“Mi credevo che il mondo si divideva in due
parti, quelli che abbassano lo sguardo e quelli che no. I fessi, che sono la
maggior parte, e quelli tosti, quelli che si prendono il mondo perché non hanno
paura di niente.”
Andrej Longo: “Dieci”
Napoli 2009, un pomeriggio di primavera
“Subbuteo?” [1]
Nicola si
stropicciò gli occhi incredulo: quanto tempo era che non vedeva più giocare a
Subbuteo? E quante volte ci aveva giocato con suo padre e gli amici d’infanzia?
Era un mito: i piccoli calciatori di plastica che volevano sembrare veri, le
maglie che replicavano quelle autentiche, anche le più complicate, dalla
Sampdoria blucerchiata al Brasile gialloverde; in seguito, addirittura le
seconde maglie delle squadre più importanti: il Real, la Juve, o ancora
nazionali di stati che non esistevano più, come l’Unione Sovietica con la sua maglietta
rossa e l’indecifrabile scritta CCCP.
Provocava un’allegra disputa tutte le volte: “Io
tengo il Napoli, io l’Udinese, no, io il Torino con la seconda maglia…” Ci
si poteva sbizzarrire trovando sempre la squadra giusta; ma quante ne avrà
avute il papà, di quelle scatolette in cui i calciatori stavano tutti diritti e
ordinati, per non rompersi?
Era stato per
anni il suo divertimento preferito, poi il gioco, chissà perché, era passato di
moda, e il tessuto verde del terreno, le scatolette con i giocatori, i palloni,
erano tutti scomparsi, probabilmente esiliati in soffitta.
Finché, con suo
grande stupore, quel pomeriggio era ricomparso, e proprio nella casa del boss.
Nicola, nel
pieno dei suoi sedici anni di età e dei pochissimi soldi a disposizione,
passava spesso le sue giornate appollaiato su un muretto in una stretta via dei
quartieri spagnoli. Un muretto che era diventato il luogo di ritrovo per i
ragazzi della zona, che vi si radunavano spesso a ridere e scherzare tra di
loro oppure con i passanti. Nicola a volte vi si rifugiava anche da solo e in
ogni caso aveva una sua personale posizione privilegiata, che nessun altro
osava occupare, dalla quale poteva parlare con gli amici e al tempo stesso
occhieggiare la casa del boss. Il boss, inteso come un esponente di spicco di
una famiglia camorrista, era don Vincenzo.
Questi era un
personaggio molto noto a Napoli, un vero uomo di panza sia in
senso fisico che figurato; una volta arricchitosi con numerosi traffici
illeciti, aveva voluto rimanere nel quartiere in cui era nato. Perciò in quel
quartiere aveva acquistato poco alla volta le case limitrofe, fino a possedere
una specie di reggia.
Un edificio inaccessibile;
violabile, sia pure molto parzialmente, solo dallo sguardo di Nicola che, accovacciato
sul muretto in quella ben precisa posizione, poteva intravvedere, al di là di pochi
metri di giardino, una delle finestre sul
retro, che si apriva su una stanza apparentemente poco usata in cui troneggiava
un grosso tavolo, contornato da sedie e poltrone di foggia antica.
La reale
motivazione che portava puntualmente Nicola sul muretto a tenere d’occhio la
finestra del boss si chiamava Caterina, la figlia minore di don Vincenzo; la ragazza aveva la sua
stessa età e, da quella finestra, l’aveva già ricambiato di qualche eloquente e
ardente occhiata.
Caterina era la
tipica bellezza napoletana: mora, con grandi occhi scuri, il seno già ben
sviluppato nonostante la giovane età, i fianchi un po’ larghi stemperati da un’altezza quasi nordica, che la
rendeva slanciata e formosa al tempo stesso: una vera forza della natura.
Nicola se ne era
innamorato qualche mese prima, fin dalla prima volta che l’aveva vista apparire
in quella stanza, l’unica cui il suo sguardo aveva accesso. Caterina l’aveva
capito subito, perché l’intensità dello sguardo di Nicola era stata tale da
riscaldarla a distanza, facendola arrossire mentre una scarica ormonale le
percorreva la schiena rimescolandole il sangue.
Si diceva che la
ragazza fosse la prediletta del padre, che per lei aveva un vero e proprio
debole e gliele dava tutte vinte, al contrario del primogenito Pasquale che
veniva strapazzato per ogni sua azione più o meno maldestra. Don Vincenzo, allo
scopo di proteggerla, la faceva uscire solo al mattino per andare a scuola
dalle suore, accompagnata da una guardia del corpo.
Nicola aveva
capito subito che l’unico modo per vederla era stare sul muretto ad aspettare la
sua apparizione, come quella di un angelo; per migliorare la visuale era andato
a frugare in un vecchio baule di casa, dove tempo addietro aveva visto la madre
riporre un minuscolo binocolo: “E’ un binocolo da teatro” aveva spiegato
ridendo, dal momento che a teatro non ci andavano mai.
Da quel giorno
Nicola cominciò a girare col piccolo binocolo in tasca; non voleva che gli
amici lo vedessero, né tanto meno il boss o una delle sue guardie del corpo.
Riusciva ad utilizzarlo solamente quando era solo; se Caterina appariva, lo
estraeva furtivamente per avvicinarla alla vista, schermandolo con le mani in
modo che nessuno, e soprattutto lei, scoprisse la natura dell’oggetto.
Era apparsa
spesso; a volte si metteva alla finestra fingendo d’essere conquistata dalla
bellezza delle camelie che crescevano nel giardino
sottostante, altre sedeva al tavolo a studiare lanciando occhiate furtive al bel
ragazzo sconosciuto.
In seguito si
era fatta via via più audace: aveva improvvisato qualche passo di danza, una
capriola, una spaccata, finendo sempre l’esibizione con un sorriso enigmatico.
Fino al giorno
memorabile in cui, da dietro la tenda, Nicola aveva visto spuntare due capezzoli
scuri e un reggiseno bianco svolazzante
che Caterina si apprestava ad indossare; la ragazza, ignara o maliziosamente
consapevole della sua presenza e del suo binocolo, si stava vestendo davanti
alla finestra aperta, nel senso che un vento malandrino muovendo la tenda la
nascondeva e la rivelava allo sguardo del ragazzo in una continua altalena di
emozioni.
Ignara o
maliziosa che fosse, Nicola si appiattì sul muretto quanto poté nella speranza
di non farsi vedere, finché, nel tentativo di modificare l’angolo di visuale
per riuscire a inquadrare il resto della figura discinta, non aveva perso
l’equilibrio ed era caduto.
