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giovedì 3 settembre 2020

DIEGARMANDOplus- seconda parte

 di Enrico Jessoula

cliccando qui potrete leggere la prima parte 
https://sognaparole.blogspot.com/2020/09/diegarmandoplus.html

-      Dai, non far finta di non capire. La gente dice che sei tu il Nicola dell’intervista televisiva, quello che trafficava con zia Rosalia… - la ragazza aveva lasciato la frase in sospeso, terminando con una risata fresca e simpatica, ignorando la domanda sul nome, dimostrandosi per nulla scandalizzata dal fatto in sé.

-      Stai scherzando, spero! Che c’entro io? –

Nicola aveva dovuto schermirsi per forza. L’anonimato in questi casi è d’obbligo; poi con un colpo di coraggio imprevisto le aveva detto che se era libera nel pomeriggio potevano approfondire la questione, e si erano infine accordati per uscire in motorino.

-      Ma tuo papà ti lascia? – Aveva chiesto Nicola preoccupato.

-      Penso di sì. Sai, lo dicono tutti che ha un debole per me, se glielo chiedo coi giusti modi non sa negarmi niente – ammiccò con fare civettuolo – uuh, com’è tardi, devo proprio andare. A dopo. -

 

Avevano puntato col motorino verso il parco di Capodimonte, dove non avevano affatto approfondito la vicenda di zia Rosalia.     Nicola aveva dirottato subito il discorso sull’imprenditore suicida, una storia che sembrava interessarlo molto.

Il parco da quella volta era divenuto la loro meta fissa, per giorni e giorni avevano ripetuto la stessa gita. Nicola si era messo in testa che Ajraghi non si fosse affatto suicidato; sperava quindi di trovarvi degli indizi per dimostrare che era stato assassinato.

C’era infatti qualcosa che non tornava, secondo lui, in quella vicenda: l’imprenditore lombardo era stato visto a cena da zi’ Teresa, poi aveva chiesto un taxi per l’aeroporto: questo particolare era stato confermato agli inquirenti da vari testimoni del ristorante.

Che cosa poteva essere successo dopo? E’ possibile che Ajraghi abbia detto al tassista:

-      Guardi, ho cambiato idea, mi porti a Capodimonte che mi è venuta voglia d’impiccarmi. –

Oppure:

-      Mi lasci sulla collina di Capodimonte vicino a un albero; ecco, questo qui va bene. Non avrebbe per caso una corda e uno sgabello? –

Sì, perché in effetti Peppino, il mitico chef di zi’ Teresa, pur tra mille   dubbi e reticenze, aveva dichiarato che, se la memoria non lo tradiva, l’ospite milanese aveva con sé solo una valigetta ventiquattrore. E allora? Era possibile che si fosse fatto portare dal tassista fino alla bottega di un rigattiere e vi avesse comprato sgabello e corda?

No, tutta quella storia non aveva senso. Restava la faccenda delle impronte, cioè la mancanza di qualsiasi altra traccia sul posto che non fosse dell’Ajraghi: da questa constatazione era dipesa la rapida archiviazione del caso.

Nicola ricordò quanto si fossero appassionati a giocare agli investigatori. Qualcosa avevano anche trovato: un mozzicone di sigaretta, un rastrello senza denti, che era forse servito a cancellare le altre impronte, dei solchi sul terreno che potevano derivare dal trascinamento di un corpo morto fino all’albero.

Questo dettaglio l’aveva interessato particolarmente, poiché una delle possibilità era che Ajraghi fosse stato già ucciso prima d’essere appeso all’albero, ad esempio strangolato col classico filo di nylon, oppure narcotizzato e trascinato fin là a peso morto. Naturalmente, non vi era nessuna traccia nell’autopsia che potesse avvalorare la tesi, mentre sia il nylon che i narcotici lasciano tracce facilmente identificabili in un’indagine forense. Gli era addirittura venuta in mente l’ipnosi; era una possibilità da non scartare, per quanto remota: non lasciava tracce né all’esame autoptico né sul terreno. Per lo stesso motivo era peraltro difficilissima da provare.

