di Enrico Jessoula
- Dai, non far finta di non capire. La gente dice che sei tu il Nicola dell’intervista televisiva, quello che trafficava con zia Rosalia… - la ragazza aveva lasciato la frase in sospeso, terminando con una risata fresca e simpatica, ignorando la domanda sul nome, dimostrandosi per nulla scandalizzata dal fatto in sé.
- Stai scherzando, spero! Che c’entro io? –
Nicola aveva
dovuto schermirsi per forza. L’anonimato in questi casi è d’obbligo; poi con un
colpo di coraggio imprevisto le aveva detto che se era libera nel pomeriggio
potevano approfondire la questione, e si erano infine accordati per uscire in
motorino.
- Ma tuo papà ti lascia? – Aveva chiesto Nicola
preoccupato.
- Penso di sì. Sai, lo dicono tutti che ha un
debole per me, se glielo chiedo coi giusti modi non sa negarmi niente – ammiccò
con fare civettuolo – uuh, com’è tardi, devo proprio andare. A dopo. -
Avevano puntato
col motorino verso il parco di Capodimonte, dove non avevano affatto
approfondito la vicenda di zia Rosalia. Nicola aveva dirottato subito il discorso
sull’imprenditore suicida, una storia che sembrava interessarlo molto.
Il parco da
quella volta era divenuto la loro meta fissa, per giorni e giorni avevano ripetuto
la stessa gita. Nicola si era messo in testa che Ajraghi non si fosse affatto suicidato;
sperava quindi di trovarvi degli indizi per dimostrare che era stato
assassinato.
C’era infatti qualcosa
che non tornava, secondo lui, in quella vicenda: l’imprenditore lombardo era
stato visto a cena da zi’ Teresa, poi aveva chiesto un taxi per
l’aeroporto: questo particolare era stato confermato agli inquirenti da vari
testimoni del ristorante.
Che cosa poteva
essere successo dopo? E’ possibile che Ajraghi abbia detto al tassista:
- Guardi, ho cambiato idea, mi porti a
Capodimonte che mi è venuta voglia d’impiccarmi. –
Oppure:
- Mi lasci sulla collina di Capodimonte vicino
a un albero; ecco, questo qui va bene. Non avrebbe per caso una corda e uno
sgabello? –
Sì, perché in
effetti Peppino, il mitico chef di zi’ Teresa, pur tra mille dubbi e
reticenze, aveva dichiarato che, se la memoria non lo tradiva, l’ospite
milanese aveva con sé solo una valigetta ventiquattrore. E allora? Era
possibile che si fosse fatto portare dal tassista fino alla bottega di un
rigattiere e vi avesse comprato sgabello e corda?
No, tutta quella
storia non aveva senso. Restava la faccenda delle impronte, cioè la mancanza di
qualsiasi altra traccia sul posto che non fosse dell’Ajraghi: da questa
constatazione era dipesa la rapida archiviazione del caso.
Nicola ricordò quanto
si fossero appassionati a giocare agli investigatori. Qualcosa avevano anche
trovato: un mozzicone di sigaretta, un rastrello senza denti, che era forse
servito a cancellare le altre impronte, dei solchi sul terreno che potevano
derivare dal trascinamento di un corpo morto fino all’albero.
Questo dettaglio
l’aveva interessato particolarmente, poiché una delle possibilità era che Ajraghi
fosse stato già ucciso prima d’essere appeso all’albero, ad esempio strangolato
col classico filo di nylon, oppure narcotizzato e trascinato fin là a peso
morto. Naturalmente, non vi era nessuna traccia nell’autopsia che potesse
avvalorare la tesi, mentre sia il nylon che i narcotici lasciano tracce
facilmente identificabili in un’indagine forense. Gli era addirittura venuta in
mente l’ipnosi; era una possibilità da non scartare, per quanto remota: non
lasciava tracce né all’esame autoptico né sul terreno. Per lo stesso motivo era
peraltro difficilissima da provare.
Si era dedicato
infine allo studio dei battistrada delle automobili. Di impronte, sullo
sterrato in prossimità dell’albero, ce n’erano tante; ma una sembrava più
recente, in posizione più defilata rispetto agli sguardi dei passanti: poteva
essere quella giusta.