Maledicendo la
sua goffaggine, era risalito appena in tempo per vedere il lampo delle lunghe
cosce nude di Caterina, delle sue mutandine bianche, il triangolo scuro del
pube in trasparenza. “L’ho visto davvero o me lo sono immaginato?” si
domandò prima che la ragazza, tirando su i pantaloni a vita bassa, mettesse allo
spettacolo la parola fine voltandogli definitivamente le spalle.
Quel giorno non
sembrava quello giusto per ulteriori abboccamenti visivi con Caterina, che
infatti non era apparsa alla finestra. Nicola aveva intuito, dietro la tenda,
un notevole trambusto; alcuni servitori della casa si davano un gran daffare ad
allontanare le sedie e le poltrone dal tavolo; da ultimo, sotto gli occhi
vigili di Pasquale e di Antonio, il segretario
e guardia del corpo del boss, i lavoranti avevano portato una grossa tavola di legno
truciolare che avevano installato sopra al tavolo, badando che fosse ben
centrata.
Fu allora che
Nicola, inforcato rapidamente il binocolo, aveva potuto notare, fissato alla
tavola di legno, l’inconfondibile tessuto verde con i segni del campo di
calcio: l’area di rigore, il cerchio di centrocampo; c’erano addirittura le
bandierine del calcio d’angolo.
Cosa da non
credere, stavano per mettersi a giocare a Subbuteo.
Nicola da un
lato era deluso, perché con questa novità in ballo aveva la certezza che
Caterina non sarebbe apparsa, dall’altro incuriosito da quell’inconsueto spettacolo. Si
mise comodo ad aspettare l’inizio della partita.
L’attesa non fu
lunga.
Prima Pasquale e
Antonio si sbizzarrirono a schierare i giocatori e fare tiri e passaggi di
prova, tra risate, sfottò e litigi vari “è goal, è entrata, ma no l’ho
parata, arbitro!”; poi si fermarono tutti, come in attesa di un grande
evento.
Nicola vide
entrare un signore distinto, mai apparso prima. Indossava un impeccabile abito
grigio. Dopo una rapida stretta di mano
ai due litiganti e si era avvicinato al tavolo; aveva deposto sul terreno di
gioco un omino della squadra azzurra, quella del Napoli, apparentemente uguale
a tutti gli altri, se non fosse che…
Nicola pensò di
avere la febbre.
Forse perché faceva
già caldo in quell’inizio di primavera, si slacciò il colletto della camicia e
si appiattì ancor più contro il muretto,
strizzando gli occhi, mettendo a fuoco il binocolino per vedere meglio.
Ma aveva visto
bene: il nuovo omino del Subbuteo, ricevuto il solito tocco con l’indice
dall’uomo in abito grigio, si era messo a correre. Ma non scorrere sul tessuto
verde: proprio correre, una gamba dietro l’altra, una falcata rapida, come se
fosse stato un vero uomo in miniatura; arrivato sul pallone l’aveva crossato
verso il centro dell’area.
Pasquale in
difesa aveva risposto in affanno, buttando la palla fuori area. Ma lo
spettacolo non aveva ancora raggiunto il suo culmine, perché l’omino azzurro,
ricevuto un altro delicato colpetto sul posteriore, aveva ripreso a correre e
questa volta, giunto sul pallone, l’aveva colpito di sinistro ad effetto,
proprio come un giocatore vero, scagliandolo in rete nell’angolo alto alla sua
sinistra. A dire il vero gli era parso proprio che l’omino avesse allargato e
ruotato il piede, in modo da trovarsi all’impatto con la palla nella posizione
ideale per imprimerle un effetto particolare, come solo alcuni campioni
sapevano fare.
Nicola si stava
domandando cosa potesse mai essere quella farsa, quando capì che la partita era
già finita. I giocatori “umani” si strinsero la mano; sembravano contenti, ma
lui non sapeva per quale motivo. L’omino azzurro “speciale” era scomparso, o
quanto meno non riusciva a riconoscerlo da quella distanza; ma no, avrebbe
giurato che non c’era proprio più.
Concluse che
l’uomo vestito di grigio doveva averlo riposto nella scatoletta per portarselo via.
Zi’ Teresa,
il famoso ristorante che dal 1887 troneggia nel borgo marinaro di Santa Lucia,
non era particolarmente affollato quella sera; forse perché era un giorno
feriale, oppure perché l’onda lunga della crisi economica si faceva sentire.
Così non era
stato difficile riservare un tavolino un po’ isolato per una cena di lavoro
importante, come aveva chiesto al telefono Pasquale, il figlio di don Vincenzo.
Seduti ad un
tavolo quadrato piuttosto anonimo, ma apparecchiato con una raffinata tovaglia di Fiandra e posate
d’argento, riflessi negli innumerevoli specchi dalle cornici dorate che
decoravano le pareti, due uomini fecero tintinnare i bicchieri in un gesto
augurale, poi gustarono un sorso di Falanghina e li deposero, rimanendo fermi a
scrutarsi.
Uno dei due era
don Vincenzo in persona, che aveva trascinato fino a quel tavolo il corpo
massiccio, il volto dai lineamenti grossolani, il naso a melanzana, le guance
cadenti verso il triplo mento. Era l’immagine di un ultra cinquantenne che non
aveva mai fatto sport. Dimostrava qualche anno in più, salvato nell’aspetto dai
capelli ancora neri, che i maligni sostenevano si tingesse, mentre le folte
sopracciglia guidavano lo sguardo di chiunque ai rigogliosi ciuffi di peli che fuoriuscivano
da entrambe le orecchie.
Su questi,
infatti, con grande irritazione di don Vincenzo, si era posato
lo sguardo del suo interlocutore. Costui, parecchio più giovane, aveva
l’aspetto tipico del manager distinto e azzimato, elegante nel completo grigio di
ottima fattura, la camicia di lino bianco, sulla quale spiccavano le iniziali
ricamate “AA” all’altezza del cuore, la nota di colore dellla cravatta sulle
tonalità del violetto. La sua gestualità controllata indicava chiaramente che
era del nord, anzi proprio di Milano, come giudicò dall’accento don Vincenzo.
Con uno di
questi gesti vagamente affettati, l’uomo in grigio estrasse un biglietto da
visita e lo porse con sussiego a don Vincenzo, che si sforzò di leggerlo
nonostante l’avanzata presbiopia.
Per sua fortuna
il nome della società era scritto in grande: CSG S.p.A. dove CSG,
spiegava il biglietto, stava per Centro Studi sul Genoma[2]. Il
resto era per lui illeggibile. Venne in suo soccorso il giovane, presentandosi:
- Sono il dottor Alessandro Ajraghi, Amministratore
delegato della CSG. la mia società è specializzata
nello studio del genoma. E’ un’azienda molto seria, come dimostra il fatto che i nostri bilanci sono certificati dalla KPMG…-
- Che?