Si era dedicato infine allo studio dei battistrada delle automobili. Di impronte, sullo sterrato in prossimità dell’albero, ce n’erano tante; ma una sembrava più recente, in posizione più defilata rispetto agli sguardi dei passanti: poteva essere quella giusta.

 

Ricordavano benissimo, entrambi, il giorno in cui Caterina aveva detto di non avere voglia di salire a Capodimonte; allora si erano diretti verso il mare e avevano percorso la litoranea con l’idea di fermarsi a Nisida, l’isola che non è un’isola perché ormai collegata alla terraferma, quando a Caterina era d’improvviso venuta in mente la baia di Acquamorta. Un posto bellissimo, aveva detto tutta eccitata, convincendo Nicola a proseguire oltre Pozzuoli fino al Monte di Procida, dove avevano seguito le stradine che portavano alla nuova meta.

Erano rimasti a oziare lungamente sulla spiaggia, ipnotizzati dall’azzurro intenso del mare e dai disegni colorati che la minima increspatura faceva danzare dolcemente davanti ai loro occhi.

Il mare era proprio una tavola quel giorno, per cui finirono per   noleggiare un gozzo e andare un po’ al largo, dove, lontani da occhi indiscreti, in quel blu immenso avevano fatto l’amore per la prima volta.

Al settimo cielo per la scoperta dell’amore e i progressi delle sue investigazioni, il ragazzo si era buttato alla ricerca del taxi che aveva preso a bordo Ajraghi per portarlo all’aeroporto. Instancabile, dopo lunghe e approfondite indagini, l’aveva trovato presso uno sfasciacarrozze di Portici, nel senso che era riuscito a dimostrare la totale identità dei pneumatici di quel taxi con le impronte lasciate sulla collina, fotografando gli uni e le altre come prova documentale.

A quel punto non aveva avuto più dubbi: aveva chiamato Susanna Sorrentino, la giornalista della TV locale, annunciandole scottanti rivelazioni sulla morte del milanese.

Sull’onda dei ricordi, un velo di tristezza passò sul suo volto ricordando la reazione esitante di Susanna, che aveva subito replicato di avere tanti impegni in quel periodo, che non sapeva se poteva essere disponibile, che l’avrebbe richiamato qualora si fosse liberata. Insomma, una serie ignobile di scuse dilatorie.

Invece, contro ogni aspettativa, l’aveva chiamato il giorno seguente per fissargli un appuntamento in studio, dove aveva filmato con la sua troupe la “nuova intervista con Nicola”.

A lavoro completato, riguardando la registrazione, era sembrata convinta, molto motivata.

-      E’ venuta benissimo, Nicola, sarà uno scoop sensazionale. Ora lavoriamo un po’ al montaggio, poi vedrai! –

L’intervista non andò mai in onda. Non solo, Susanna non aveva più risposto al cellulare, come se avesse cambiato numero; anche alla radio nessuno sapeva dire dove fosse finita, al massimo accennavano che forse era partita per una trasferta, di cui non sapevano né la destinazione, né la durata. Insomma, sembrava sparita nel nulla, dissolta, smaterializzata.

Nicola non riuscì più a capacitarsi di quello che stava succedendogli attorno, fino al giorno in cui, all’improvviso, anche Caterina scomparve misteriosamente, senza un saluto, fornendogli così la dolorosa chiave di lettura degli ultimi avvenimenti di quel periodo.

 

Anche Caterina, gli occhi socchiusi, abbandonata tra le braccia di Nicola, non poté certo evitare di ripensare a quel periodo.

Tutto era cominciato con l’inattesa visita del padre nella sua stanza, in quel lontano 2009; don Vincenzo voleva affidarle una missione importante e delicata: quel Nicola che aveva svelato i segreti di Mimì e di zia Rosalia, secondo lui, abitava nei quartieri spagnoli e bisognava capire da lui quanto sapesse di Ajraghi e delle sue invenzioni.

Caterina sulle prime si era messa a ridere: che cosa poteva sapere un ragazzo dei quartieri spagnoli delle scoperte di un industriale del nord?

-       E poi, chissà come si chiama realmente. – Obiettò.

