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lunedì 31 agosto 2020

DIEGARMANDOplus


di Enrico Jessoula

“Mi credevo che il mondo si divideva in due parti, quelli che abbassano lo sguardo e quelli che no. I fessi, che sono la maggior parte, e quelli tosti, quelli che si prendono il mondo perché non hanno paura di niente.”

Andrej Longo: “Dieci”



Napoli 2009, un pomeriggio di primavera


Subbuteo?” [1]
Nicola si stropicciò gli occhi incredulo: quanto tempo era che non vedeva più giocare a Subbuteo? E quante volte ci aveva giocato con suo padre e gli amici d’infanzia? Era un mito: i piccoli calciatori di plastica che volevano sembrare veri, le maglie che replicavano quelle autentiche, anche le più complicate, dalla Sampdoria blucerchiata al Brasile gialloverde; in seguito, addirittura le seconde maglie delle squadre più importanti: il Real, la Juve, o ancora nazionali di stati che non esistevano più, come l’Unione Sovietica con la sua maglietta rossa e l’indecifrabile scritta CCCP.

Provocava  un’allegra disputa tutte le volte: “Io tengo il Napoli, io l’Udinese, no, io il Torino con la seconda maglia…” Ci si poteva sbizzarrire trovando sempre la squadra giusta; ma quante ne avrà avute il papà, di quelle scatolette in cui i calciatori stavano tutti diritti e ordinati, per non rompersi?
Era stato per anni il suo divertimento preferito, poi il gioco, chissà perché, era passato di moda, e il tessuto verde del terreno, le scatolette con i giocatori, i palloni, erano tutti scomparsi, probabilmente esiliati in soffitta.
Finché, con suo grande stupore, quel pomeriggio era ricomparso, e proprio nella casa del boss.
Nicola, nel pieno dei suoi sedici anni di età e dei pochissimi soldi a disposizione, passava spesso le sue giornate appollaiato su un muretto in una stretta via dei quartieri spagnoli. Un muretto che era diventato il luogo di ritrovo per i ragazzi della zona, che vi si radunavano spesso a ridere e scherzare tra di loro oppure con i passanti. Nicola a volte vi si rifugiava anche da solo e in ogni caso aveva una sua personale posizione privilegiata, che nessun altro osava occupare, dalla quale poteva parlare con gli amici e al tempo stesso occhieggiare la casa del boss. Il boss, inteso come un esponente di spicco di una famiglia camorrista, era don Vincenzo.
Questi era un personaggio molto noto a Napoli, un vero uomo di panza sia in senso fisico che figurato; una volta arricchitosi con numerosi traffici illeciti, aveva voluto rimanere nel quartiere in cui era nato. Perciò in quel quartiere aveva acquistato poco alla volta le case limitrofe, fino a possedere una specie di reggia.
Un edificio inaccessibile; violabile, sia pure molto parzialmente, solo dallo sguardo di Nicola che, accovacciato sul muretto in quella ben precisa posizione, poteva intravvedere, al di là di pochi   metri di giardino, una delle finestre sul retro, che si apriva su una stanza apparentemente poco usata in cui troneggiava un grosso tavolo, contornato da sedie e poltrone di foggia antica.
La reale motivazione che portava puntualmente Nicola sul muretto a tenere d’occhio la finestra del boss si chiamava Caterina, la figlia minore  di don Vincenzo; la ragazza aveva la sua stessa età e, da quella finestra, l’aveva già ricambiato di qualche eloquente e ardente occhiata.
Caterina era la tipica bellezza napoletana: mora, con grandi occhi scuri, il seno già ben sviluppato nonostante la giovane età, i fianchi un po’ larghi   stemperati da un’altezza quasi nordica, che la rendeva slanciata e formosa al tempo stesso: una vera forza della natura.

Nicola se ne era innamorato qualche mese prima, fin dalla prima volta che l’aveva vista apparire in quella stanza, l’unica cui il suo sguardo aveva accesso. Caterina l’aveva capito subito, perché l’intensità dello sguardo di Nicola era stata tale da riscaldarla a distanza, facendola arrossire mentre una scarica ormonale le percorreva la schiena rimescolandole il sangue.
Si diceva che la ragazza fosse la prediletta del padre, che per lei aveva un vero e proprio debole e gliele dava tutte vinte, al contrario del primogenito Pasquale che veniva strapazzato per ogni sua azione più o meno maldestra. Don Vincenzo, allo scopo di proteggerla, la faceva uscire solo al mattino per andare a scuola dalle suore, accompagnata da una guardia del corpo.
Nicola aveva capito subito che l’unico modo per vederla era stare sul muretto ad aspettare la sua apparizione, come quella di un angelo; per migliorare la visuale era andato a frugare in un vecchio baule di casa, dove tempo addietro aveva visto la madre riporre un minuscolo binocolo: “E’ un binocolo da teatro” aveva spiegato ridendo, dal momento che a teatro non ci andavano mai.
Da quel giorno Nicola cominciò a girare col piccolo binocolo in tasca; non voleva che gli amici lo vedessero, né tanto meno il boss o una delle sue guardie del corpo. Riusciva ad utilizzarlo solamente quando era solo; se Caterina appariva, lo estraeva furtivamente per avvicinarla alla vista, schermandolo con le mani in modo che nessuno, e soprattutto lei, scoprisse la natura dell’oggetto.
Era apparsa spesso; a volte si metteva alla finestra fingendo d’essere conquistata dalla bellezza delle   camelie che crescevano nel giardino sottostante, altre sedeva al tavolo a studiare lanciando occhiate furtive al bel ragazzo sconosciuto.
In seguito si era fatta via via più audace: aveva improvvisato qualche passo di danza, una capriola, una spaccata, finendo sempre l’esibizione con un sorriso enigmatico.
Fino al giorno memorabile in cui, da dietro la tenda, Nicola aveva visto spuntare due capezzoli scuri e un reggiseno bianco  svolazzante che Caterina si apprestava ad indossare; la ragazza, ignara o maliziosamente consapevole della sua presenza e del suo binocolo, si stava vestendo davanti alla finestra aperta, nel senso che un vento malandrino muovendo la tenda la nascondeva e la rivelava allo sguardo del ragazzo in una continua altalena di emozioni.
Ignara o maliziosa che fosse, Nicola si appiattì sul muretto quanto poté nella speranza di non farsi vedere, finché, nel tentativo di modificare l’angolo di visuale per riuscire a inquadrare il resto della figura discinta, non aveva perso l’equilibrio ed era caduto.
Maledicendo la sua goffaggine, era risalito appena in tempo per vedere il lampo delle lunghe cosce nude di Caterina, delle sue mutandine bianche, il triangolo scuro del pube in trasparenza. “L’ho visto davvero o me lo sono immaginato?” si domandò prima che la ragazza, tirando su i pantaloni a vita bassa, mettesse allo spettacolo la parola fine voltandogli definitivamente le spalle.

Quel giorno non sembrava quello giusto per ulteriori abboccamenti visivi con Caterina, che infatti non era apparsa alla finestra. Nicola aveva intuito, dietro la tenda, un notevole trambusto; alcuni servitori della casa si davano un gran daffare ad allontanare le sedie e le poltrone dal tavolo; da ultimo, sotto gli occhi vigili di Pasquale e di Antonio, il  segretario e guardia del corpo del boss, i lavoranti avevano portato una grossa tavola di legno truciolare che avevano installato sopra al tavolo, badando che fosse ben centrata.
Fu allora che Nicola, inforcato rapidamente il binocolo, aveva potuto notare, fissato alla tavola di legno, l’inconfondibile tessuto verde con i segni del campo di calcio: l’area di rigore, il cerchio di centrocampo; c’erano addirittura le bandierine del calcio d’angolo.
Cosa da non credere, stavano per mettersi a giocare a Subbuteo.
Nicola da un lato era deluso, perché con questa novità in ballo aveva la certezza che Caterina non sarebbe apparsa, dall’altro     incuriosito da quell’inconsueto spettacolo. Si mise comodo ad aspettare l’inizio della partita.
L’attesa non fu lunga.
Prima Pasquale e Antonio si sbizzarrirono a schierare i giocatori e fare tiri e passaggi di prova, tra risate, sfottò e litigi vari “è goal, è entrata, ma no l’ho parata, arbitro!”; poi si fermarono tutti, come in attesa di un grande evento.
Nicola vide entrare un signore distinto, mai apparso prima. Indossava un impeccabile abito grigio.  Dopo una rapida stretta di mano ai due litiganti e si era avvicinato al tavolo; aveva deposto sul terreno di gioco un omino della squadra azzurra, quella del Napoli, apparentemente uguale a tutti gli altri, se non fosse che…
Nicola pensò di avere la febbre.
Forse perché faceva già caldo in quell’inizio di primavera, si slacciò il colletto della camicia e si appiattì ancor più contro il  muretto, strizzando gli occhi, mettendo a fuoco il binocolino per vedere meglio.
Ma aveva visto bene: il nuovo omino del Subbuteo, ricevuto il solito tocco con l’indice dall’uomo in abito grigio, si era messo a correre. Ma non scorrere sul tessuto verde: proprio correre, una gamba dietro l’altra, una falcata rapida, come se fosse stato un vero uomo in miniatura; arrivato sul pallone l’aveva crossato verso il centro dell’area.
Pasquale in difesa aveva risposto in affanno, buttando la palla fuori area. Ma lo spettacolo non aveva ancora raggiunto il suo culmine, perché l’omino azzurro, ricevuto un altro delicato colpetto sul posteriore, aveva ripreso a correre e questa volta, giunto sul pallone, l’aveva colpito di sinistro ad effetto, proprio come un giocatore vero, scagliandolo in rete nell’angolo alto alla sua sinistra. A dire il vero gli era parso proprio che l’omino avesse allargato e ruotato il piede, in modo da trovarsi all’impatto con la palla nella posizione ideale per imprimerle un effetto particolare, come solo alcuni campioni sapevano fare.
Nicola si stava domandando cosa potesse mai essere quella farsa, quando capì che la partita era già finita. I giocatori “umani” si strinsero la mano; sembravano contenti, ma lui non sapeva per quale motivo. L’omino azzurro “speciale” era scomparso, o quanto meno non riusciva a riconoscerlo da quella distanza; ma no, avrebbe giurato che non c’era proprio più.
Concluse che l’uomo vestito di grigio doveva averlo riposto nella  scatoletta per portarselo via.