– interloquì don Vincenzo sgranando gli occhi.
- La
KPMG[3] –
rispose con un sorriso di sufficienza Ajraghi – è una delle più importanti
società di certificazione. –
- Voi
dovevate essere molto bravo a scuola, sennò con quelle iniziali…- don Vincenzo
indicò le sigle ricamate sulla camicia – eravate sempre il primo ad essere
interrogato, vero? –
- Sì,
era un destino. – rispose Ajraghi, sforzandosi di non tradire il nervosismo che
si stava impadronendo di lui - Dicevo, la mia società…-
- Che
età avete? – Questa volta l’interruzione di don Vincenzo apparve perentoria, il
tono autoritario.
- Trentacinque.
– Rispose compiaciuto l’altro, visibilmente orgoglioso della posizione così
rapidamente conquistata.
- Complimenti giovanotto, avete fatto presto. Io
ne ho cinquantacinque e ho dovuto sudare assai, ma ora sono… come si chiama
l’Amministratore delegato di un impero? –
Il palese
accenno all’organizzazione criminale diretta da don Vincenzo provocò un brivido
in Ajraghi; certo, sapeva benissimo chi aveva di fronte, ma sentirselo ricordare
così sfacciatamente lo turbò; d’altra parte, sapeva anche di non avere
alternative, per cui si limitò ad abbozzare un vago sorriso. Voleva evitare di irritare l’interlocutore per giungere presto
al dunque:
- Come
le dicevo, la società è leader mondiale nel campo della clonazione umana e…-
Questa volta fu
interrotto dalla vista delle narici di don Vincenzo che si erano improvvisamente
dilatate, mentre lo sguardo era divenuto assente, accompagnato da un rossore
violento che si era impadronito del volto.
Ajraghi pensò ad
un malessere improvviso, ma capì subito di aver preso un abbaglio. Infatti, il prorompente
profumo di mare e di spezie che si era sprigionato nell’aria costrinse anche
lui a socchiudere gli occhi e respirare piano, nello sforzo di mantenere un po’
di autocontrollo.
Gli spaghetti al
cartoccio avevano atteso pazientemente sul carrellino di servizio; lo chef era
rimasto rispettosamente in silenzio fino alla prima pausa nei discorsi dei due
commensali, infine aveva rotto gli indugi aprendo l’involucro e aveva lasciato che
quell’aroma inebriante si diffondesse nell’aria per qualche secondo, annunciando
poi con giustificato orgoglio la prima beatitudine della serata:
- Spaghetti ai frutti di mare, cucinati come
solo a Napoli sappiamo fare, con cozze, vongole veraci, gamberi e cannolicchi. –
Successivamente,
rovistò nel cartoccio ad arte, facendo aumentare quel profumo da svenire, e ne
servì due porzioni giuste, né troppo né poco, come si conviene ad un ristorante
di classe.
- Che
fai, Peppino, mi metti a dieta? Non vorrai farmi morire di fame proprio qua al
ristorante, pensa alla pubblicità negativa che ti faresti! -
Peppino sorrise.
Tutte le volte don Vincenzo faceva la stessa sceneggiata, e puntualmente lui si
doveva rassegnare a raccogliere dal cartoccio gli spaghetti rimasti, quasi una
seconda porzione, e aggiungerli al piatto del boss.
Seguì un lungo
periodo di silenzio, in cui i due commensali, così diversi tra loro, furono
accomunati nella degustazione di quel cibo divino.
- Questi spaghetti sono quanto di più vicino al
paradiso io conosca – disse don Vincenzo rompendo il silenzio - spero che siano
anche di suo gusto. –
- Deliziosi.
– Rispose Ajraghi deponendo la forchetta e portando fuggevolmente il tovagliolo
alle labbra.
Ma l’uomo non
era là per fare i complimenti al cuoco, per cui decise di tornare rapidamente
al punto che gli stava a cuore:
- Vede
don Vincenzo – e qui abbassò istintivamente la voce – la mia società è molto
avanzata nello studio del genoma, collabora con le migliori università
americane, svizzere, olandesi e ora… siamo arrivati ad una conquista
incredibile. Sono orgoglioso di annunciare che la CSG è ormai in grado di
clonare l’uomo attraverso processi semi-industriali. –
Don Vincenzo
sgranò visibilmente gli occhi; forse era stato solo un gesto di cortesia,
oppure un incontro troppo ravvicinato col peperoncino, perché un attimo dopo si
era già rituffato sulla sua doppia porzione di spaghetti.
- Ma
questo non è tutto – proseguì Ajraghi cercando vanamente lo sguardo del boss –
abbiamo già creato degli embrioni-clone che si comportano come uomini in
miniatura. Naturalmente cloniamo personaggi importanti, attori, campioni dello
sport. Prima ne preleviamo il DNA, poi attraverso una tecnologia
sofisticatissima e, come lei può immaginare, segretissima, realizziamo gli
embrioni-clone, che poi crescono e diventano la fotocopia del celebre genitore.
-
- Non
sarà per caso illegale? – Lo interruppe nuovamente don Vincenzo con l’aria più
candida possibile, senza riuscire però a rimuovere l’impressione del gatto che
si diverte a giocare col topo.
“Questa è proprio bella, senti da che pulpito viene la
predica!” pensò Ajraghi non
riuscendo a trattenere un sorriso. Ma subito si ricompose per recitare la sua
parte con la massima serietà:
- Vuole
scherzare? La nostra attività è seguita con interesse da enti scientifici di
tutto il mondo, certificata da alcuni dei più importanti centri di ricerca.
Pensi che gli americani li chiamano embriclones i nostri piccoli cloni,
un nome coniato apposta da una famosa rivista scientifica che ci ha dedicato un
lungo e interessante articolo. Con questa tecnica abbiamo già realizzato, e piazzato
sul mercato, gli embrioni-clone di Pelé, Beckenbauer, Mac Adoo…-
- Chi?
– Interloquì don Vincenzo sgranando di nuovo gli occhi.
- Bob Mac
Adoo, un grande campione di basket americano che ha giocato parecchio anche a
Milano. Ma…-
Gli era parso il
momento buono per la stoccata finale, ma lo chef sembrava fare apposta ad
impedirgliela:
- Guardi che spigola, don Vincenzo, chi l’ha
pescata se la sognerà la notte finché campa! –
Effettivamente
era una bella bestia sul chilo e mezzo, uscita dal forno con quel colorito dorato
dei pesci cotti e abbrustoliti al punto giusto. I due seguirono ossequiosi e in
silenzio lo chef che puliva il pesce e ripartiva le tenere carni sui due piatti
in parti quasi uguali, per poi tuffarsi senza indugi in quel delicato e appagante
sapore.