-       Credo che si chiami davvero Nicola – replicò don Vincenzo scuotendo benevolmente la testa - e ti dirò di più, ho la sensazione che abiti qui vicino. E’ stata una leggerezza dell’intervistatrice di non cambiargli il nome, puntando sulla  ripresa di schiena e la voce distorta. Se è quello che dico, qualche volta lo puoi vedere dalla finestra sul retro, seduto su un muretto. Se ne sta lì ore, non si capisce a fare cosa. –

Caterina ebbe un tuffo al cuore, perché nello stesso istante in cui aveva appreso il nome di quel ragazzo che le piaceva tanto, aveva anche saputo che era finito nel mirino di suo padre.

Accettò l’incarico, risoluta a salvargli la vita, oltre che a soddisfare il desiderio di conoscerlo; tra l’altro, l’idea di poterlo contattare per ordine del padre l’affascinava e la divertiva.   L’aveva abbordato per strada, domandandogli a bruciapelo:

-       Dì la verità, sei tu Nicola? –  

Lui era arrossito, aveva cominciato a balbettare, indietreggiando. Così aveva subito capito che era proprio lui, quel Nicola che suo padre cercava. Preoccupata, decise di tenere per sé questa scoperta, passando alla seconda fase dell’operazione: quella di conoscerlo meglio.

L’aveva assecondato, erano saliti un certo numero di volte a Capodimonte; in quei pomeriggi passati insieme aveva scoperto quanto quel ragazzo fosse animato da un fuoco sacro di verità e di giustizia, che suscitava in lei grande ammirazione e tenerezza.

Caterina capì che questo fuoco andava contro i desideri di suo padre, ma a poco a poco si stava innamorando di Nicola, perdendo di vista la missione che le era stata assegnata.

Cercò quindi di cambiare la destinazione delle loro gite, pilotandolo verso il mare, come quel giorno ad Acquamorta, dove… si sapeva che prima o poi sarebbe successo.

Per buona sorte, il taxi che corrispondeva alle tracce trovate vicino all’albero di Ajraghi non risultava più intestato a nessuno da parecchi anni, mentre la giornalista Susanna Sorrentino era scomparsa nel nulla al momento opportuno.

Questi fatti portarono don Vincenzo a giudicare Nicola non pericoloso e a lasciarlo vivere in pace. Per contro, aveva deciso di allontanare Caterina da Napoli, con la motivazione ufficiale di farle frequentare una rinomata scuola in una città del nord.

Fortunatamente, quando lei era riapparsa in città alcuni anni dopo, aveva rivisto subito Nicola, come se un’attrazione magnetica li avesse spinti l’uno verso l’altra, ricostruendo immediatamente il loro rapporto. Si erano ritrovati innamorati più di prima e avevano ben presto deciso di andare a convivere, ripetendo parole già usate anni prima, in un altro frangente:

-       Ma tuo papà ti lascia? – Aveva chiesto lui preoccupato.

-       Penso di sì, lo dicono tutti che per me ha un debole, se glielo chiedo coi giusti modi non sa negarmi niente… – ammiccò lei.

 

Anche in casa del boss c’era un notevole fermento quel sabato. Per don Vincenzo, invecchiato ma ancora energico, leggere il nome di Max Ajraghi come “stella” dell’incontro dell’indomani e fare un salto sulla sedia era stato tutt’uno:

-       Pasquale, vuoi vedere che questo è il clone, il “nostro” clone, che si è fatto grande? –

-       Ma che dici, pà, Ajraghi si è impiccato anni fa, chissà la società che fine ha fatto, sarà andata in malora. E poi chillo sarebbe ancora troppo piccirillo per giocare a calcio, saranno passati sì e no una decina d’anni. –

-       Tu ti sei fumato il cervello, Pascà. Perché di anni ne saranno passati almeno quindici: tengo cchiù memoria io ‘e te! Quanto alla società, si fa presto a sapere che fine ha fatto, mi pare che si chiamasse CSG, no? –

Detto e fatto: il micro computer, captate nel discorso di don Vincenzo le parole “società” e “CSG”, ne proiettò sul muro il bilancio e la descrizione delle attività. CSG lavorava ancora nel settore degli studi sul genoma e appariva in ottimo stato di salute, nonostante la crisi economica generalizzata.