Zi’ Teresa, il famoso ristorante che dal 1887 troneggia nel borgo marinaro di Santa Lucia, non era particolarmente affollato quella sera; forse perché era un giorno feriale, oppure perché l’onda lunga della crisi economica si faceva sentire.
Così non era stato difficile riservare un tavolino un po’ isolato per una cena di lavoro importante, come aveva chiesto al telefono Pasquale, il figlio di don Vincenzo.
Seduti ad un tavolo quadrato piuttosto anonimo, ma apparecchiato  con una raffinata tovaglia di Fiandra e posate d’argento, riflessi negli innumerevoli specchi dalle cornici dorate che decoravano le pareti, due uomini fecero tintinnare i bicchieri in un gesto augurale, poi gustarono un sorso di Falanghina e li deposero, rimanendo fermi a scrutarsi.
Uno dei due era don Vincenzo in persona, che aveva trascinato fino a quel tavolo il corpo massiccio, il volto dai lineamenti grossolani, il naso a melanzana, le guance cadenti verso il triplo mento. Era l’immagine di un ultra cinquantenne che non aveva mai fatto sport. Dimostrava qualche anno in più, salvato nell’aspetto dai capelli ancora neri, che i maligni sostenevano si tingesse, mentre le folte sopracciglia guidavano lo sguardo di chiunque  ai rigogliosi ciuffi di peli che fuoriuscivano da entrambe le orecchie.
Su questi, infatti, con grande irritazione di don Vincenzo, si era   posato lo sguardo del suo interlocutore. Costui, parecchio più giovane, aveva l’aspetto tipico del manager distinto e azzimato, elegante nel completo grigio di ottima fattura, la camicia di lino bianco, sulla quale spiccavano le iniziali ricamate “AA” all’altezza del cuore, la nota di colore dellla cravatta sulle tonalità del violetto. La sua gestualità controllata indicava chiaramente che era del nord, anzi proprio di Milano, come giudicò dall’accento don Vincenzo.
Con uno di questi gesti vagamente affettati, l’uomo in grigio estrasse un biglietto da visita e lo porse con sussiego a don Vincenzo, che si sforzò di leggerlo nonostante l’avanzata  presbiopia.
Per sua fortuna il nome della società era scritto in grande: CSG S.p.A. dove CSG, spiegava il biglietto, stava per Centro Studi sul Genoma[2]. Il resto era per lui illeggibile. Venne in suo soccorso il giovane, presentandosi:
-      Sono il dottor Alessandro Ajraghi, Amministratore delegato  della CSG. la mia società è specializzata nello studio del genoma. E’ un’azienda molto seria, come dimostra il fatto che  i nostri bilanci sono certificati dalla KPMG…-
-       Che? – interloquì don Vincenzo sgranando gli occhi.
-       La KPMG[3] – rispose con un sorriso di sufficienza Ajraghi – è una delle più importanti società di certificazione. –
-       Voi dovevate essere molto bravo a scuola, sennò con quelle iniziali…- don Vincenzo indicò le sigle ricamate sulla camicia – eravate sempre il primo ad essere interrogato, vero? –
-       Sì, era un destino. – rispose Ajraghi, sforzandosi di non tradire il nervosismo che si stava impadronendo di lui - Dicevo, la mia società…-
-       Che età avete? – Questa volta l’interruzione di don Vincenzo apparve perentoria, il tono autoritario.
-       Trentacinque. – Rispose compiaciuto l’altro, visibilmente orgoglioso della posizione così rapidamente conquistata.
-       Complimenti giovanotto, avete fatto presto. Io ne ho cinquantacinque e ho dovuto sudare assai, ma ora sono… come si chiama l’Amministratore delegato di un impero? –
Il palese accenno all’organizzazione criminale diretta da don Vincenzo provocò un brivido in Ajraghi; certo, sapeva benissimo chi aveva di fronte, ma sentirselo ricordare così sfacciatamente lo turbò; d’altra parte, sapeva anche di non avere alternative, per cui si limitò ad abbozzare un vago sorriso. Voleva evitare di  irritare l’interlocutore per giungere presto al dunque:
-       Come le dicevo, la società è leader mondiale nel campo della clonazione umana e…-
Questa volta fu interrotto dalla vista delle narici di don Vincenzo che si erano improvvisamente dilatate, mentre lo sguardo era divenuto assente, accompagnato da un rossore violento che si era impadronito del volto.
Ajraghi pensò ad un malessere improvviso, ma capì subito di aver preso un abbaglio. Infatti, il prorompente profumo di mare e di spezie che si era sprigionato nell’aria costrinse anche lui a socchiudere gli occhi e respirare piano, nello sforzo di mantenere un po’ di autocontrollo.
Gli spaghetti al cartoccio avevano atteso pazientemente sul carrellino di servizio; lo chef era rimasto rispettosamente in silenzio fino alla prima pausa nei discorsi dei due commensali, infine aveva rotto gli indugi aprendo l’involucro e aveva lasciato   che quell’aroma inebriante si diffondesse nell’aria per qualche secondo, annunciando poi con giustificato orgoglio la prima beatitudine della serata:
-       Spaghetti ai frutti di mare, cucinati come solo a Napoli sappiamo fare,  con cozze,  vongole veraci,  gamberi e cannolicchi. –
Successivamente, rovistò nel cartoccio ad arte, facendo aumentare quel profumo da svenire, e ne servì due porzioni giuste, né troppo né poco, come si conviene ad un ristorante di classe.
-       Che fai, Peppino, mi metti a dieta? Non vorrai farmi morire di fame proprio qua al ristorante, pensa alla pubblicità negativa che ti faresti! -
Peppino sorrise. Tutte le volte don Vincenzo faceva la stessa sceneggiata, e puntualmente lui si doveva rassegnare a raccogliere dal cartoccio gli spaghetti rimasti, quasi una seconda porzione, e aggiungerli al piatto del boss.
Seguì un lungo periodo di silenzio, in cui i due commensali, così diversi tra loro, furono accomunati nella degustazione di quel cibo divino.
-       Questi spaghetti sono quanto di più vicino al paradiso io conosca – disse don Vincenzo rompendo il silenzio - spero che siano anche di suo gusto. –
-       Deliziosi. – Rispose Ajraghi deponendo la forchetta e portando fuggevolmente il tovagliolo alle labbra.
Ma l’uomo non era là per fare i complimenti al cuoco, per cui decise di tornare rapidamente al punto che gli stava a cuore:
-       Vede don Vincenzo – e qui abbassò istintivamente la voce – la mia società è molto avanzata nello studio del genoma, collabora con le migliori università americane, svizzere, olandesi e ora… siamo arrivati ad una conquista incredibile. Sono orgoglioso di annunciare che la CSG è ormai in grado di clonare l’uomo attraverso processi semi-industriali. –
Don Vincenzo sgranò visibilmente gli occhi; forse era stato solo un gesto di cortesia, oppure un incontro troppo ravvicinato col peperoncino, perché un attimo dopo si era già rituffato sulla sua doppia porzione di spaghetti.
-       Ma questo non è tutto – proseguì Ajraghi cercando vanamente lo sguardo del boss – abbiamo già creato degli embrioni-clone che si comportano come uomini in miniatura. Naturalmente cloniamo personaggi importanti, attori, campioni dello sport. Prima ne preleviamo il DNA, poi attraverso una tecnologia sofisticatissima e, come lei può immaginare, segretissima, realizziamo gli embrioni-clone, che poi crescono e diventano la fotocopia del celebre genitore. -
-       Non sarà per caso illegale? – Lo interruppe nuovamente don Vincenzo con l’aria più candida possibile, senza riuscire però a rimuovere l’impressione del gatto che si diverte a giocare col topo.
“Questa è proprio bella, senti da che pulpito viene la predica!” pensò Ajraghi non riuscendo a trattenere un sorriso. Ma subito si ricompose per recitare la sua parte con la massima serietà:
-       Vuole scherzare? La nostra attività è seguita con interesse da enti scientifici di tutto il mondo, certificata da alcuni dei più importanti centri di ricerca. Pensi che gli americani li chiamano embriclones i nostri piccoli cloni, un nome coniato apposta da una famosa rivista scientifica che ci ha dedicato un lungo e interessante articolo. Con questa tecnica abbiamo già realizzato, e piazzato sul mercato, gli embrioni-clone di Pelé, Beckenbauer, Mac Adoo…-
-       Chi? – Interloquì don Vincenzo sgranando di nuovo gli occhi.
-       Bob Mac Adoo, un grande campione di basket americano che ha giocato parecchio anche a Milano. Ma…-
Gli era parso il momento buono per la stoccata finale, ma lo chef sembrava fare apposta ad impedirgliela:
-       Guardi che spigola, don Vincenzo, chi l’ha pescata se la sognerà la notte finché campa! –
Effettivamente era una bella bestia sul chilo e mezzo, uscita dal forno con quel colorito dorato dei pesci cotti e abbrustoliti al punto giusto. I due seguirono ossequiosi e in silenzio lo chef che puliva il pesce e ripartiva le tenere carni sui due piatti in parti quasi uguali, per poi tuffarsi senza indugi in quel delicato e appagante sapore.
-       Don Vincenzo, lei stasera mi sta viziando con tutte queste prelibatezze – esordì Ajraghi con tono adulante – ma anch’io ho una sorpresa per lei. Oggi ho portato con me, e ho dimostrato a suo figlio e al suo staff, l’embriclone di un campione che a Napoli, mi lasci dire, è stato di casa. -
-       Lo so già – lo interruppe il boss tacitandolo con un gesto della mano – mio figlio Pasquale mi ha raccontato tutto. Caro signore, a Napoli non ci si distrae davanti a nu bello pisci così. Finiamolo con calma e poi firmiamo il contratto. –
Ajraghi deglutì. Dovette fare ricorso a un goccio di Falanghina per cercare di darsi un contegno. Possibile fosse tutto così facile? Il grande capo era già pronto a firmare?
Eppure era così. Finito il pesce, don Vincenzo fece portare ‘na babà e una bottiglia di Veuve Cliquot[4] per festeggiare.
Le firme furono poste sul contratto e su un assegno: mezzo milione di euro di anticipo su un affare che avrebbe raggiunto i cinque milioni di euro al momento dell’eventuale esordio del clone in serie A.
Don Vincenzo firmò anche l’assegno senza tradire la minima emozione, poi si sporse verso Ajraghi e a bassa voce domandò:
-       Mi tolga solo una curiosità. Ma come lo prelevate ‘sto DNA? –
-       Don Vincenzo – rispose Ajraghi imbarazzato – ma glielo devo dire io? Non immagina quante tracce lasciano questi campioni? Quante ragazze hanno conservato un piccolo souvenir? Basta sguinzagliare un paio di cani da tartufo, volevo dire, investigatori privati o simili, e le assicuro che il DNA si trova facilmente, pronto per l’uso. -