- Don
Vincenzo, lei stasera mi sta viziando con tutte queste prelibatezze – esordì Ajraghi
con tono adulante – ma anch’io ho una sorpresa per lei. Oggi ho portato con me,
e ho dimostrato a suo figlio e al suo staff, l’embriclone di un campione
che a Napoli, mi lasci dire, è stato di casa. -
- Lo so
già – lo interruppe il boss tacitandolo con un gesto della mano – mio figlio
Pasquale mi ha raccontato tutto. Caro signore, a Napoli non ci si distrae
davanti a nu bello pisci così. Finiamolo con calma e poi firmiamo il
contratto. –
Ajraghi deglutì.
Dovette fare ricorso a un goccio di Falanghina per cercare di darsi un contegno.
Possibile fosse tutto così facile? Il grande capo era già pronto a firmare?
Eppure era così.
Finito il pesce, don Vincenzo fece portare ‘na babà e una
bottiglia di Veuve Cliquot[4] per
festeggiare.
Le firme furono
poste sul contratto e su un assegno: mezzo milione di euro di anticipo su un affare
che avrebbe raggiunto i cinque milioni di euro al momento dell’eventuale esordio
del clone in serie A.
Don Vincenzo
firmò anche l’assegno senza tradire la minima emozione, poi si sporse verso Ajraghi
e a bassa voce domandò:
- Mi
tolga solo una curiosità. Ma come lo prelevate ‘sto DNA? –
- Don
Vincenzo – rispose Ajraghi imbarazzato – ma glielo devo dire io? Non immagina
quante tracce lasciano questi campioni? Quante ragazze hanno conservato un
piccolo souvenir? Basta sguinzagliare un paio di cani da tartufo, volevo dire, investigatori
privati o simili, e le assicuro che il DNA si trova facilmente, pronto per
l’uso. -
L’indomani, come
tutte le mattine, Nicola per andare a scuola passò a fianco della casa di don
Vincenzo per cercare di incontrare Caterina; come sempre la sua speranza andò
delusa.
Gli sarebbe
proprio piaciuto chiederle chi fosse quel misterioso personaggio che sembrava
un super campione di Subbuteo, ma dovette concludere che era proprio impossibile
vederla uscire di casa.
Infatti, ogni
mattina Nicola indugiava nella cartoleria di fronte, con la scusa di scegliere
una matita, una penna o una gomma, continuando nel frattempo a occhieggiare
vanamente il portone da cui la ragazza sarebbe dovuta uscire.
Anche quella volta
si rassegnò a proseguire senza vederla, pensando che era proprio un mistero
dove Caterina andasse a scuola e a che ora uscisse di casa; infine, come
accadeva spesso, dovette affrettare il passo per non arrivare in ritardo.
Giunto quasi al
portone della scuola, fu arpionato dal suo amico Federico che lo prese
sottobraccio, mormorando:
- Hai
sentito la notizia? Si dice che don Vincenzo, il papà della tua amata…-
- Non
scherzare, Fede – lo interruppe Nicola – che amata vuoi che abbia se non la
conosco neppure? –
- Beh,
insomma, quella che vorresti fosse la tua amata, insomma il suo papà si è
comprato ‘o Campione. –
- Questa è proprio bella – scoppiò a ridere
Nicola – ma ti rendi conto che quello non gioca più da anni, è invecchiato,
ingrassato…-
- Che
mi prendi per fesso? Lo so anch’io che è vecchio e grasso, ma quando dico ‘o
Campione intendo il suo clone, un clone piccolo piccolo che già gioca al
calcio come il padre, e che diventerà un grande come lui! –
- Un
clone piccolo piccolo… ma che stai dicendo? –
In quel momento
arrivò un altro gruppo di amici, tutti agitati:
- Ragazzi, avete sentito anche voi del clone?
Pare sia piccolissimo, lo chiamano embrione-clone, ma si comporta già come un
essere umano! –
Nella mente, Nicola
rivide per un attimo la scena cui aveva assistito il giorno prima e fu colto da
un violento capogiro. Quando poco dopo si risvegliò per terra, Federico lo stava
sventolando con un quaderno, porgendogli da bere un sorso d’acqua. La
campanella stava suonando in lontananza.
Ma come avevano
fatto a saperlo tutti?
Questo si
domandava Nicola, mentre aiutato faticosamente dai compagni, si rialzava,
incamminandosi verso l’aula.
“Ma una notizia originale non ha bisogno di alcun
giornale.”
Come nella
canzone di De André, gruppi di persone si formavano e si scioglievano in continuazione
nel quartiere; la notizia del giorno, di cui dibattere, su cui confrontarsi,
ridere, arrabbiarsi, era sempre quella: il clone del grande campione.
Sarà vero, non
sarà vero, ma lo dicono tutti, c’è qualcuno che l’ha visto… l’ha visto? Ma chi,
cosa, dove?
Una morbosa
curiosità si sparse a macchia d’olio in tutta Napoli; nel giro di poche ore
l’acquisto di un clone che prometteva di emulare il padre campione era dato per
scontato. L’embrione-clone era ormai un concetto acquisito e un crescente
numero di persone giurava di aver visto con i propri occhi questi omini girare per la città, o addirittura organizzare
partite di calcio sui tavolini dei bar.
La scena divenne
ripetitiva nei giorni seguenti.
Le signore al
mercato ordinavano zucchini e pomodori e intanto bisbigliavano all’ambulante:
- Ma ha saputo
di don Vincenzo, che si è comprato un clone di…-
- Vuole che non lo sappia, signora, sono stato
il primo a saperlo, me l’ha confidato il figlio Pasquale. Pare che l’abbia
visto, piccolo così, giocare a Subbuteo come il padre giocava a pallone! – rispondeva
il verduraio avvicinando il pollice e l’indice per simulare la dimensione del
clone.
La notizia
correva di voce in voce, di angolo in angolo, tanto che alcuni punti della città, via Caracciolo,
piazza del Plebiscito, via Toledo, erano assediati da capannelli di gente che
discuteva, si infervorava, scherzava su quell’unico tema che appassionava in
quei giorni i napoletani.
Dimenticati i
cumuli di spazzatura, la camorra, le discariche abusive, gli scandali in
Comune, don Vincenzo e il clone tenevano trionfalmente banco.
In realtà, non
era il fatto in sé ad incuriosire la popolazione, bensì un particolare apparentemente
secondario, ma non per questo trascurabile.
Era stato Carmelo,
un gelataio ambulante che girava per la città col tradizionale carretto a
pedali, potendo così partecipare a innumerevoli discussioni sulla questione, a
sollevare il problema che gli stava a cuore.