Ricordavano
benissimo, entrambi, il giorno in cui Caterina aveva detto di non avere voglia
di salire a Capodimonte; allora si erano diretti verso il mare e avevano
percorso la litoranea con l’idea di fermarsi a Nisida, l’isola che non è
un’isola perché ormai collegata alla terraferma, quando a Caterina era d’improvviso
venuta in mente la baia di Acquamorta. Un posto bellissimo, aveva detto tutta
eccitata, convincendo Nicola a proseguire oltre Pozzuoli fino al Monte di
Procida, dove avevano seguito le stradine che portavano alla nuova meta.
Erano rimasti a
oziare lungamente sulla spiaggia, ipnotizzati dall’azzurro intenso del mare e dai
disegni colorati che la minima increspatura faceva danzare dolcemente davanti
ai loro occhi.
Il mare era
proprio una tavola quel giorno, per cui finirono per noleggiare un gozzo e andare un po’ al largo,
dove, lontani da occhi indiscreti, in quel blu immenso avevano fatto l’amore
per la prima volta.
Al settimo cielo
per la scoperta dell’amore e i progressi delle sue investigazioni, il ragazzo
si era buttato alla ricerca del taxi che aveva preso a bordo Ajraghi per
portarlo all’aeroporto. Instancabile, dopo lunghe e approfondite indagini, l’aveva
trovato presso uno sfasciacarrozze di Portici, nel senso che era riuscito a
dimostrare la totale identità dei pneumatici di quel taxi con le impronte
lasciate sulla collina, fotografando gli uni e le altre come prova documentale.
A quel punto non
aveva avuto più dubbi: aveva chiamato Susanna Sorrentino, la giornalista della
TV locale, annunciandole scottanti rivelazioni sulla morte del milanese.
Sull’onda dei
ricordi, un velo di tristezza passò sul suo volto ricordando la reazione
esitante di Susanna, che aveva subito replicato di avere tanti impegni in quel
periodo, che non sapeva se poteva essere disponibile, che l’avrebbe richiamato
qualora si fosse liberata. Insomma, una serie ignobile di scuse dilatorie.
Invece, contro
ogni aspettativa, l’aveva chiamato il giorno seguente per fissargli un appuntamento
in studio, dove aveva filmato con la sua troupe la “nuova intervista con
Nicola”.
A lavoro
completato, riguardando la registrazione, era sembrata convinta, molto motivata.
- E’ venuta benissimo, Nicola, sarà uno scoop
sensazionale. Ora lavoriamo un po’ al montaggio, poi vedrai! –
L’intervista non
andò mai in onda. Non solo, Susanna non aveva più risposto al cellulare, come
se avesse cambiato numero; anche alla radio nessuno sapeva dire dove fosse
finita, al massimo accennavano che forse era partita per una trasferta, di cui non
sapevano né la destinazione, né la durata. Insomma, sembrava sparita nel nulla,
dissolta, smaterializzata.
Nicola non riuscì
più a capacitarsi di quello che stava succedendogli attorno, fino al giorno in
cui, all’improvviso, anche Caterina scomparve misteriosamente, senza un saluto,
fornendogli così la dolorosa chiave di lettura degli ultimi avvenimenti di quel
periodo.
Anche Caterina, gli
occhi socchiusi, abbandonata tra le braccia di Nicola, non poté certo evitare
di ripensare a quel periodo.
Tutto era
cominciato con l’inattesa visita del padre nella sua stanza, in quel lontano
2009; don Vincenzo voleva affidarle una missione importante e delicata: quel
Nicola che aveva svelato i segreti di Mimì e di zia Rosalia, secondo lui,
abitava nei quartieri spagnoli e bisognava capire da lui quanto sapesse di Ajraghi
e delle sue invenzioni.
Caterina sulle
prime si era messa a ridere: che cosa poteva sapere un ragazzo dei quartieri
spagnoli delle scoperte di un industriale del nord?
- E poi,
chissà come si chiama realmente. – Obiettò.