L’indomani, come tutte le mattine, Nicola per andare a scuola passò a fianco della casa di don Vincenzo per cercare di incontrare Caterina; come sempre la sua speranza andò delusa.
Gli sarebbe proprio piaciuto chiederle chi fosse quel misterioso personaggio che sembrava un super campione di Subbuteo, ma   dovette concludere che era proprio impossibile vederla uscire di casa.
Infatti, ogni mattina Nicola indugiava nella cartoleria di fronte, con la scusa di scegliere una matita, una penna o una gomma, continuando nel frattempo a occhieggiare vanamente il portone da cui la ragazza sarebbe dovuta uscire.
Anche quella volta si rassegnò a proseguire senza vederla, pensando che era proprio un mistero dove Caterina andasse a scuola e a che ora uscisse di casa; infine, come accadeva spesso, dovette affrettare il passo per non arrivare in ritardo.
Giunto quasi al portone della scuola, fu arpionato dal suo amico Federico che lo prese sottobraccio, mormorando:
-       Hai sentito la notizia? Si dice che don Vincenzo, il papà della tua amata…-
-       Non scherzare, Fede – lo interruppe Nicola – che amata vuoi che abbia se non la conosco neppure? –
-       Beh, insomma, quella che vorresti fosse la tua amata, insomma il suo papà si è comprato ‘o Campione. –
-       Questa è proprio bella – scoppiò a ridere Nicola – ma ti rendi conto che quello non gioca più da anni, è invecchiato, ingrassato…-
-       Che mi prendi per fesso? Lo so anch’io che è vecchio e grasso, ma quando dico ‘o Campione intendo il suo clone, un clone piccolo piccolo che già gioca al calcio come il padre, e che diventerà un grande come lui! –
-       Un clone piccolo piccolo… ma che stai dicendo? –
In quel momento arrivò un altro gruppo di amici, tutti agitati:
-       Ragazzi, avete sentito anche voi del clone? Pare sia piccolissimo, lo chiamano embrione-clone, ma si comporta già come un essere umano! –
Nella mente, Nicola rivide per un attimo la scena cui aveva assistito il giorno prima e fu colto da un violento capogiro. Quando poco dopo si risvegliò per terra, Federico lo stava sventolando con un quaderno, porgendogli da bere un sorso d’acqua. La campanella stava suonando in lontananza.
Ma come avevano fatto a saperlo tutti?
Questo si domandava Nicola, mentre aiutato faticosamente dai compagni, si rialzava, incamminandosi verso l’aula.


“Ma una notizia originale non ha bisogno di alcun giornale.”
Come nella canzone di De André, gruppi di persone si formavano e si scioglievano in continuazione nel quartiere; la notizia del giorno, di cui dibattere, su cui confrontarsi, ridere, arrabbiarsi, era sempre quella: il clone del grande campione.
Sarà vero, non sarà vero, ma lo dicono tutti, c’è qualcuno che l’ha visto… l’ha visto? Ma chi, cosa, dove?
Una morbosa curiosità si sparse a macchia d’olio in tutta Napoli; nel giro di poche ore l’acquisto di un clone che prometteva di emulare il padre campione era dato per scontato. L’embrione-clone era ormai un concetto acquisito e un crescente numero di persone giurava di aver visto con i propri occhi questi omini  girare per la città, o addirittura organizzare partite di calcio sui tavolini dei bar.
La scena divenne ripetitiva nei giorni seguenti.
Le signore al mercato ordinavano zucchini e pomodori e intanto bisbigliavano all’ambulante:
- Ma ha saputo di don Vincenzo, che si è comprato un clone   di…-  
-      Vuole che non lo sappia, signora, sono stato il primo a saperlo, me l’ha confidato il figlio Pasquale. Pare che l’abbia visto, piccolo così, giocare a Subbuteo come il padre giocava a pallone! – rispondeva il verduraio avvicinando il pollice e l’indice per simulare la dimensione del clone.
La notizia correva di voce in voce, di angolo in angolo, tanto che  alcuni punti della città, via Caracciolo, piazza del Plebiscito, via Toledo, erano assediati da capannelli di gente che discuteva, si infervorava, scherzava su quell’unico tema che appassionava in quei giorni i napoletani.
Dimenticati i cumuli di spazzatura, la camorra, le discariche abusive, gli scandali in Comune, don Vincenzo e il clone tenevano trionfalmente banco.

In realtà, non era il fatto in sé ad incuriosire la popolazione, bensì un particolare apparentemente secondario, ma non per questo trascurabile.
Era stato Carmelo, un gelataio ambulante che girava per la città col tradizionale carretto a pedali, potendo così partecipare a innumerevoli discussioni sulla questione, a sollevare il problema che gli stava a cuore.
Con la maglietta a righe orizzontali bianche e blu, di quelle che una volta erano dette alla marinara, dominava gli altri dall’alto del sellino, da cui non scendeva mai. Era giovane Carmelo, ma aveva quell’aria rassegnata di chi ha già subito delle batoste nella vita, e per questo motivo diventa sospettoso su tutto.
-      Ma scusate, questo DNA – disse – dove se lo procurano, questi signori? Non è che scendono dal nord a rubarcelo? – Nel suo dire si poteva cogliere un po’ di risentimento e di sospetto.
-      Ma che vuoi che sia – lo avevano zittito gli amici – di tracce ne avrà lasciate tante, i capelli dal barbiere, il sangue quando si è infortunato, la saliva su un bicchiere… e poi chillo tiene pure ‘a creatura. -
-       La creatura, se anche è sua, non è un clone. Le altre sono tutte cose labili, signori. – Era intervenuto il dottor Carmine. Nessuno sapeva se fosse veramente dottore, né in quale disciplina, ma veniva rispettato come tale perché aveva l’aria e i modi dello scienziato – Credetemi, i capelli volano, il sangue e i bicchieri vengono lavati. –
-       E allora? –
-       Allora, signori miei, l’unica sostanza che facilmente rimane, che non sempre viene lavata via, è il liquido spermatico. –
Una bomba: come non averci pensato prima! Gli uomini nel capannello si guardarono attoniti; il dottor Carmine aveva colto nel segno, era proprio intelligente, aveva studiato.
-       Vuol dire che il campione ha avuto un rapporto sessuale e…-
-       Uno? – intervenne prontamente il dottor Carmine sollevando il dito indice – Ma chissà quanti ne ha avuti, e con quante donne diverse; solo io ne conosco almeno sei o sette. Tra tutte queste, volete non trovarne una che ha fatto come Monica Lewinski? –
-       Chi è questa Monica, un’immigrata polacca? –
-       Ma va’, è quella che aveva fatto il lavoretto a Clinton e si era tenuta la gonna sporca per ricordo. -
Sembrava tutto chiaro ormai, ma la curiosità, invece di essere appagata, aumentava a dismisura. Gli uomini erano curiosi e preoccupati allo stesso tempo, perché a questo punto era una donna il motore primo di questa vicenda. E quale donna? Poteva essere una qualunque delle loro donne, la moglie di uno o la sorella dell’altro.
Da un suo rapporto col campione, da un indumento gelosamente custodito fino allora, era stata prelevata la materia prima per realizzare l’embriclone. Bisognava pertanto scoprirne al più presto l’identità, perché ne andava dell’onore di tutti gli uomini.  