Con la maglietta
a righe orizzontali bianche e blu, di quelle che una volta erano dette alla
marinara, dominava gli altri dall’alto del sellino, da cui non scendeva mai.
Era giovane Carmelo, ma aveva quell’aria rassegnata di chi ha già subito delle
batoste nella vita, e per questo motivo diventa sospettoso su tutto.
- Ma scusate, questo DNA – disse – dove se lo
procurano, questi signori? Non è che scendono dal nord a rubarcelo? – Nel suo
dire si poteva cogliere un po’ di risentimento e di sospetto.
- Ma che vuoi che sia – lo avevano zittito gli
amici – di tracce ne avrà lasciate tante, i capelli dal barbiere, il sangue
quando si è infortunato, la saliva su un bicchiere… e poi chillo tiene pure
‘a creatura. -
- La creatura,
se anche è sua, non è un clone. Le altre sono tutte cose labili, signori. – Era
intervenuto il dottor Carmine. Nessuno sapeva se fosse veramente
dottore, né in quale disciplina, ma veniva rispettato come tale perché aveva
l’aria e i modi dello scienziato – Credetemi, i capelli volano, il sangue e i
bicchieri vengono lavati. –
- E
allora? –
- Allora, signori miei, l’unica sostanza che
facilmente rimane, che non sempre viene lavata via, è il liquido spermatico. –
Una bomba: come
non averci pensato prima! Gli uomini nel capannello si guardarono attoniti; il
dottor Carmine aveva colto nel segno, era proprio intelligente, aveva studiato.
- Vuol
dire che il campione ha avuto un rapporto sessuale e…-
- Uno?
– intervenne prontamente il dottor Carmine sollevando il dito indice – Ma
chissà quanti ne ha avuti, e con quante donne diverse; solo io ne conosco
almeno sei o sette. Tra tutte queste, volete non trovarne una che ha fatto come
Monica Lewinski? –
- Chi è
questa Monica, un’immigrata polacca? –
- Ma
va’, è quella che aveva fatto il lavoretto a Clinton e si era tenuta la gonna
sporca per ricordo. -
Sembrava tutto
chiaro ormai, ma la curiosità, invece di essere appagata, aumentava a dismisura.
Gli uomini erano curiosi e preoccupati allo stesso tempo, perché a questo punto
era una donna il motore primo di questa vicenda. E quale donna? Poteva essere una
qualunque delle loro donne, la moglie di uno o la sorella dell’altro.
Da un suo
rapporto col campione, da un indumento gelosamente custodito fino allora, era
stata prelevata la materia prima per realizzare l’embriclone. Bisognava
pertanto scoprirne al più presto l’identità, perché ne andava dell’onore di
tutti gli uomini.
- Dalle mutandine di zia Rosalia. –
L’affermazione
di Domenico De Rosa, detto Mimì, deflagrò improvvisa sul capannello che si era attardato
dinanzi al suo salone di barbiere.
- Chi? – Un coro di repliche si levò all’unisono
dal gruppo degli uomini, increduli e
incuriositi allo stesso tempo.
Mimì sorrideva
compiaciuto sotto i baffetti asfittici, gli occhi erano puntine da disegno nere
che guizzavano da uno all’altro degli astanti, il volto minuto e spigoloso si
contraeva in continuazione, la voce calava sugli amici come una delle sue
rasoiate a regola d’arte:
- Vi
stupite? Mia zia Rosalia era ’na bella guagliona ai suoi
tempi. A dire il vero è ancora una bella donna, anche se non si è mai sposata;
certo, ora è vicina ai quaranta. -
- E’ ancora
un bel bocconcino. – intervenne trasognato Michele Piscopo, che veleggiando
verso i settanta la vedeva tuttora molto giovane e appetibile.
Le puntine da disegno nere di Mimì percorsero uno ad uno
i volti eccitati che aspettavano nuove e piccanti rivelazioni. Decise quindi di
proseguire:
- Così è
successo, che un giorno aveva conosciuto ‘o campione in un locale e, sapete
come vanno queste cose… –
- Sì,
ma scusa, non era meglio se le toglieva, le mutandine? Era molto meglio per
tutti e due! – Commentò sghignazzando Francesco Russo il falegname, noto a tutti per
le battute un po’ grevi.
Mimì si fece
serio, la fronte corrugata, quasi a stemperare la battutaccia; poi decise di
stare al gioco e rispose:
- Zia
Rosalia se le sarebbe tolte e come – fu interrotto da una risata generale - ma
sai com’è, lui era giovane, si era già eccitato nei preliminari, e poi zia
Rosalia teneva delle cosce grosse che solo a strofinarcisi contro…-
L’idea del
grande campione colto di sorpresa da una eiaculazione precoce scatenò ulteriore
ilarità; i commenti si sprecavano, ma su tutti prevaleva il vocione di Ciccio
Inzolia il ciabattino, che aggiunse con gli occhi lucidi di chi se la sogna la
notte:
- Le
tiene ancora le cosce grosse, tua zia Rosalia, e non solo le cosce, tiene due
zizze… –
- Non
ci credo – intervenne visibilmente alterato, Tommaso Lo Cascio il fornaio,
gelando l’ambiente – non credo affatto a questa storia. Secondo me ci stai
minchionando tutti. Vorresti farci intendere che tua zia Rosalia si è tenuta
per tutti questi anni le mutandine sporche come fossero una reliquia? –
- Proprio così – replicò Mimì pacatamente, col
tono più credibile di cui era capace – le custodiva gelosamente nel suo
armadio. Non ne sapevo niente nemmeno io, finché l’altro giorno, sull’onda di
tutta questa curiosità, di queste discussioni, mi ha rivelato il suo segreto e
me le ha mostrate. Sembrava orgogliosa di possederle, le teneva in mano proprio
come una reliquia, quelle mutandine sozze. –
Mimì prese un
attimo fiato, approfittando per fare un nuovo giro delle puntine da disegno e
vedere che effetto faceva il racconto. Pendevano tutti dalle sue labbra come
degli scolaretti:
- Ma
che c’entra questo fatto col clone del campione, mica tua zia è una scienziata!
– Lo incalzò il fornaio.
- C’è
voluto un po’ perché me lo spiegasse – riprese Mimì abbassando gli occhi a
terra per simulare un pudore che non provava – ma alla fine me l’ha detto: le ha
prestate a della gente del nord, gente
seria dice lei, a certe condizioni. –
- Quali
condizioni? – Fu un’unica voce.