- Credo
che si chiami davvero Nicola – replicò don Vincenzo scuotendo benevolmente la
testa - e ti dirò di più, ho la sensazione che abiti qui vicino. E’ stata una
leggerezza dell’intervistatrice di non cambiargli il nome, puntando sulla ripresa di schiena e la voce distorta. Se è
quello che dico, qualche volta lo puoi vedere dalla finestra sul retro, seduto
su un muretto. Se ne sta lì ore, non si capisce a fare cosa. –
Caterina ebbe un
tuffo al cuore, perché nello stesso istante in cui aveva appreso il nome di
quel ragazzo che le piaceva tanto, aveva anche saputo che era finito nel mirino
di suo padre.
Accettò
l’incarico, risoluta a salvargli la vita, oltre che a soddisfare il desiderio
di conoscerlo; tra l’altro, l’idea di poterlo contattare per ordine del padre
l’affascinava e la divertiva. L’aveva
abbordato per strada, domandandogli a bruciapelo:
- Dì la
verità, sei tu Nicola? –
Lui era
arrossito, aveva cominciato a balbettare, indietreggiando. Così aveva subito capito
che era proprio lui, quel Nicola che suo padre cercava. Preoccupata, decise di
tenere per sé questa scoperta, passando alla seconda fase dell’operazione:
quella di conoscerlo meglio.
L’aveva assecondato,
erano saliti un certo numero di volte a Capodimonte; in quei pomeriggi passati insieme
aveva scoperto quanto quel ragazzo fosse animato da un fuoco sacro di verità e
di giustizia, che suscitava in lei grande ammirazione e tenerezza.
Caterina capì che
questo fuoco andava contro i desideri di suo padre, ma a poco a poco si stava
innamorando di Nicola, perdendo di vista la missione che le era stata
assegnata.
Cercò quindi di
cambiare la destinazione delle loro gite, pilotandolo verso il mare, come quel
giorno ad Acquamorta, dove… si sapeva che prima o poi sarebbe successo.
Per buona sorte,
il taxi che corrispondeva alle tracce trovate vicino all’albero di Ajraghi non
risultava più intestato a nessuno da parecchi anni, mentre la giornalista
Susanna Sorrentino era scomparsa nel nulla al momento opportuno.
Questi fatti
portarono don Vincenzo a giudicare Nicola non pericoloso e a lasciarlo vivere
in pace. Per contro, aveva deciso di allontanare Caterina da Napoli, con la motivazione
ufficiale di farle frequentare una rinomata scuola in una città del nord.
Fortunatamente, quando
lei era riapparsa in città alcuni anni dopo, aveva rivisto subito Nicola, come
se un’attrazione magnetica li avesse spinti l’uno verso l’altra, ricostruendo
immediatamente il loro rapporto. Si erano ritrovati innamorati più di prima e avevano
ben presto deciso di andare a convivere, ripetendo parole già usate anni prima,
in un altro frangente:
- Ma
tuo papà ti lascia? – Aveva chiesto lui preoccupato.
- Penso
di sì, lo dicono tutti che per me ha un debole, se glielo chiedo coi giusti
modi non sa negarmi niente… – ammiccò lei.
Anche in casa
del boss c’era un notevole fermento quel sabato. Per don Vincenzo, invecchiato
ma ancora energico, leggere il nome di Max Ajraghi come “stella” dell’incontro
dell’indomani e fare un salto sulla sedia era stato tutt’uno:
- Pasquale, vuoi vedere che questo è il clone,
il “nostro” clone, che si è fatto grande? –
- Ma
che dici, pà, Ajraghi si è impiccato anni fa, chissà la società che fine ha
fatto, sarà andata in malora. E poi chillo sarebbe ancora troppo piccirillo
per giocare a calcio, saranno passati sì e no una decina d’anni. –
- Tu ti
sei fumato il cervello, Pascà. Perché di anni ne saranno passati almeno
quindici: tengo cchiù memoria io ‘e te! Quanto alla società, si fa
presto a sapere che fine ha fatto, mi pare che si chiamasse CSG, no? –
Detto e fatto:
il micro computer, captate nel discorso di don Vincenzo le parole “società” e
“CSG”, ne proiettò sul muro il bilancio e la descrizione delle attività. CSG
lavorava ancora nel settore degli studi sul genoma e appariva in ottimo stato
di salute, nonostante la crisi economica generalizzata.
