autorizzazione di www.inkroci.com)
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