-   Dalle mutandine di zia Rosalia. –
L’affermazione di Domenico De Rosa, detto Mimì, deflagrò improvvisa sul capannello che si era attardato dinanzi al suo salone di barbiere.
-      Chi? – Un coro di repliche si levò all’unisono dal gruppo degli uomini, increduli  e incuriositi allo stesso tempo.
Mimì sorrideva compiaciuto sotto i baffetti asfittici, gli occhi erano puntine da disegno nere che guizzavano da uno all’altro degli astanti, il volto minuto e spigoloso si contraeva in continuazione, la voce calava sugli amici come una delle sue rasoiate a regola d’arte:
-       Vi stupite? Mia zia Rosalia era ’na bella guagliona ai suoi tempi. A dire il vero è ancora una bella donna, anche se non si è mai sposata; certo, ora è vicina ai quaranta. -
-       E’ ancora un bel bocconcino. – intervenne trasognato Michele Piscopo, che veleggiando verso i settanta la vedeva tuttora molto giovane e appetibile.
Le puntine  da disegno nere di Mimì percorsero uno ad uno i volti eccitati che aspettavano nuove e piccanti rivelazioni. Decise quindi di proseguire:
-       Così è successo, che un giorno aveva conosciuto ‘o campione in un locale e, sapete come vanno queste cose… –
-       Sì, ma scusa, non era meglio se le toglieva, le mutandine? Era molto meglio per tutti e due! – Commentò sghignazzando  Francesco Russo il falegname, noto a tutti per le battute un po’ grevi.
Mimì si fece serio, la fronte corrugata, quasi a stemperare la battutaccia; poi decise di stare al gioco e rispose:
-       Zia Rosalia se le sarebbe tolte e come – fu interrotto da una risata generale - ma sai com’è, lui era giovane, si era già eccitato nei preliminari, e poi zia Rosalia teneva delle cosce grosse che solo a strofinarcisi contro…-
L’idea del grande campione colto di sorpresa da una eiaculazione precoce scatenò ulteriore ilarità; i commenti si sprecavano, ma su tutti prevaleva il vocione di Ciccio Inzolia il ciabattino, che aggiunse con gli occhi lucidi di chi se la sogna la notte:
-       Le tiene ancora le cosce grosse, tua zia Rosalia, e non solo le cosce, tiene due zizze… –
-       Non ci credo – intervenne visibilmente alterato, Tommaso Lo Cascio il fornaio, gelando l’ambiente – non credo affatto a questa storia. Secondo me ci stai minchionando tutti. Vorresti farci intendere che tua zia Rosalia si è tenuta per tutti questi anni le mutandine sporche come fossero una reliquia? –
-       Proprio così – replicò Mimì pacatamente, col tono più credibile di cui era capace – le custodiva gelosamente nel suo armadio. Non ne sapevo niente nemmeno io, finché l’altro giorno, sull’onda di tutta questa curiosità, di queste discussioni, mi ha rivelato il suo segreto e me le ha mostrate. Sembrava orgogliosa di possederle, le teneva in mano proprio come una reliquia, quelle mutandine sozze. –
Mimì prese un attimo fiato, approfittando per fare un nuovo giro delle puntine da disegno e vedere che effetto faceva il racconto. Pendevano tutti dalle sue labbra come degli scolaretti:
-       Ma che c’entra questo fatto col clone del campione, mica tua zia è una scienziata! – Lo incalzò il fornaio.
-       C’è voluto un po’ perché me lo spiegasse – riprese Mimì abbassando gli occhi a terra per simulare un pudore che non provava – ma alla fine me l’ha detto: le ha prestate a della  gente del nord, gente seria dice lei, a certe condizioni. –
-       Quali condizioni? – Fu un’unica voce.
-       Innanzi tutto che gliele restituissero, poi che facessero davvero nascere un altro campione. E lei ci ha creduto. –
Gli uomini erano ammutoliti. Dopo tutto, la rivelazione di Mimì eliminava il problema di fondo: Rosalia non era moglie di nessuno, non aveva fratelli, era solo la zia di Mimì, che non sembrava preoccuparsi della necessità di difenderne l’onore.
Per quanto la storia sembrasse inverosimile, conveniva a tutti darle credito; rapidamente, la notizia fece il giro della città e i capannelli si sciolsero: il mistero era risolto, la curiosità appagata.
Così la vita di Napoli tornò gradatamente alla normalità.
Gradatamente perché di tanto in tanto i più scettici, come Tommaso il fornaio o il dottor Carmine o altri benpensanti, cercavano di risollevare la questione, riuscendo però a radunare poche persone e per un tempo limitato, dopodiché tutti facevano spallucce e se ne andavano, borbottando “dopo tutto sono fatti loro”. Naturalmente i maggiori sostenitori della teoria dei “fatti loro” erano gli stessi che in precedenza avevano primeggiato nella partecipazione ai dibattiti sui fatti altrui.
L’argomento DNA durò più a lungo solo dai parrucchieri per signora, dove messe in piega, tinte e permanenti venivano inevitabilmente accompagnate da accese dispute tra quarantenni:
- Ah come invidio Rosalia, l’avrei fatto anch’io con quello, e certo le avrei conservate, le mutandine… – e la signora borghese un po’ più anziana che reagiva scandalizzata, dicendo che lei, neanche fosse stato Alain Delon, fino alla ragazzina appena sbocciata che voleva sapere chi era ‘o campione, perché era così famoso, se era bello, se era sexy, che alla fine però non si pronunciava.

La vita era cambiata, eccome, per zia Rosalia.
La bella guagliona dai gagliardi appetiti sessuali dei vent’anni era evoluta in una dolce signora che aveva da poco superato i trentacinque, apparentemente rassegnata ad un’inspiegabile solitudine, nonostante l’aspetto ancor piacente.
Laureatasi in lettere moderne, si era dedicata anema e core  all’insegnamento; in quell’attività aveva profuso ingenti risorse nell’aiuto agli allievi più poveri e più deboli, dovendo tristemente constatare che le due qualità spesso coincidevano.
Ammirata da tutti per la sua capacità e dedizione, la professoressa Rosalia Murolo aveva forse involontariamente alzato una barriera nei confronti dell’universo maschile, finché questo aveva cominciato a chiudersi davanti a lei arrivando a scomparire completamente dal suo orizzonte; quanto meno fino a quel momento, o meglio, al giorno seguente le rivelazioni di Mimì, di cui lei peraltro non era neppure a conoscenza.
Si sentiva allegra e ben disposta verso il mondo in quella tiepida giornata d’aprile; si era preparata accuratamente, assaporando la passeggiata e i saluti rispettosi della gente che avrebbe incontrato. Per quell’uscita aveva scelto il vestitino di maglia color panna, il suo preferito. Davanti allo specchio ovale della camera, aveva osservato con soddisfazione la maglia cadere morbida sulle rotondità del suo corpo, ammirando la sua femminilità ancora intatta che il vestito evidenziava senza risultare pacchiano, il che   non sarebbe parso conveniente per la sua età.
Uscì nel sole quasi accecante della primavera, sorridendo a destra e a manca, alla fioraia, che avendo il figlio a scuola con lei  le elargì il miglior sorriso: ”Buongiorno professoressa” come al fornaio, che disse con ossequio: “I miei omaggi, donna Rosalia.”
Notò subito che non c’erano più i capannelli che negli ultimi tempi avevano invaso la città; si domandò se i napoletani fossero improvvisamente rinsaviti.
Al primo incrocio un colpo di vento le fece aderire il vestito al   corpo, drappeggiandolo sul suo fisico ancora giovanile; arrossì sentendosi di colpo nuda, immaginando che gli uomini   l’avrebbero perforata, contemplata, spogliata con la mente. Con un brivido decise di proseguire senza scomporsi, incurante delle folate di vento che le avvolgevano il corpo.
Non poté trattenere un sorriso nell’incrociare lo sguardo di don Angelo, il giovane prete della sua parrocchia, che dopo averle  percorso il corpo in su e in giù, si era inchiodato sui suoi occhi in un muto messaggio di desiderio.
“Poveri preti, quante privazioni!” pensò Rosalia; salutò anche lui con la consueta gentilezza e proseguì. In realtà, era già stufa marcia degli ossequi e degli sguardi degli abitanti della zona, che avevano tutti un qualche interesse a ingraziarsela. 
Fu quindi felice di raggiungere dopo poco il formicolio multi etnico di via Toledo; si immerse con piacere in quella moltitudine caotica di voci e colori che mettevano allegria, dirigendosi con passo deciso verso la sua libreria abituale. Si sentiva in vena di comprare un buon libro da divorare nel fine settimana; avrebbe chiesto consiglio al suo amico libraio. Entrando, lo salutò col consueto ricambiato calore; le parve però di percepire nell’aria qualcosa di strano, di diverso dal solito.
Il tono del libraio fu mellifluo, insinuante:
-      Rosalia, stavo pensando proprio a te. –  
Poi le propose “Il giorno prima della felicità” di Erri De Luca e mentre batteva lo scontrino le sussurrò:
-      A proposito, che fai di bello domani? Io pensavo di fare un salto al mare con la moto, perché non ci andiamo assieme? –
Il cuore di Rosalia sobbalzò nel petto, mentre la mente andava in confusione, le gote improvvisamente rosse. “Che vuole questo? Ha detto proprio a proposito, ma di che? Ci manca solo lui, che ha una fama di sciupa femmine ed è pure sposato...”.
Era immersa in quei pensieri quando la salvò il telefonino, che in quel momento abbaiò insistentemente, quattro o cinque volte, prima che lei riuscisse a ripescarlo nei misteriosi anfratti della borsetta. Arrossì ancor più per quella stupida suoneria-cane che le aveva fatto installare suo nipote Mimì. “Devo decidermi a cambiarla” pensò in un baleno mentre rispondeva al sesto latrato.
Pum...il cuore, un altro tonfo: era Luca, un suo compagno di università che non sentiva da anni; la invitava per un aperitivo, oppure una cena, quella sera stessa.
-      Tanto è sabato, domani non si lavora, non importa se facciamo un po’ tardi! – propose lui dall’altra parte.
Era troppo. Rispose affrettatamente che non sapeva, ci doveva pensare, e la risposta valeva per tutti e due; pagò il libro e si avviò   assorta verso l’uscita. Ma quando trovò il fornaio Tommaso sulla porta del negozio che le offriva allusivamente “una baguette calda calda” decise che i napoletani erano forse rinsaviti da un lato ma impazziti da un altro; con il libro stretto al petto, preferì pertanto abbreviare la passeggiata e dirigere i suoi passi rapidamente verso casa.
Chiuse la porta dietro di sé con due mandate, come a voler escludere quel mondo impazzito. Sprofondò sul divano domandandosi che cosa stesse succedendo. La meditazione fu breve, dopodiché Rosalia afferrò il telefono stupendosi delle sue stesse parole.
-      Luca? Ciao, sono Rosalia, Rosalia Murolo. Volevo dirti che   va bene per stasera, magari un bell’aperitivo… Dove? A casa tua? Ma stai scherzando, non sapevo che sapessi preparare cocktail e stuzzichini! – le sfuggì una risata nervosa – Per me è ok. Facciamo verso le sette e mezzo? Abiti sempre là? –