- Innanzi
tutto che gliele restituissero, poi che facessero davvero nascere un altro
campione. E lei ci ha creduto. –
Gli uomini erano
ammutoliti. Dopo tutto, la rivelazione di Mimì eliminava il problema di fondo:
Rosalia non era moglie di nessuno, non aveva fratelli, era solo la zia di Mimì,
che non sembrava preoccuparsi della necessità di difenderne l’onore.
Per quanto la
storia sembrasse inverosimile, conveniva a tutti darle credito; rapidamente, la
notizia fece il giro della città e i capannelli si sciolsero: il mistero era
risolto, la curiosità appagata.
Così la vita di
Napoli tornò gradatamente alla normalità.
Gradatamente
perché di tanto in tanto i più scettici, come Tommaso il fornaio o il dottor
Carmine o altri benpensanti, cercavano di risollevare la questione, riuscendo
però a radunare poche persone e per un tempo limitato, dopodiché tutti facevano
spallucce e se ne andavano, borbottando “dopo tutto sono fatti loro”.
Naturalmente i maggiori sostenitori della teoria dei “fatti loro” erano gli
stessi che in precedenza avevano primeggiato nella partecipazione ai dibattiti sui
fatti altrui.
L’argomento DNA durò
più a lungo solo dai parrucchieri per signora, dove messe in piega, tinte e
permanenti venivano inevitabilmente accompagnate da accese dispute tra
quarantenni:
- Ah come invidio
Rosalia, l’avrei fatto anch’io con quello, e certo le avrei conservate, le
mutandine… – e la signora borghese un po’ più anziana che reagiva
scandalizzata, dicendo che lei, neanche fosse stato Alain Delon, fino alla
ragazzina appena sbocciata che voleva sapere chi era ‘o campione, perché
era così famoso, se era bello, se era sexy, che alla fine però non si
pronunciava.
La vita era
cambiata, eccome, per zia Rosalia.
La bella
guagliona dai gagliardi appetiti sessuali dei vent’anni era evoluta in una
dolce signora che aveva da poco superato i trentacinque, apparentemente rassegnata
ad un’inspiegabile solitudine, nonostante l’aspetto ancor piacente.
Laureatasi in
lettere moderne, si era dedicata anema e core all’insegnamento; in quell’attività aveva
profuso ingenti risorse nell’aiuto agli allievi più poveri e più deboli, dovendo
tristemente constatare che le due qualità spesso coincidevano.
Ammirata da
tutti per la sua capacità e dedizione, la professoressa Rosalia Murolo aveva
forse involontariamente alzato una barriera nei confronti dell’universo maschile,
finché questo aveva cominciato a chiudersi davanti a lei arrivando a scomparire
completamente dal suo orizzonte; quanto meno fino a quel momento, o meglio, al
giorno seguente le rivelazioni di Mimì, di cui lei peraltro non era neppure a
conoscenza.
Si sentiva
allegra e ben disposta verso il mondo in quella tiepida giornata d’aprile; si
era preparata accuratamente, assaporando la passeggiata e i saluti rispettosi
della gente che avrebbe incontrato. Per quell’uscita aveva scelto il vestitino
di maglia color panna, il suo preferito. Davanti allo specchio ovale della
camera, aveva osservato con soddisfazione la maglia cadere morbida sulle
rotondità del suo corpo, ammirando la sua femminilità ancora intatta che il
vestito evidenziava senza risultare pacchiano, il che non
sarebbe parso conveniente per la sua età.
Uscì nel sole
quasi accecante della primavera, sorridendo a destra e a manca, alla fioraia, che
avendo il figlio a scuola con lei le elargì
il miglior sorriso: ”Buongiorno professoressa” come al fornaio, che disse
con ossequio: “I miei omaggi, donna Rosalia.”
Notò subito che
non c’erano più i capannelli che negli ultimi tempi avevano invaso la città; si
domandò se i napoletani fossero improvvisamente rinsaviti.
Al primo
incrocio un colpo di vento le fece aderire il vestito al corpo, drappeggiandolo
sul suo fisico ancora giovanile; arrossì sentendosi di colpo nuda, immaginando che
gli uomini l’avrebbero perforata, contemplata, spogliata
con la mente. Con un brivido decise di proseguire senza scomporsi, incurante
delle folate di vento che le avvolgevano il corpo.
Non poté
trattenere un sorriso nell’incrociare lo sguardo di don Angelo, il giovane
prete della sua parrocchia, che dopo averle
percorso il corpo in su e in giù, si era inchiodato sui suoi occhi in un
muto messaggio di desiderio.
“Poveri preti, quante privazioni!” pensò Rosalia; salutò anche lui con la
consueta gentilezza e proseguì. In realtà, era già stufa marcia degli ossequi e
degli sguardi degli abitanti della zona, che avevano tutti un qualche interesse
a ingraziarsela.
Fu quindi felice
di raggiungere dopo poco il formicolio multi etnico di via Toledo; si immerse
con piacere in quella moltitudine caotica di voci e colori che mettevano
allegria, dirigendosi con passo deciso verso la sua libreria abituale.
Si sentiva in vena di comprare un buon libro da divorare nel fine settimana;
avrebbe chiesto consiglio al suo amico libraio. Entrando, lo salutò col consueto
ricambiato calore; le parve però di percepire nell’aria qualcosa di strano, di
diverso dal solito.
Il tono del
libraio fu mellifluo, insinuante:
- Rosalia, stavo pensando proprio a te. –
Poi le propose “Il
giorno prima della felicità” di Erri De Luca e mentre batteva lo
scontrino le sussurrò:
- A proposito, che fai di bello domani? Io
pensavo di fare un salto al mare con la moto, perché non ci andiamo assieme? –
Il cuore di
Rosalia sobbalzò nel petto, mentre la mente andava in confusione, le gote
improvvisamente rosse. “Che vuole questo? Ha detto proprio a proposito, ma
di che? Ci manca solo lui, che ha una fama di sciupa femmine ed è pure sposato...”.
Era immersa in
quei pensieri quando la salvò il telefonino, che in quel momento abbaiò
insistentemente, quattro o cinque volte, prima che lei riuscisse a ripescarlo
nei misteriosi anfratti della borsetta. Arrossì ancor più per quella stupida
suoneria-cane che le aveva fatto installare suo nipote Mimì. “Devo decidermi
a cambiarla” pensò in un baleno mentre rispondeva al sesto latrato.
Pum...il cuore,
un altro tonfo: era Luca, un suo compagno di università che non sentiva da
anni; la invitava per un aperitivo, oppure una cena, quella sera stessa.
- Tanto è sabato, domani non si lavora, non
importa se facciamo un po’ tardi! – propose lui dall’altra parte.