Il fatturato era cresciuto regolarmente negli anni, gli utili pure; quanto alla struttura di management, il rapporto indicava come presidentessa Marilena Rambaldi, moglie del defunto socio fondatore Alessandro Ajraghi.

-       Non era andata in malora, Pascà? A proposito, ma noi abbiamo un contratto con la CSG, mi ricordo di averlo firmato da Zi’ Teresa. Che fine ha fatto? –

-       Pà, che fine vuoi che abbia fatto? Il contratto non era stato mai registrato, tu sai bene perché. Era un accordo tra gentiluomini con Ajraghi, per cui morto lui non valeva più niente. L’ho distrutto, nella macchina mangia documenti, prima che saltasse fuori a sproposito! -

-       Domani andiamo allo stadio – disse don Vincenzo a muso duro – e se chillo è ‘o clone d’o campione passi i guai tuoi, Pascà. –

-       Ma che, sei impazzito, andare allo stadio? Sono anni che non ci va più nessuno, sugli spalti del San Paolo ci sarà cresciuta pure l’erbetta, ci saranno le bestie… –

Era vero, dalla grande crisi economica del 2009, quando le    banche fallirono e i cittadini impararono a stringere la cinghia per campare, gli spettatori erano drammaticamente diminuiti. Essenzialmente per risparmiare, perché costava molto meno vedere la partita sul maxi-schermo di casa.

I ricchi poi, come don Vincenzo, avevano attrezzato una sala TV in cui tutta una parete diventava un enorme schermo tridimensionale. Così vedevano la partita meglio che allo stadio, quasi come fossero in campo.

Tra l’altro, allo stadio era diventato sempre più difficile arrivarci, in quanto la crisi aveva annientato le aziende dei trasporti municipali, ma anche di auto private in giro se ne vedevano poche.

Sembrava incredibile: il famoso traffico caotico di Napoli, il suono continuo dei clacson che punteggiava la giornata di ognuno, le trombette bitonali che assordavano i passanti, erano stati ingoiati dall’enorme buco nero della crisi e dal prezzo del petrolio salito a livelli pazzeschi.

C’era di che pensare ad una congiura. Quando infatti il gruppo italo-americano, ormai leader incontrastato del settore automobili, aveva finalmente immesso sul mercato una serie di modelli a metano, la guerra russo-ucraina aveva tagliato la fornitura di gas all’Europa.

Gli ucraini avevano naturalmente avuto la peggio e dal 2020 vivevano la non piacevole occupazione militare russa; in compenso avevano fatto saltare il gasdotto in vari punti, facendo lievitare il prezzo del metano e, di conseguenza, quello del petrolio rimasto senza concorrenza.

Il risultato di questi avvenimenti fu che le automobili rimanevano tutte parcheggiate in enormi rimesse, mentre in giro il traffico era ridotto a biciclette, motorini, per la maggior parte elettrici, qualche raro taxi e auto di servizio.

Come alternativa, il Comune aveva attrezzato un ingegnoso sistema di tapis roulants e scale mobili che, sia pure con molta lentezza, trasportavano i cittadini da una parte all’altra della città.

-      Ho detto che voglio andare allo stadio, voglio vederlo in faccia, ‘sto clone, vederlo muovere, valutare di persona chi è. – Ripeté don Vincenzo con una punta di astio.

La discussione poteva considerarsi conclusa, anche perché don Vincenzo era già passato ad armeggiare con la mano troppo grossa sulla tastiera del vecchio telefonino, un rudere del passato che lui si ostinava ad usare perché era stato il suo primo cellulare. Rinunciava così ad utilizzare le meraviglie della tecnologia, quei nuovi “strumenti del demonio”, come lui li chiamava, che venivano installati sotto pelle e funzionavano a mani libere, a comando vocale o addirittura col pensiero.

-      Il mio pensiero non lo rivelo a nessuno… - diceva a Pasquale, quando questi cercava di portarlo sulla strada del progresso.

Comunque sia, dopo qualche errore di digitazione l’operazione riuscì. Il boss tirò un sospiro di sollievo e si mise in  attesa della risposta.