Poche settimane dopo arrivò l’attesa ricorrenza. Era sabato due maggio e c’era la solita folla assiepata nel Duomo di Napoli e altrettanta fuori, tutti in attesa del rituale miracolo di San Gennaro.
La liquefazione del sangue del santo era un evento che nessun napoletano in buona salute poteva perdersi. Sotto sotto, la curiosità di vedere con i propri occhi quel fenomeno misterioso e ripetitivo prevaleva sull’obiettiva difficoltà a definire miracolo un evento che, salvo pochissime eccezioni, si ripeteva puntualmente a date e ore stabilite.
Nel Duomo, il vescovo officiante osservava compiaciuto quella enorme massa di fedeli che onoravano ancora una volta la ricorrenza. Certo, dentro di sé si domandava che fine facessero quei fedeli la domenica, quando alle messe la partecipazione crollava ed era prevalentemente costituita da anziane signore.  
A dire il vero, nella folla aveva colto gruppetti di ragazzi e ragazze che ridevano e chiacchieravano, aveva persino individuato un paio di coppiette che approfittavano della calca per amoreggiare spudoratamente, sperando di non essere notati.
Scosse la testa deluso, ma subito si riprese: la gran parte della folla era là per il santo, voleva vedere il miracolo, percepirne l’essenza. “E miracolo sia”, si disse, dando inizio al rito.
Tutto procedeva come previsto. Il sangue raggrumato stava cominciando a liquefarsi, il rituale miracoloso stava per compiersi. Fu in quel momento che il vescovo notò degli strani ondeggiamenti tra la folla, qualcuno che furtivo scivolava via dalla basilica, altri che denotavano inspiegabili segni di nervosismo. La folla sul sagrato andava diradandosi a vista d’occhio.
Che novità era quella? Quale evento straordinario stava distogliendo la massa dei fedeli? Chi osava disturbare e disertare il rito?

La potenza del passaparola, se ce ne fosse stato bisogno, stava ottenendo un’ulteriore conferma proprio nel giorno del miracolo di San Gennaro.
Era bastato che un ragazzetto, arrivato in piazza, avesse buttato là poche parole:
-       C’è un altro miracolo oggi a Napoli. Mimì il barbiere sta officiando il miracolo di santa Rosalia...- ed era corso via ridacchiando a diffondere la novella in altri due o tre punti della piazza.
-       Smettete di guardare ‘o miracolo vecchio, venite a vederne uno  nuovo, quello di santa Rosalia, davanti al salone di Mimì...- gridò qualcuno tra la folla.
Nessuno dei presenti capì bene di che cosa si trattasse, ma dopo la rivelazione di Mimì il nome “Rosalia” esercitava un’attrazione morbosa e irresistibile, una curiosità da appagare per uomini e donne. Così da soli, in coppia o a gruppetti, sgattaiolarono via dalla cerimonia sacra per dirigersi verso quella profana, accelerando il passo per non perdersi nulla dello spettacolo.
Pochi minuti dopo, l’incrocio di stradine su cui si apriva il salone di Mimì si era già riempito oltre misura. Su un palcoscenico improvvisato era stato issato un palo con in cima una teca trasparente; dentro alla teca erano esposte delle mutandine femminili, presumibilmente quelle ormai famose di zia Rosalia.
Mimì, vestito da cerimonia col suo abito migliore, osservava compiaciuto quella folla che si accalcava nelle stradine laterali, spingendo per riuscire ad avvicinarsi, quel tanto da riuscire a vedere la “strana reliquia”.
“Tutte anime strappate al Santo” pensò ridacchiando sotto i baffetti insulsi, prima di cominciare ad officiare quel rito blasfemo.
La sua voce chioccia ebbe difficoltà a prevalere sullo schiamazzo diffuso che lo circondava; infine, a fatica, ci riuscì, perché la folla era troppo interessata a ciò che aveva da dire e tacque improvvisamente.
-       Amici qui convenuti – fu l’apertura di circostanza - nella teca in alto vedete le famose mutandine di zia Rosalia, che da quindici anni custodiscono uno dei segreti più intimi del nostro grande campione. –
Cercò di assumere il tono da gran cerimoniere, ma non gli riuscì, officiava male. Si sentiva che non era abituato a parlare davanti a tanto pubblico, non aveva la ieratica tranquillità del vescovo di fronte ai grandi eventi; sembrava piuttosto impaurito, perso, quasi sul punto di rinunciare.
Poi intravvide Carmine. Il dottore lo guardava beffardo, gli occhi arguti che sembravano provocare “su, facci vedere dove sta il miracolo!”
L’effetto fu taumaturgico; Mimì si riscosse dal deliquio in cui stava sprofondando, la voce divenne stentorea.
Allargò le braccia e parlò chiaro alla folla che si era radunata.
-       Certamente, il seme del campione è tutto incrostato, dopo tanto tempo. Ma stanotte è avvenuto ‘o miracolo! Un miracolo che ho il piacere di rivelare a tutti voi. –
Ciò detto, con un telecomando fece aprire lentamente il vetro della teca; mentre la folla tratteneva il respiro, Mimì con un bastone da guardaroba rimosse la reliquia, se così si poteva  chiamare, dalla teca. Un ooooh di sorpresa e stupore accompagnò quel gesto, perché le mutandine nel movimento rivelarono un seme che si era fatto liquido, tornato fresco come allora.
Chiesto nuovamente il silenzio, Mimì chiamò sul palco un assistente, un omone grande e grosso vestito da infermiere, che impugnava con mosse inquietanti una siringa più grossa del normale; con questa e con movimenti teatrali, l’infermiere prelevò in rapida sequenza tre campioni di liquido e ne riempì altrettante fialette.
-       I primi tre giovani calciatori che si presenteranno sul palco avranno in dono le prime tre fiale: basta una normale iniezione intramuscolo e anche un brocco diventerà un campione! –
Il tumulto che seguì fu straordinario.
No, non erano i giovani calciatori, che probabilmente non gradivano quell’etichetta di “brocco” affibbiata implicitamente a chi si fosse precipitato per conquistare il tesoro, bensì i genitori che li spingevano. Questo moltiplicò la confusione, tra padri che usavano la forza, madri la persuasione, fratelli maggiori gli insulti; in questo mulinello di braccia e di parole, tre ragazzi si ritrovarono sospinti in cima alla fila e si aggiudicarono le tre fiale.
Una a testa, una fiala di vetro marroncino con la scritta serigrafata in bianco: DIEGARMANDOplus.

La storia sarebbe forse finita lì, quel sabato 2 maggio 2009, se non fosse che, nelle due domeniche successive, i tre ragazzi trattati col nuovo farmaco si segnalarono per imprese sorprendenti nei rispettivi campionati di terza categoria: due goal a testa la prima partita, uno a testa la seconda, il che fu considerato una chiara dimostrazione dell’efficacia della fiala magica, pur con una certa   diminuzione man mano che il tempo passava.
A dire il vero, si era notata qualche distrazione delle difese avversarie, una certa lentezza di riflessi dei portieri, ma i giovani miracolati erano stati rapidi e abilissimi nello sfruttare tutte le occasioni che si erano presentate in partita.
Il salone di Mimì venne preso d’assalto. I genitori dei tre ragazzi   chiedevano a gran voce la possibilità di un “richiamo” come per le vaccinazioni; gli altri supplicavano di poter cominciare subito il trattamento.
Ma Mimì glielo fece sospirare:
-      Eh, non penserete che i miracoli avvengano tutti i giorni. Potrebbe ripetersi tra mesi, anni, forse mai…-
La popolazione di Napoli non si rassegnò tanto facilmente; madri di aspiranti campioni si scioglievano in lacrime per commuovere Mimì; altri arrivavano a minacciarlo perché si teneva ‘o seme d’o campione tutto per sé, insinuando che volesse favorire persone potenti, parenti e amici.
Mimì ruotò gli occhietti furbi da uno all’altro, facendo intendere che qualcosa poteva anche accadere, ma tutto il procedimento era molto costoso, tanto che lui non poteva permetterselo.
-       E vendilo, questo seme prezioso – era stato il coro unanime dei questuanti - che ci vuole, mica lo pretendiamo gratis! –
-       Fate presto voi, non è mica facile convincerlo a sciogliersi! – Ribatté Mimì, gongolante per aver incassato l’autorizzazione popolare a venderlo.
Le discussioni andarono avanti per giorni, attenuandosi solo una o due ore dopo la chiusura della bottega del barbiere, fino a un sabato di fine maggio, in cui sulla vetrina di Mimì comparve la locandina che tutti desideravano: annunciava per il giorno dopo, alle ore dodici, un nuovo tentativo “di miracolo di santa Rosalia”, perché così veniva ormai chiamato in città quello strano e inquietante fenomeno.
A chi gli chiedeva ulteriori informazioni, Mimì precisava che aveva messo la locandina solo là, perché voleva evitare d’essere preso d’assalto da una moltitudine.