Era troppo. Rispose
affrettatamente che non sapeva, ci doveva pensare, e la risposta valeva per
tutti e due; pagò il libro e si avviò assorta verso l’uscita. Ma quando trovò il
fornaio Tommaso sulla porta del negozio che le offriva allusivamente “una
baguette calda calda” decise che i napoletani erano forse rinsaviti
da un lato ma impazziti da un altro; con il libro stretto al petto, preferì pertanto
abbreviare la passeggiata e dirigere i suoi passi rapidamente verso casa.
Chiuse la porta
dietro di sé con due mandate, come a voler escludere quel mondo impazzito. Sprofondò
sul divano domandandosi che cosa stesse succedendo. La meditazione fu breve,
dopodiché Rosalia afferrò il telefono stupendosi delle sue stesse parole.
- Luca? Ciao, sono Rosalia, Rosalia Murolo. Volevo
dirti che va bene per stasera, magari
un bell’aperitivo… Dove? A casa tua? Ma stai scherzando, non sapevo che sapessi
preparare cocktail e stuzzichini! – le sfuggì una risata nervosa – Per me è ok.
Facciamo verso le sette e mezzo? Abiti sempre là? –
Poche settimane
dopo arrivò l’attesa ricorrenza. Era sabato due maggio e c’era la solita folla
assiepata nel Duomo di Napoli e altrettanta fuori, tutti in attesa del rituale
miracolo di San Gennaro.
La liquefazione
del sangue del santo era un evento che nessun napoletano in buona salute poteva
perdersi. Sotto sotto, la curiosità di vedere con i propri occhi quel fenomeno misterioso
e ripetitivo prevaleva sull’obiettiva difficoltà a definire miracolo un evento
che, salvo pochissime eccezioni, si ripeteva puntualmente a date e ore stabilite.
Nel Duomo, il
vescovo officiante osservava compiaciuto quella enorme massa di fedeli che
onoravano ancora una volta la ricorrenza. Certo, dentro di sé si domandava che
fine facessero quei fedeli la domenica, quando alle messe la partecipazione crollava
ed era prevalentemente costituita da anziane signore.
A dire il vero,
nella folla aveva colto gruppetti di ragazzi e ragazze che ridevano e
chiacchieravano, aveva persino individuato un paio di coppiette che
approfittavano della calca per amoreggiare spudoratamente, sperando di non
essere notati.
Scosse la testa
deluso, ma subito si riprese: la gran parte della folla era là per il santo,
voleva vedere il miracolo, percepirne l’essenza. “E miracolo sia”, si
disse, dando inizio al rito.
Tutto procedeva
come previsto. Il sangue raggrumato stava cominciando a liquefarsi, il rituale
miracoloso stava per compiersi. Fu in quel momento che il vescovo notò degli
strani ondeggiamenti tra la folla, qualcuno che furtivo scivolava via dalla
basilica, altri che denotavano inspiegabili segni di nervosismo. La folla sul
sagrato andava diradandosi a vista d’occhio.
Che novità era
quella? Quale evento straordinario stava distogliendo la massa dei fedeli? Chi
osava disturbare e disertare il rito?
La potenza del
passaparola, se ce ne fosse stato bisogno, stava ottenendo un’ulteriore conferma
proprio nel giorno del miracolo di San Gennaro.
Era bastato che
un ragazzetto, arrivato in piazza, avesse buttato là poche parole:
- C’è
un altro miracolo oggi a Napoli. Mimì il barbiere sta officiando il miracolo di
santa Rosalia...- ed era corso via ridacchiando a diffondere la novella in altri
due o tre punti della piazza.
- Smettete di guardare ‘o miracolo
vecchio, venite a vederne uno nuovo,
quello di santa Rosalia, davanti al salone di Mimì...- gridò qualcuno tra la
folla.
Nessuno dei
presenti capì bene di che cosa si trattasse, ma dopo la rivelazione di Mimì il
nome “Rosalia” esercitava un’attrazione morbosa e irresistibile, una curiosità
da appagare per uomini e donne. Così da soli, in coppia o a gruppetti,
sgattaiolarono via dalla cerimonia sacra per dirigersi verso quella profana,
accelerando il passo per non perdersi nulla dello spettacolo.
Pochi minuti
dopo, l’incrocio di stradine su cui si apriva il salone di Mimì si era già
riempito oltre misura. Su un palcoscenico improvvisato era stato issato un palo
con in cima una teca trasparente; dentro alla teca erano esposte delle
mutandine femminili, presumibilmente quelle ormai famose di zia Rosalia.
Mimì, vestito da
cerimonia col suo abito migliore, osservava compiaciuto quella folla che si
accalcava nelle stradine laterali, spingendo per riuscire ad avvicinarsi, quel
tanto da riuscire a vedere la “strana reliquia”.
“Tutte anime strappate al Santo” pensò ridacchiando sotto i baffetti
insulsi, prima di cominciare ad officiare quel rito blasfemo.
La sua voce
chioccia ebbe difficoltà a prevalere sullo schiamazzo diffuso che lo
circondava; infine, a fatica, ci riuscì, perché la folla era troppo interessata
a ciò che aveva da dire e tacque improvvisamente.
- Amici
qui convenuti – fu l’apertura di circostanza - nella teca in alto vedete le
famose mutandine di zia Rosalia, che da quindici anni custodiscono uno dei
segreti più intimi del nostro grande campione. –
Cercò di
assumere il tono da gran cerimoniere, ma non gli riuscì, officiava male. Si
sentiva che non era abituato a parlare davanti a tanto pubblico, non aveva la
ieratica tranquillità del vescovo di fronte ai grandi eventi; sembrava
piuttosto impaurito, perso, quasi sul punto di rinunciare.
Poi intravvide
Carmine. Il dottore lo guardava beffardo, gli occhi arguti che
sembravano provocare “su, facci vedere dove sta il miracolo!”
L’effetto fu
taumaturgico; Mimì si riscosse dal deliquio in cui stava sprofondando, la voce
divenne stentorea.
Allargò le
braccia e parlò chiaro alla folla che si era radunata.
- Certamente, il seme del campione è tutto
incrostato, dopo tanto tempo. Ma stanotte è avvenuto ‘o miracolo! Un
miracolo che ho il piacere di rivelare a tutti voi. –
Ciò detto, con
un telecomando fece aprire lentamente il vetro della teca; mentre la folla tratteneva
il respiro, Mimì con un bastone da guardaroba rimosse la reliquia, se così si poteva
chiamare, dalla teca. Un ooooh di
sorpresa e stupore accompagnò quel gesto, perché le mutandine nel movimento
rivelarono un seme che si era fatto liquido, tornato fresco come allora.
Chiesto
nuovamente il silenzio, Mimì chiamò sul palco un assistente, un omone grande e
grosso vestito da infermiere, che impugnava con mosse inquietanti una siringa
più grossa del normale; con questa e con movimenti teatrali, l’infermiere prelevò
in rapida sequenza tre campioni di liquido e ne riempì altrettante fialette.