-      Sì? – rispose Mimì non appena ebbe percepito l’abituale  vibrazione sotto pelle, un fastidioso solletico che cessava solo rispondendo.

-      Mimì –  la voce del boss sul cellulare  fece sussultare il barbiere – ti ricordi di quando ti ho fatto uscire di prigione, che sei rimasto in debito di un favore? –

-      Certamente, don Vincenzo, sempre ai suoi ordini. – Rispose Mimì con tono servile, la voce rivelatrice di una certa tensione.

-      Bravo ragazzo, vieni con noi allo stadio domani, che ci divertiamo col clone quello vero! Così ti spiego, se le cose andranno come prevedo, che favore mi aspetto da te. –

A Pasquale non restò che procurare i biglietti. Tra l’altro, da una rapida verifica sembrava che tutta Napoli, ma soprattutto la “Napoli che conta”, avesse deciso di tornare allo stadio per l’appuntamento con Max Ajraghi, l’astro del nord venuto dal sud, come sostenevano molti con toni allusivi.

Si avvicinò quindi al micro computer, dettò il suo codice di accesso ottenendo in risposta il messaggio di benvenuto; esitò un attimo prima di passare l’ordine, per chiarire un ultimo dettaglio:

-      Pà, ne devo prendere uno anche per Mimì? –

-      Sì, uno anche per lui, che ci divertiamo tutti assieme. -

 

Si avviarono tutti per tempo, chi sfruttando i lenti tapis roulants del Comune, chiamati lumaconi, chi a piedi oppure in bicicletta o in motorino.

Lo stadio tornò a vivere, per la prima volta negli ultimi dieci anni.   Stracolmo, era tuttavia impregnato di un’atmosfera strana. Si percepiva una certa elettricità nell’aria; non era la tradizionale contrapposizione di due tifoserie, anzi, sembrava addirittura che ce ne fosse una sola, quella ospite. Proprio così: la tifoseria ospite più una folla di curiosi, indifferenti al risultato, che si potrebbe chiamare la “curioseria” partenopea.

La “curioseria” trovò ben presto soddisfazione, perché già l’ingresso in campo sembrò fugare anche il minimo dubbio: era lui, ‘o campione, gli stessi capelli ricci, le stesse gambe tozze, lo stesso modo di muoversi, lo stesso controllo di palla, lo stesso segno della croce.

Quel pomeriggio, nessuno tra il pubblico napoletano vide giocare Max Ajraghi. Piuttosto, a tutti sembrò di assistere ad una magia: il ritorno del vecchio campione che aveva esaltato la Napoli sportiva decenni prima.

Lo guardarono estasiati mentre seminava i difensori con una serie di finte, calciava le punizioni con quel tocco magico che beffava i portieri, porgeva palloni perfetti ai compagni di squadra.

Finì 3 a 0 per il grande club del nord; Ajraghi segnò il primo e il terzo goal. Mai prima d’allora una bruciante sconfitta era stata salutata con tanta gioia dai tifosi di casa.

Quando Ajraghi segnò il terzo goal, prendendo palla a tre quarti di campo, saltando quattro avversari con uno slalom ubriacante prima di battere il portiere con una stoccata di misura, tutti ebbero la sensazione di assistere al replay di Argentina-Inghilterra ai campionati del mondo dell’86.

Come spinti da una molla irresistibile, gli spettatori della tribuna balzarono in piedi alla vista di quella prodezza, di quel miracolo sportivo, abbracciandosi felici per il ritorno del campione, in una surreale e allegra confusione.

Confusione per certi versi provvidenziale, perché nel trambusto nessuno si accorse di don Vincenzo che, livido di rabbia, sputò per ben tre volte in faccia al figlio Pasquale.

 

Anche Nicola e Caterina erano andati alla partita, dove lui ebbe modo di rivedere sconcertato i movimenti di quello strano, minuscolo giocatore di Subbuteo che si muoveva da solo.

Cominciò finalmente a ricollegare le cose: il giocatore di Subbuteo, il famoso embriclone di cui si era vagheggiato al tempo, l’uccisione di Ajraghi; gli sfuggiva ancora il movente, ma sentiva di essere vicino alla soluzione del giallo.