Era bastato dire così per garantirsela, la moltitudine. L’indomani infatti, fin dalle prime ore del mattino, il crocevia davanti al negozio e le stradine laterali furono assediati da una folla nervosa, vociante, eccitata.
Le locandine si erano misteriosamente moltiplicate sui muri delle case e recavano una postilla, scritta a pennarello rosso; informava che, in caso di riuscita del miracolo, le fiale sarebbero state messe in vendita a 100 euro l’una.
Questo aumentò l’agitazione della folla. Infatti, molti si precipitarono al Bancomat per prelevare i soldi necessari, in modo da non farsi trovare impreparati al verificarsi dell’evento miracoloso.
L’unico che sembrava estraneo a quell’eccitazione collettiva era Nicola; il ragazzo si aggirava nelle retrovie con aria assente e visibilmente annoiata, se non addirittura contrariata; come un pesce fuor d’acqua, fu quasi travolto dall’ondeggiare frenetico della folla, finché una mano amica non lo prese familiarmente sottobraccio:
-      Nicola, anche tu qui, ma ce li hai i cento euro? –
Era il suo amico Federico che con aria ispirata e sorridente lo trascinò verso lo sportello del Bancomat.
-      Ma no, lascia perdere, non ne vale la pena. Ti assicuro che non ne vale la pena... – riuscì appena a farfugliare Nicola prima che l’amico scomparisse, ingoiato dalla folla.
Il rituale, iniziato con un certo ritardo per dar modo a tutti di prelevare il denaro, si ripeté identico alla prima volta. Mimì col vestito da cerimonia, il palcoscenico, la teca in alto con le mutandine sporche.
Questa volta, Mimì capì che non era tempo di discorsi: la folla era troppo eccitata per procrastinare l’evento. Chiesto dunque il silenzio, mormorò nell’aria alcune parole misteriose che nessuno riuscì a cogliere, azionò il telecomando per aprire la teca, afferrò il solito bastone e rimosse la reliquia. La fece ruotare lentamente mentre tutti spintonavano per vedere, fino all’ooooh di entusiasmo quando i raggi del sole fecero inequivocabilmente luccicare il seme fresco.
Si proseguì col copione già collaudato: l’infermiere, la siringa, i prelievi, le fialette marroni con la serigrafia bianca.
Questa volta la raccolta doveva essere stata più abbondante, poiché vennero riempite addirittura una quindicina di fiale DIEGARMANDOplus, che vennero rapidamente acquistate a cento euro l’una, non senza qualche litigio verbale tra quelli che si contendevano le ultime disponibili.

Trascorsero settimane e mesi. Passò anche l’estate con un susseguirsi di riti officiati davanti alla bottega di Mimì; i miracoli si erano fatti sempre più frequenti fino a divenire quasi una consuetudine domenicale.
Falangi di ragazzi partenopei si curavano ormai regolarmente con la fiala magica in attesa di diventare campioni; ogni volta la raccolta era più abbondante e il prezzo della fiala saliva: duecento, trecento euro. All’ultimo miracolo erano tante le richieste che aveva toccato la cifra record di cinquecento euro.
Nessuno si tirava indietro, così come non ci si preoccupava del fatto che, a causa della pausa estiva dei campionati, era impossibile verificare gli effetti delle fiale miracolose, cioè le prestazioni in campo dei ragazzi sotto cura, che erano ormai la maggioranza. Così il numero di acquirenti continuò ad aumentare. Mimì roteava gli occhietti sempre più eccitato e felice, mentre zia Rosalia godeva degli effetti collaterali di quella vicenda, lasciandosi andare ad un paio di affettuose relazioni che, chissà, avrebbero potuto riaprire la partita sentimentale della sua vita.
Chi non gradiva affatto questa faccenda era don Vincenzo.
Ad ogni domenica del miracolo inviava in gran segreto emissari nel vicolo di Mimì per sapere esattamente quanto guadagnava quel “fetente”, quel “pezz’ ‘e mmèrda”, tanto per citare un paio degli epiteti più gentili con cui era solito chiamarlo nelle riunioni di famiglia.
Chi gli stava vicino affermava che il boss diventava sempre più livido e irascibile, aveva perduto l’appetito e il buon umore, trattava male anche i figli, soprattutto Pasquale. Era persino dimagrito di qualche chilo.
Conoscendo don Vincenzo, si poteva pensare ad una tempesta imminente, anche perché Mimì risultò appartenere, sia pure come gregario, ad una “famiglia” rivale. Aveva sguinzagliato per la città un manipolo di spioni, investigatori professionisti e ragazzi volonterosi, incaricati di carpire il segreto del seme che si rigenerava.
-       Qualcuno dovrà pur parlare – aveva tuonato – e allora gli faccio vedere i sorci verdi, a chillo llà.
Ma le ricerche risultarono infruttuose, sembrava che il segreto di Mimì fosse impenetrabile.
Ogni lunedì, nella riunione di famiglia, il figlio Pasquale, detto ‘o ragioniere,  relazionava sui ricavi ottenuti da Mimì con la vendita del DIEGARMANDOplus. Un vero e proprio conto “profitti e perdite” veniva stilato ed aggiornato settimanalmente.
-       Ma quali perdite – aveva tuonato nuovamente il boss – i costi sono zero. Anche l’infermiere si presterà gratuitamente, visto che è un suo amico che gli deve della riconoscenza.
-       Parliamo allora dei profitti – si fece coraggio Pasquale – da quando questa storia è iniziata io stimo che Mimì abbia intascato mezzo milione di euro. E se va avanti così…-
-       Non andrà avanti così – sibilò livido don Vincenzo, battendo con violenza la grossa mano destra sul tavolino di cristallo, sbriciolandolo.
Sembrava sull’orlo di un collasso cardio-circolatorio, annaspò nelle tasche per trovare l’abituale pastiglia da mettere sotto la lingua; poi, mentre i camerieri raccoglievano veloci i cocci, chiese d’essere lasciato solo con Pasquale.
-       Mezzo milione – disse, appena solo col figlio – mezzo milione, capisci? Noi li abbiamo spesi e lui li ha guadagnati. E quel farabutto fetuso del nord, che fine ha fatto, ci lascia qua soli a farci umiliare da ‘sto fetente? -
-      Tocchi un tema di cui avrei voluto parlarti – rispose Pasquale – temo che ci siamo fatti minchionare da quel distinto signore di Milano. La fa tanto complicata, bisogna aspettare non so quanti anni per vedere dei risultati, intanto Mimì fa soldi a palate. -
-       Lo voglio vedere, presto, oggi stesso. – Ringhiò don Vincenzo.

La seconda cena da zi’ Teresa sembrò formalmente identica alla prima: don Vincenzo, Ajraghi, il tavolino appartato.
Quasi identica, perché al tavolo c’era anche Pasquale che salutò freddamente l’ospite. Questi si scusò di avere poco tempo; era stato dirottato da Roma su Napoli dalla telefonata di Pasquale e doveva assolutamente prendere il volo delle 21.15 per Milano Linate, l’ultimo della sera.
-       Bene, giusto il tempo per gli spaghetti al cartoccio come l’altra volta, li ho già ordinati per guadagnare tempo. –
La risposta di don Vincenzo era arrivata con tono affabile, quasi pregustasse la replica di una cena con un vecchio amico, ma gli occhi scrutavano l’ospite, come a voler cogliere qualsiasi sintomo di nervosismo su cui far breccia.
-       Certo, non me li voglio perdere. –
La replica sorridente di Ajraghi mal celava un certo imbarazzo. Perché un po’ di nervosismo lo mette, ricevere la telefonata dal figlio del boss a metà giornata e sentirsi intimare, senza troppi convenevoli, di precipitarsi a Napoli perché il padre voleva vederlo.
Che cosa potevano volere da lui? L’affare concluso prevedeva un primo check point dopo otto anni, quando l’embriclone sarebbe stato uno dei tanti bambini che giocava nei “pulcini” di una squadretta giovanile; dopo pochi mesi non poteva essere successo ancora niente.
Il noto profumo di mare e spezie lo colse di sorpresa, mentre era assorto in quei pensieri; lo chef Peppino aveva infatti lacerato il cartoccio e lasciato che la fragranza si sprigionasse, per poi dividere gli spaghetti in tre porzioni diseguali, giacché quella di don Vincenzo doveva essere doppia.
Seguì il lungo silenzio tipico dei commensali alle prese con una pietanza appetitosa. Finalmente, don Vincenzo, dopo essersi passato il tovagliolo sulla bocca, affrontò il tema della serata:
-      Lei avrà sicuramente letto di quello che sta succedendo a Napoli, vero? –
-      Oddio, che altro sta succedendo? – Domandò Ajraghi, ripensando alle cronache sull’immondizia, le discariche, le sparatorie e le uccisioni di stampo camorristico.
-      Lei avrà sicuramente letto di Mimì, quel barbiere che ha inventato un nuovo miracolo. –
-      Ah sì, un miracolo simile a quello di San Gennaro, un po’ blasfemo, mi pare. – Ribatté Ajraghi ridacchiando, mentre sorseggiava con piacere la solita Falanghina fresca.
-      Ma anche molto simile al vostro – ribatté prontamente don Vincenzo - nel senso che anche lui crea campioni col DNA. E sa quanti soldi ha già fatto con questo sistema? –
-      Non saprei proprio, la stampa nazionale non ne parla molto, solo qualche accenno nelle pagine interne. –
-      Allora glielo dico io: mezzo milione di euro, caro giovanotto. Mezzo milione in pochi mesi, la stessa identica cifra che noi abbiamo dato a lei, in attesa di un “miracolo” che si verificherà, se tutto va bene, tra vent’anni. –
Il tono del boss era tagliente. Ajraghi avvertì una minaccia, ma cercò egualmente di controllare il crescente nervosismo. La sua linea di difesa passava necessariamente per lo sputtanamento dell’altro, per cui replicò con un sorriso forzato:
-      Don Vincenzo, ma quello è un buffone, non gli potete credere. Chissà come se lo procura, quel seme…e poi non c’è nessuna base scientifica, nessuna ricerca sul genoma, nessuna metodologia certificata, un’iniezione intramuscolo di seme fresco e nascono i campioni. Ma quando mai! Tutto l’opposto della nostra azienda, che detiene un buon numero di attestati scientifici dei più importanti organismi internazionali! – Prese fiato un attimo, distogliendo gli occhi dal boss che non aveva mosso un muscolo. Subito dopo cercò di concludere, con un argomento che pensò risolutivo.
-      Senza contare il fatto che il nostro prodotto, sia pure in embrione, l’avete visto, vostro figlio ha visto… -
-      Caro dottor Ajraghi – gli occhi del boss erano diventate due fessure – queste cose le sappiamo. Ma conta molto ciò che la gente percepisce: Mimì fa i soldi, i ragazzi fanno i goal, sono tutti contenti. Lo so che Mimì è un imbroglione, ma chi mi dice che non lo sia anche lei e che tra qualche anno non ci ritroviamo con un pugno di mosche in mano e mezzo milione di euro in meno? –
Era il momento di puntare sulla serietà:
-      Don Vincenzo, se potessi glielo restituirei, il mezzo milione, per toglierle qualsiasi dubbio sulla nostra serietà ed onestà. Ma vede, far crescere un embriclone costa una fortuna. Bisogna alimentarlo, allenarlo, mantenerlo in speciali incubatrici da cui può uscire solo per periodi limitati, il tutto monitorato da importanti società scientifiche che ne certificano i progressi. Insomma, il mezzo milione di euro, mi creda, se ne va tutto in costi per far crescere il pupo. –
Consultò distratto l’orologio; era stato bravo, diretto, efficace. Pensava proprio di averli convinti, anche se il nervosismo interno per qualche motivo stentò a placarsi.
-      Alla salute, dottor Ajraghi – disse il boss alzando il suo bicchiere di Falanghina – mi raccomando, non ci faccia pensar male. –
Anche Ajraghi alzò il bicchiere, i cristalli tintinnarono per un attimo. In quel momento, Peppino si avvicinò sorridente per annunciare che il taxi aspettava alla porta e Pasquale,    scusandosi, si alzò per fare una telefonata.
Il commiato fu molto rapido. “Bene” pensò Ajraghi, che vedeva aumentare le probabilità di prendere l’aereo delle 21.15.