Il fatturato era
cresciuto regolarmente negli anni, gli utili pure; quanto alla struttura di
management, il rapporto indicava come presidentessa Marilena Rambaldi, moglie
del defunto socio fondatore Alessandro Ajraghi.
- Non
era andata in malora, Pascà? A proposito, ma noi abbiamo un contratto con la
CSG, mi ricordo di averlo firmato da Zi’ Teresa. Che fine ha
fatto? –
- Pà,
che fine vuoi che abbia fatto? Il contratto non era stato mai registrato, tu
sai bene perché. Era un accordo tra gentiluomini con Ajraghi, per cui morto lui
non valeva più niente. L’ho distrutto, nella macchina mangia documenti, prima
che saltasse fuori a sproposito! -
- Domani
andiamo allo stadio – disse don Vincenzo a muso duro – e se chillo è ‘o
clone d’o campione passi i guai tuoi, Pascà. –
- Ma
che, sei impazzito, andare allo stadio? Sono anni che non ci va più nessuno,
sugli spalti del San Paolo ci sarà cresciuta pure l’erbetta, ci saranno le
bestie… –
Era vero, dalla
grande crisi economica del 2009, quando le banche
fallirono e i cittadini impararono a stringere la cinghia per campare, gli
spettatori erano drammaticamente diminuiti. Essenzialmente per risparmiare,
perché costava molto meno vedere la partita sul maxi-schermo di casa.
I ricchi poi,
come don Vincenzo, avevano attrezzato una sala TV in cui tutta una parete
diventava un enorme schermo tridimensionale. Così vedevano la partita meglio
che allo stadio, quasi come fossero in campo.
Tra l’altro,
allo stadio era diventato sempre più difficile arrivarci, in quanto la crisi
aveva annientato le aziende dei trasporti municipali, ma anche di auto private
in giro se ne vedevano poche.
Sembrava
incredibile: il famoso traffico caotico di Napoli, il suono continuo dei
clacson che punteggiava la giornata di ognuno, le trombette bitonali che assordavano
i passanti, erano stati ingoiati dall’enorme buco nero della crisi e dal prezzo
del petrolio salito a livelli pazzeschi.
C’era di che
pensare ad una congiura. Quando infatti il gruppo italo-americano, ormai leader
incontrastato del settore automobili, aveva finalmente immesso sul mercato una
serie di modelli a metano, la guerra russo-ucraina aveva tagliato la fornitura
di gas all’Europa.
Gli ucraini
avevano naturalmente avuto la peggio e dal 2020 vivevano la non piacevole
occupazione militare russa; in compenso avevano fatto saltare il gasdotto in
vari punti, facendo lievitare il prezzo del metano e, di conseguenza, quello
del petrolio rimasto senza concorrenza.
Il risultato di
questi avvenimenti fu che le automobili rimanevano tutte parcheggiate in enormi
rimesse, mentre in giro il traffico era ridotto a biciclette, motorini, per la
maggior parte elettrici, qualche raro taxi e auto di servizio.
Come
alternativa, il Comune aveva attrezzato un ingegnoso sistema di tapis
roulants e scale mobili che, sia pure con molta lentezza, trasportavano i
cittadini da una parte all’altra della città.
- Ho detto che voglio andare allo stadio, voglio
vederlo in faccia, ‘sto clone, vederlo muovere, valutare di persona chi è. – Ripeté
don Vincenzo con una punta di astio.
La discussione poteva
considerarsi conclusa, anche perché don Vincenzo era già passato ad armeggiare
con la mano troppo grossa sulla tastiera del vecchio telefonino, un rudere del
passato che lui si ostinava ad usare perché era stato il suo primo cellulare. Rinunciava
così ad utilizzare le meraviglie della tecnologia, quei nuovi “strumenti del
demonio”, come lui li chiamava, che venivano installati sotto pelle e
funzionavano a mani libere, a comando vocale o addirittura col pensiero.
- Il mio pensiero non lo rivelo a nessuno… -
diceva a Pasquale, quando questi cercava di portarlo sulla strada del
progresso.
Comunque sia, dopo
qualche errore di digitazione l’operazione riuscì. Il boss tirò un sospiro di
sollievo e si mise in attesa della
risposta.