Perciò l’indomani, di buon’ora, i due ragazzi inforcarono il loro unico mezzo di trasporto, una “Vespa Elettra” del 2012 bianca, scassata e rugginosa, ereditata da uno zio di Nicola. Puntarono dritti verso Capodimonte.

Sentivano che là avrebbero potuto trovare l’indizio definitivo, capire il nesso tra tutti quei fatti che avevano punteggiato e condizionato la loro vita.

La soluzione dell’enigma era in effetti lì che li aspettava, appesa ad un albero.

Per fortuna, in quella mattinata di sole, l’aria era ancora fresca per l’ora e il vento di marcia. Caterina stava sulla Vespa addossata a Nicola per ripararsi dal vento, stringendolo forte. A Nicola piaceva che stesse avvinghiata a lui; guidò pertanto lentamente per le dolci volute che s’inerpicavano verso il parco, quasi a prolungare la durata del tragitto.

Dopo un’ampia curva Nicola sbandò improvvisamente, non sapendo se frenare o proseguire, credendo di avere le allucinazioni. Perché a un albero, allo stesso medesimo albero cui era stato impiccato Ajraghi, era appeso un altro uomo.

Penzolava come un fantoccio nella brezza del mattino; Nicola strizzò gli occhi per assicurarsi di aver visto bene. Pensò che gli sarebbe stato utile il binocolino.

In realtà sapeva di non poter sbagliare: l’uomo appeso all’albero era chiaramente Pasquale.

Controllando i nervi, il cuore in gola, con uno sforzo sovrumano impostò con la Vespa un’ampia inversione di marcia e cominciò a scendere, evitando che Caterina vedesse il fratello in quello stato.

Lei si mise a ridere:

-       Che fai, torni a casa? Che cosa hai dimenticato, distrattone mio? –

-       No, niente – rispose Nicola con una dolcezza eccessiva – ho solo cambiato idea, stamattina preferisco andare al mare. Ti ricordi di quando tu cambiasti idea e andammo ad Acquamorta? –

 

Come poteva non ricordare? Un’ora dopo, i due giovani si baciavano teneramente sulla spiaggia di Acquamorta, celebrando il giorno del loro innamoramento.

Caterina era eccitata da quella rivisitazione:

-       Nico, noleggiamo un gozzo e andiamo un po’ al largo a fare l’amore come la prima volta? – Propose con tono provocante.

Nicola si scostò un attimo, la guardò con intensità, i suoi occhi tristi si specchiarono lungamente in quelli sorridenti della ragazza.

Le accarezzò i capelli. Non voleva vederla soffrire, ma non sapeva che cosa dirle, e come.

-       Il mare è troppo agitato, non è come quella volta. – Cercò di levarsi d’impaccio senza troppo successo.

Meditò a lungo, gettando sassolini in mare per far passare il tempo, finché, preoccupata da quel mutismo, fu Caterina a rompere il silenzio:

-       Beh, mi spieghi che t’è successo? Che bella gita. Volevi andare al mare e ora che ci siamo non parli più da non so quanto tempo. -

-       Sto pensando – rispose Nicola esitante – sto pensando che dovremmo andarcene da qui, perché non c’è speranza, è una battaglia persa in partenza. –

-       Da qui…speranza, battaglia, ma che dici? Come sei inquieto oggi, siamo appena arrivati e vuoi già andartene! –

-       Da Napoli, Cate, dobbiamo andarcene da Napoli, subito, immediatamente. –

-       Andarcene da Napoli, e perché? – Domandò Caterina sgranando incredula gli occhioni neri.

La risposta di Nicola fu solo una scrollata di spalle che      esprimeva la drammatica ineluttabilità di quella scelta.

Si alzarono, incamminandosi mano nella mano verso il loro unico mezzo di trasporto. Lentamente, quasi riluttanti, indossarono il casco guardandosi negli occhi; uno sguardo carico di tenerezza e angoscia, dubbi e aspettative, fragilità e determinazione.  

Erano ancora in tempo. Se la Vespa Elettra aveva sufficiente  autonomia.

 

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