Il taxi aspettava vicino all’uscita; il conducente, un giovane bruno ed affabile, indossava una polo azzurra e pantaloni di tela bianchi. “Bianco e azzurro, i colori del Napoli” pensò Ajraghi mentre prendeva posto sul sedile posteriore.
-       A Capodichino, per favore, ho un po’ di fretta perché non vorrei perdere l’ultimo aereo per Milano. –
-       Bene dottò, faremo una volata. –
Non gli andava proprio di passare un’altra notte fuori casa, gli succedeva troppo spesso da quando era esploso il business degli embriclones. Socchiuse gli occhi pensando a Marilena, la giovane moglie, che l’aveva chiamato a Roma per dirgli che lo desiderava, e quando diceva così sapeva bene che lo aspettava una piacevole nottata.
Quella sera le cose sembravano andare per il verso giusto. Via Partenope era relativamente sgombra e forse aveva trovato l’autista ideale, allegro e sicuro di sé, per farsi una corsa fino all’aeroporto senza i soliti patemi: niente traffico, niente ritardi.  
Ma la tranquillità durò fino allo squillo del telefonino dell’autista. Questi ascoltò attentamente, fece una smorfia e riagganciò. Si voltò di tre quarti verso Ajraghi per comunicargli la notizia:
-       Dottò, mi dicono che la strada per Capodichino è tutta intasata. Certo è un’ora di grande traffico, tutti corrono a casa, poi c’è anche la partita dell’Italia in televisione. –
-       L’Italia? Non ci avevo proprio pensato… e allora, che si fa? –
-       Che si fa, dottò? Ci si mette in coda buoni buoni e si vede quanto si impiega. Certo non posso garantirle di arrivare in tempo per il suo aereo. –
-       Oh mio Dio, ma non c’è una strada alternativa, un po’ meno trafficata? –
-       Non direi… o forse sì, un’alternativa ci sarebbe – replicò il tassista meditabondo, quasi riluttante – però da qui bisognerebbe tornare indietro, si allunga di parecchio ed è anche un po’ tortuosa, in collina. Ma se lei vuole tentare, certo il traffico dovrebbe essere più scorrevole. –
-       Proviamo, proviamo. – Insistette Ajraghi, ansioso di cercare in tutti i modi di arrivare in tempo.
L’auto seguì la fiumana del traffico per un paio di semafori, poi svoltò decisa su una strada a quarantacinque gradi sulla sinistra. “Via De Liguori” memorizzò Ajraghi, pensando che poteva venirgli utile un’altra volta, poi “ancora a sinistra in via Foria” trasalì “certo, così si torna indietro di un bel pezzo…meno male, ora svolta a destra, che via è? Michele Tenore, chi sarà mai stato?” Il traffico andò gradatamente diminuendo.
A quel punto non riuscì più a seguire l’intrico di viuzze percorse dal taxi. Rinunciò a memorizzare l’itinerario, finché l’auto non imboccò le dolci volute di Salita Moiariello, superò l’Osservatorio Astronomico per puntare dritta verso il parco di Capodimonte.
Ajraghi pensò che poteva finalmente rilassarsi; la strada era quella prevista, il traffico era ormai ridotto al minimo, quell’autista sembrava davvero sapere il fatto suo.

Don Vincenzo e Pasquale, da quando Ajraghi aveva lasciato il ristorante, avevano parlato pochissimo. Solo un rapido scambio di battute all’inizio, quando il boss aveva chiesto al figlio:
-       Sei proprio sicuro che questo ci minchiona? Non sarà davvero uno scienziato in buona fede? Tu l’avevi visto, questo embri-cazzo… –
-       Pà, che ti devo dire, io ho visto, ma cosa? Una miniatura, un  giocattolo. Che ti posso dire, mi rimane addosso la spiacevole impressione che questo ci stia prendendo per i fondelli. –
A quelle parole don Vincenzo sussultò, perché anche solo l’idea di poter essere preso in giro, e per giunta da uno del nord, era per lui assolutamente insopportabile; fece quindi un cenno a Peppino e alla sua guardia del corpo.
Da quel momento i due si erano concentrati sulle aragoste, a schiacciare chele e staccare dolcemente la carne dalla corazza.
Erano freschissime. Si alzarono dopo una mezzoretta più che soddisfatti della cena prelibata.
Tornando in auto verso casa, il boss sembrò teso e corrucciato, nonostante l’autista si fosse sintonizzato su Radio FM Music, la sua emittente preferita. Stavano trasmettendo un programma di canzoni anni ’60, quando poco dopo la radio sfumò il pezzo in onda per attaccare con Edoardo Vianello e uno dei suoi cavalli di battaglia, “Guarda come dondolo”.
Don Vincenzo abbassò il finestrino di qualche centimetro, inspirò profondamente, poi richiuse e strinse il braccio di Pasquale mormorando:
-       E’ fatta. –

Piaceva ben dolce il caffè a don Vincenzo. Aveva deposto due cucchiaini e mezzo di zucchero raffinato nella tazza e stava mescolando accuratamente; la colazione era completata da cornetti caldi alla marmellata e da un piccolo babà, che il boss non si faceva mai mancare. Era un rito mattutino che lo predisponeva serenamente alla giornata di lavoro.
Seduto su una poltrona di foggia antica foderata di crétonne a fiori, allungò la mano sul tavolino in stile napoletano dell’Ottocento, uno dei suoi mobili preferiti, per avvicinare a sé “Il Mattino”, il principale quotidiano di Napoli.
Pregustava già la notizia di prima pagina, il direttore gliela aveva anticipata: “Imprenditore del nord suicida a Capodimonte”.
Nelle pagine interne c’erano lunghi articoli e dissertazioni su questo strano faccendiere che si spacciava per industriale, un ambiguo personaggio, tale Alessandro Ajraghi, che proponeva strani contratti di lungo termine in cambio di mere promesse, o addirittura in cambio di niente.
Sia pure presa da lontano, a pagina cinque c’era anche una foto dell’uomo che penzolava dall’albero, foto per la quale il direttore del Mattino avrebbe ricevuto una valanga di critiche, che come sempre gli sarebbero scivolate addosso senza minimamente scalfirlo.
I vari articoli concordavano su un punto: si trattava sicuramente di suicidio. Infatti, i primi rilievi esperiti dalla Scientifica non avevano trovato altre tracce se non quelle delle scarpe dell’Ajraghi sul terreno, le sue impronte sullo sgabello ritrovato a qualche metro di distanza, scalciato via dall’impiccato nel tragico momento. Pertanto era attesa l’archiviazione del caso, da parte della Magistratura, nel giro di poche ore.
Sorrise don Vincenzo, pensando che Antonio era proprio bravo, faceva dei lavori puliti come nessun altro. Si rilassò e intinse il cornetto nel caffè con voluttà; era il momento giusto per godersi la colazione e rilassarsi un poco.
Ma appena il suo sguardo scese sotto la metà pagina del quotidiano, il sorriso gli si spense tra le labbra: lì c’era una notizia inattesa, con un titolo intrigante: “Giovane napoletano rivela i segreti di santa Rosalia”.
Si tuffò nella lettura di quell’articolo dal tono ammiccante, nel quale si raccontava che Nicola, un giovane dei quartieri spagnoli di cui non veniva citato il cognome per riservatezza, aveva confessato, a una giornalista prima e alla Polizia poi, che il seme fresco del “miracolo di santa Rosalia” era suo e non d’o campione.
Questo Nicola dichiarava, con gran serietà, di volersi togliere dal cuore il peso di quell’inganno, al quale aveva collaborato per denaro. Si scusava molto con chi era stato ingannato fino allora, ma era giunto per lui il momento di ristabilire la verità; a tale scopo era pronto a sottoporsi al test del DNA e a confrontarlo con qualunque fiala di DIEGARMANDOplus in possesso dei compratori.
Pareva che la Polizia, dopo le verifiche di rito, si fosse presentata alla bottega di Mimì e l’avesse arrestato per truffa aggravata.
Don Vincenzo era sbalordito: com’è che nessuno gli aveva detto niente? Perché il direttore del Mattino non si era premurato di comunicargli la notizia? Forse pensava che non fosse di suo interesse?
Invece lo era, perché se i traffici di Mimì erano un imbroglio allora aveva ragione Ajraghi, e quel coglione di suo figlio Pasquale…
Lo sapeva che non avrebbe dovuto dargli ascolto, pensò mentre stritolava la tazzina vuota e annaspava nuovamente in cerca delle pillole sub-linguali; con la mano ferita dai cocci della tazzina ne prese una, mentre con l’altra afferrava il telecomando del televisore, incurante del sangue che gocciolava a terra.