- Sì? – rispose Mimì non appena ebbe percepito
l’abituale vibrazione sotto pelle, un
fastidioso solletico che cessava solo rispondendo.
- Mimì – la voce del boss sul cellulare fece sussultare il barbiere – ti ricordi di
quando ti ho fatto uscire di prigione, che sei rimasto in debito di un favore?
–
- Certamente, don Vincenzo, sempre ai suoi
ordini. – Rispose Mimì con tono servile, la voce rivelatrice di una certa
tensione.
- Bravo ragazzo, vieni con noi allo stadio
domani, che ci divertiamo col clone quello vero! Così ti spiego, se le cose
andranno come prevedo, che favore mi aspetto da te. –
A Pasquale non
restò che procurare i biglietti. Tra l’altro, da una rapida verifica sembrava
che tutta Napoli, ma soprattutto la “Napoli che conta”, avesse deciso di
tornare allo stadio per l’appuntamento con Max Ajraghi, l’astro del nord venuto
dal sud, come sostenevano molti con toni allusivi.
Si avvicinò
quindi al micro computer, dettò il suo codice di accesso ottenendo in risposta
il messaggio di benvenuto; esitò un attimo prima di passare l’ordine, per
chiarire un ultimo dettaglio:
- Pà, ne devo prendere uno anche per Mimì? –
- Sì, uno anche per lui, che ci divertiamo
tutti assieme. -
Si avviarono
tutti per tempo, chi sfruttando i lenti tapis roulants del Comune, chiamati
lumaconi, chi a piedi oppure in bicicletta o in motorino.
Lo stadio tornò
a vivere, per la prima volta negli ultimi dieci anni. Stracolmo,
era tuttavia impregnato di un’atmosfera strana. Si percepiva una certa elettricità
nell’aria; non era la tradizionale contrapposizione di due tifoserie, anzi,
sembrava addirittura che ce ne fosse una sola, quella ospite. Proprio così: la
tifoseria ospite più una folla di curiosi, indifferenti al risultato, che si
potrebbe chiamare la “curioseria” partenopea.
La “curioseria”
trovò ben presto soddisfazione, perché già l’ingresso in campo sembrò fugare
anche il minimo dubbio: era lui, ‘o campione, gli stessi capelli
ricci, le stesse gambe tozze, lo stesso modo di muoversi, lo stesso controllo
di palla, lo stesso segno della croce.
Quel pomeriggio,
nessuno tra il pubblico napoletano vide giocare Max Ajraghi. Piuttosto, a tutti
sembrò di assistere ad una magia: il ritorno del vecchio campione che aveva
esaltato la Napoli sportiva decenni prima.
Lo guardarono
estasiati mentre seminava i difensori con una serie di finte, calciava le
punizioni con quel tocco magico che beffava i portieri, porgeva palloni
perfetti ai compagni di squadra.
Finì 3 a 0 per
il grande club del nord; Ajraghi segnò il primo e il terzo goal. Mai prima d’allora
una bruciante sconfitta era stata salutata con tanta gioia dai tifosi di casa.
Quando Ajraghi
segnò il terzo goal, prendendo palla a tre quarti di campo, saltando quattro
avversari con uno slalom ubriacante prima di battere il portiere con una
stoccata di misura, tutti ebbero la sensazione di assistere al replay di
Argentina-Inghilterra ai campionati del mondo dell’86.
Come spinti da una
molla irresistibile, gli spettatori della tribuna balzarono in piedi alla vista
di quella prodezza, di quel miracolo sportivo, abbracciandosi felici per il
ritorno del campione, in una surreale e allegra confusione.
Confusione per
certi versi provvidenziale, perché nel trambusto nessuno si accorse di don
Vincenzo che, livido di rabbia, sputò per ben tre volte in faccia al figlio Pasquale.
Anche Nicola e
Caterina erano andati alla partita, dove lui ebbe modo di rivedere sconcertato
i movimenti di quello strano, minuscolo giocatore di Subbuteo che si muoveva da
solo.
Cominciò finalmente
a ricollegare le cose: il giocatore di Subbuteo, il famoso embriclone di
cui si era vagheggiato al tempo, l’uccisione di Ajraghi; gli sfuggiva ancora il
movente, ma sentiva di essere vicino alla soluzione del giallo.