Dopo un frenetico zapping tra un’emittente locale e l’altra, si sintonizzò su Televomero quand’era appena iniziato il telegiornale, che si apriva naturalmente col suicidio di Ajraghi; subito dopo andò in onda il piatto forte della trasmissione: l’intervista che Susanna Sorrentino, la giornalista più carina dell’emittente, aveva strappato a Nicola, il ragazzo che si era auto denunciato.
Questo Nicola non si vedeva bene, sempre voltato di schiena, la voce alterata da un distorsore elettronico per non essere riconosciuto; sembrava molto onesto e fermamente determinato a fare giustizia perché, diceva, per tutto questo tempo lui non aveva reagito ai signori del male, ma era giunto il momento di cambiare, voltare pagina, combattere e smascherare le attività criminose.
Ma la giornalista non si accontentava di dichiarazioni generiche. Lo incalzò:
-       Puoi spiegarmi com’è avvenuto il contatto con Mimì, come avveniva la raccolta del seme? La gente vuole sapere, e poi se vuoi essere creduto devi essere preciso! –
-       Ma…è stato Mimì… - Nicola tergiversò, visibilmente imbarazzato, poi inspirò profondamente e disse tutto d’un fiato: - Mimì un giorno mi si era avvicinato e mi aveva detto che sua zia Rosalia voleva conoscermi, che le ricordavo la sua giovinezza, che lui mi avrebbe dato cinquanta euro se le tenevo un po’ di compagnia. –
-       E quindi tu per cinquanta euro… -
-       In realtà cento euro, perché altri cinquanta me li dava zia Rosalia. Cento euro ogni volta, cioè ad ogni “miracolo”. –
La conversazione si fece scabrosa; tenace, la giornalista non intendeva rinunciare ai dettagli più intimi, che sarebbero sicuramente finiti su You Tube e avrebbero forse fatto la sua fortuna:
-      Riassumendo, tu per cento euro tenevi compagnia a zia Rosalia. Avevate dei rapporti sessuali, quindi. –
-      Sì, cioè no… – rispose esitante il ragazzo – non rapporti completi, perché lei voleva ripetere esattamente quello che aveva fatto con ‘o campione, sapete che cosa intendo. A me non dispiaceva, perché è davvero una bella donna. –
-      Ti capisco. – Poi rivolta alla telecamera: – Questa è la confessione completa di Nicola, in seguito ripetuta alla Polizia. Vi abbiamo raccontato una storia incredibile, figlia dei nostri giorni. A voi la linea. –
Don Vincenzo spense il televisore e premette il campanello sul tavolino. Arrivò Antonio, cui comandò secco:
-      Manda qua mio figlio Pasquale. Immediatamente. -
Un tuono lontano annunciò in quel momento l’arrivo di un temporale, piuttosto tardivo rispetto alla stagione.

Napoli 2025, un mattino di primavera


Certo che con Google-voice, il motore di ricerca a comando vocale, era tutto facile. In un dolce sabato di aprile, era bastato     a Nicola pronunciare il nome “Ajraghi” nelle vicinanze del suo micro computer, grande poco più di un pacchetto di sigarette, per ritrovarsi un certo numero di testate di quotidiani proiettate sul muro.
Sempre tramite comando vocale, Nicola scelse “Gazzetta”, che obbediente si ingrandì davanti a lui fino ad assumere le dimensioni del tradizionale giornale.
Mentre sfogliava con gli occhi le pagine della Gazzetta dello sport che si avvicendavano sul muro, constatò felice come la mitica rosea fosse riuscita a sopravvivere, nonostante le innumerevoli crisi e traversie, rimanendo uno dei pochi giornali on line disponibili sul mercato.
I giornali tradizionali, di carta stampata, erano stati da molti anni soppiantati da quelli on line; successivamente però anche questi non avevano retto alla crisi dell’editoria e avevano cominciato a chiudere uno dopo l’altro, con un effetto domino spettacolare. Pochi mesi prima anche “Il Mattino”, da sempre il glorioso quotidiano di Napoli, aveva preso commiato dai lettori con uno straziante articolo di fondo del direttore, che denunciava come la perdurante situazione politica non lasciasse sopravvivere nessun mezzo d’informazione diverso dalle televisioni, che invece imperversavano con duemila canali a disposizione dal satellite,   ventiquattrore al giorno.
Non gli capitava spesso di consultare la Gazzetta, ma in quei giorni era nell’aria un grande evento: Max Ajraghi, giovanissimo calciatore di un grosso club del nord, scendeva ad esibirsi per la prima volta al San Paolo di Napoli, la città dove il padre aveva trovato un’inspiegabile morte anni prima, poco prima che lui, Massimiliano, nascesse e venisse iscritto all’anagrafe di Milano.
A quel tempo, la storia dell’imprenditore di successo, suicida per motivi inspiegabili nel parco di Capodimonte, aveva riempito le cronache; chi ricordava il fatto era molto curioso di vedere in campo il figlio, anche per il collegamento, fatto all’epoca, con un presunto episodio di clonazione.
Nicola si lasciò assorbire da un’intervista al giovane Max, appena sedicenne, corredata da una foto da cui trapelava la straordinaria somiglianza con un grande campione del passato. Nell’intervista, alla domanda se si considerasse il clone del grande campione, Max negava con una risata franca, aggiungendo però che sperava di emularlo sul campo.
Affermava di sapere poco sulla morte del padre. Raccontava invece che la mamma l’aveva spedito a sette anni ad una scuola calcio e da lì era cominciata la sua avventura.
“Ne sa poco, lui” pensò Nicola, ripercorrendo in un attimo gli eventi che tanta importanza avevano avuto nella sua vita.

-       Allora che succede, stamattina niente coccole? Che cosa ci sarà mai di tanto interessante sul giornale da trascurarmi così? –
Caterina si era appena alzata dal letto e si stava dirigendo al computer come uno zombie, lo sguardo ancora carico di sonno, il volto imbronciato della bambina delusa.
A Nicola piaceva moltissimo quando metteva quel broncio un po’ infantile; le cinse la vita, percependo al tatto la sua nudità sotto la camicia da notte leggerissima, prima di attirarla a sé facendola sedere sulle sue ginocchia.
Era bellissima, splendente nella sua maturità di trentenne. Nicola la guardò estasiato, constatando che era sempre più attraente. Sentì salire irresistibile l’impulso di baciarla e fare l’amore con lei. Si trattenne, troppo preso dal grande evento; si limitò a indicarle con lo sguardo l’articolo su Ajraghi, mormorando:
-       Ricordi? –
Come poteva non ricordare? Lo abbracciò forte a sua volta e rimasero così per un lungo istante, mentre i loro pensieri fluttuavano liberamente verso un passato ormai lontano.
Quelli di Nicola corsero subito a quel mattino memorabile in cui, veramente a sorpresa, era riuscito a vedere Caterina in strada, per la prima volta. Quel giorno non aveva avuto bisogno di temporeggiare nella cartoleria davanti a casa di don Vincenzo, nella speranza di vederla; se l’era trovata davanti ancor prima di entrare. Fatto vieppiù sorprendente, era stata lei a fermarlo, affrontandolo senza mezzi termini:
-       Dì la verità, sei tu Nicola? –
Lui si era trovato spiazzato, sulla difensiva nel rispondere:
-       Mah…sì…io mi chiamo Nicola… e tu? – aveva domandato, provando a passare al contrattacco, anche se conosceva benissimo il nome della ragazza.


[1]  Subbuteo: gioco da tavolo nel quale viene riprodotto in miniatura il gioco del calcio. Popolarissimo negli anni Settanta e Ottanta, simula il calcio vero e proprio con undici giocatori per squadra, rappresentati da miniature in plastica, manovrate con un tocco a punta di dito che richiede particolare destrezza.
[2]  Genoma: altrimenti detto “patrimonio genetico”, è il corredo di cromosomi contenuti in ogni cellula di un organismo, rappresentando così l’informazione ereditabile dall’organismo stesso.
[3]  KPMG: società multinazionale olandese specializzata nella revisione di bilancio e nella consulenza alle imprese.
[4]  Veuve Cliquot: celebrata marca di champagne.

(seconda parte segue)

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