Perciò
l’indomani, di buon’ora, i due ragazzi inforcarono il loro unico mezzo di trasporto,
una “Vespa Elettra” del 2012 bianca, scassata e rugginosa, ereditata da
uno zio di Nicola. Puntarono dritti verso Capodimonte.
Sentivano che là
avrebbero potuto trovare l’indizio definitivo, capire il nesso tra tutti quei
fatti che avevano punteggiato e condizionato la loro vita.
La soluzione
dell’enigma era in effetti lì che li aspettava, appesa ad un albero.
Per fortuna, in
quella mattinata di sole, l’aria era ancora fresca per l’ora e il vento di
marcia. Caterina stava sulla Vespa addossata a Nicola per ripararsi dal vento,
stringendolo forte. A Nicola piaceva che stesse avvinghiata a lui; guidò
pertanto lentamente per le dolci volute che s’inerpicavano verso il parco,
quasi a prolungare la durata del tragitto.
Dopo un’ampia curva
Nicola sbandò improvvisamente, non sapendo se frenare o proseguire, credendo di
avere le allucinazioni. Perché a un albero, allo stesso medesimo albero cui era
stato impiccato Ajraghi, era appeso un altro uomo.
Penzolava come
un fantoccio nella brezza del mattino; Nicola strizzò gli occhi per assicurarsi
di aver visto bene. Pensò che gli sarebbe stato utile il binocolino.
In realtà sapeva
di non poter sbagliare: l’uomo appeso all’albero era chiaramente Pasquale.
Controllando i
nervi, il cuore in gola, con uno sforzo sovrumano impostò con la Vespa un’ampia
inversione di marcia e cominciò a scendere, evitando che Caterina vedesse il
fratello in quello stato.
Lei si mise a
ridere:
- Che
fai, torni a casa? Che cosa hai dimenticato, distrattone mio? –
- No, niente
– rispose Nicola con una dolcezza eccessiva – ho solo cambiato idea, stamattina
preferisco andare al mare. Ti ricordi di quando tu cambiasti idea e andammo ad
Acquamorta? –
Come poteva non
ricordare? Un’ora dopo, i due giovani si baciavano teneramente sulla spiaggia di
Acquamorta, celebrando il giorno del loro innamoramento.
Caterina era
eccitata da quella rivisitazione:
- Nico,
noleggiamo un gozzo e andiamo un po’ al largo a fare l’amore come la prima
volta? – Propose con tono provocante.
Nicola si scostò
un attimo, la guardò con intensità, i suoi occhi tristi si specchiarono lungamente
in quelli sorridenti della ragazza.
Le accarezzò i
capelli. Non voleva vederla soffrire, ma non sapeva che cosa dirle, e come.
- Il
mare è troppo agitato, non è come quella volta. – Cercò di levarsi d’impaccio
senza troppo successo.
Meditò a lungo,
gettando sassolini in mare per far passare il tempo, finché, preoccupata da
quel mutismo, fu Caterina a rompere il silenzio:
- Beh,
mi spieghi che t’è successo? Che bella gita. Volevi andare al mare e ora che ci
siamo non parli più da non so quanto tempo. -
- Sto
pensando – rispose Nicola esitante – sto pensando che dovremmo andarcene da
qui, perché non c’è speranza, è una battaglia persa in partenza. –
- Da
qui…speranza, battaglia, ma che dici? Come sei inquieto oggi, siamo appena
arrivati e vuoi già andartene! –
- Da
Napoli, Cate, dobbiamo andarcene da Napoli, subito, immediatamente. –
- Andarcene da Napoli, e perché? – Domandò
Caterina sgranando incredula gli occhioni neri.
La risposta di Nicola
fu solo una scrollata di spalle che esprimeva
la drammatica ineluttabilità di quella scelta.
Si alzarono,
incamminandosi mano nella mano verso il loro unico mezzo di trasporto.
Lentamente, quasi riluttanti, indossarono il casco guardandosi negli occhi; uno
sguardo carico di tenerezza e angoscia, dubbi e aspettative, fragilità e
determinazione.
Erano ancora in
tempo. Se la Vespa Elettra aveva sufficiente autonomia.
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