- I
primi tre giovani calciatori che si presenteranno sul palco avranno in dono le
prime tre fiale: basta una normale iniezione intramuscolo e anche un brocco
diventerà un campione! –
Il tumulto che
seguì fu straordinario.
No, non erano i
giovani calciatori, che probabilmente non gradivano quell’etichetta di “brocco”
affibbiata implicitamente a chi si fosse precipitato per conquistare il tesoro,
bensì i genitori che li spingevano. Questo moltiplicò la confusione, tra padri
che usavano la forza, madri la persuasione, fratelli maggiori gli insulti; in
questo mulinello di braccia e di parole, tre ragazzi si ritrovarono sospinti in
cima alla fila e si aggiudicarono le tre fiale.
Una a testa, una
fiala di vetro marroncino con la scritta serigrafata in bianco: DIEGARMANDOplus.
La storia
sarebbe forse finita lì, quel sabato 2 maggio 2009, se non fosse che, nelle due
domeniche successive, i tre ragazzi trattati col nuovo farmaco si
segnalarono per imprese sorprendenti nei rispettivi campionati di terza categoria:
due goal a testa la prima partita, uno a testa la seconda, il che fu
considerato una chiara dimostrazione dell’efficacia della fiala magica, pur con
una certa diminuzione man mano che il tempo passava.
A dire il vero, si
era notata qualche distrazione delle difese avversarie, una certa lentezza di
riflessi dei portieri, ma i giovani miracolati erano stati rapidi e abilissimi
nello sfruttare tutte le occasioni che si erano presentate in partita.
Il salone di
Mimì venne preso d’assalto. I genitori dei tre ragazzi chiedevano a gran voce la possibilità di un
“richiamo” come per le vaccinazioni; gli altri supplicavano di poter cominciare
subito il trattamento.
Ma Mimì glielo fece
sospirare:
- Eh, non penserete che i miracoli avvengano
tutti i giorni. Potrebbe ripetersi tra mesi, anni, forse mai…-
La popolazione
di Napoli non si rassegnò tanto facilmente; madri di aspiranti campioni si
scioglievano in lacrime per commuovere Mimì; altri arrivavano a minacciarlo
perché si teneva ‘o seme d’o campione tutto per sé, insinuando
che volesse favorire persone potenti, parenti e amici.
Mimì ruotò gli occhietti
furbi da uno all’altro, facendo intendere che qualcosa poteva anche accadere,
ma tutto il procedimento era molto costoso, tanto che lui non poteva
permetterselo.
- E
vendilo, questo seme prezioso – era stato il coro unanime dei questuanti - che
ci vuole, mica lo pretendiamo gratis! –
- Fate
presto voi, non è mica facile convincerlo a sciogliersi! – Ribatté Mimì,
gongolante per aver incassato l’autorizzazione popolare a venderlo.
Le discussioni
andarono avanti per giorni, attenuandosi solo una o due ore dopo la chiusura
della bottega del barbiere, fino a un sabato di fine maggio, in cui sulla
vetrina di Mimì comparve la locandina che tutti desideravano: annunciava per il
giorno dopo, alle ore dodici, un nuovo tentativo “di miracolo di santa
Rosalia”, perché così veniva ormai chiamato in città quello strano e
inquietante fenomeno.
A chi gli
chiedeva ulteriori informazioni, Mimì precisava che aveva messo la locandina solo
là, perché voleva evitare d’essere preso d’assalto da una moltitudine.
Era bastato dire
così per garantirsela, la moltitudine. L’indomani infatti, fin dalle prime ore
del mattino, il crocevia davanti al negozio e le stradine laterali furono
assediati da una folla nervosa, vociante, eccitata.
Le locandine si
erano misteriosamente moltiplicate sui muri delle case e recavano una postilla,
scritta a pennarello rosso; informava che, in caso di riuscita del miracolo, le
fiale sarebbero state messe in vendita a 100 euro l’una.
Questo aumentò l’agitazione
della folla. Infatti, molti si precipitarono al Bancomat per prelevare i soldi
necessari, in modo da non farsi trovare impreparati al verificarsi dell’evento
miracoloso.
L’unico che
sembrava estraneo a quell’eccitazione collettiva era Nicola; il ragazzo si
aggirava nelle retrovie con aria assente e visibilmente annoiata, se non
addirittura contrariata; come un pesce fuor d’acqua, fu quasi travolto
dall’ondeggiare frenetico della folla, finché una mano amica non lo prese familiarmente
sottobraccio:
- Nicola, anche tu qui, ma ce li hai i cento
euro? –
Era il suo amico
Federico che con aria ispirata e sorridente lo trascinò verso lo sportello del
Bancomat.
- Ma no, lascia perdere, non ne vale la pena.
Ti assicuro che non ne vale la pena... – riuscì appena a farfugliare Nicola
prima che l’amico scomparisse, ingoiato dalla folla.
Il rituale,
iniziato con un certo ritardo per dar modo a tutti di prelevare il denaro, si
ripeté identico alla prima volta. Mimì col vestito da cerimonia, il
palcoscenico, la teca in alto con le mutandine sporche.
Questa volta,
Mimì capì che non era tempo di discorsi: la folla era troppo eccitata per
procrastinare l’evento. Chiesto dunque il silenzio, mormorò nell’aria alcune
parole misteriose che nessuno riuscì a cogliere, azionò il telecomando per
aprire la teca, afferrò il solito bastone e rimosse la reliquia. La fece
ruotare lentamente mentre tutti spintonavano per vedere, fino all’ooooh
di entusiasmo quando i raggi del sole fecero inequivocabilmente luccicare il
seme fresco.
Si proseguì col
copione già collaudato: l’infermiere, la siringa, i prelievi, le fialette
marroni con la serigrafia bianca.
Questa volta la
raccolta doveva essere stata più abbondante, poiché vennero riempite
addirittura una quindicina di fiale DIEGARMANDOplus, che
vennero rapidamente acquistate a cento euro l’una, non senza qualche litigio
verbale tra quelli che si contendevano le ultime disponibili.
Trascorsero
settimane e mesi. Passò anche l’estate con un susseguirsi di riti officiati
davanti alla bottega di Mimì; i miracoli si erano fatti sempre più
frequenti fino a divenire quasi una consuetudine domenicale.
Falangi di
ragazzi partenopei si curavano ormai regolarmente con la fiala magica in attesa
di diventare campioni; ogni volta la raccolta era più abbondante e il prezzo
della fiala saliva: duecento, trecento euro. All’ultimo miracolo erano
tante le richieste che aveva toccato la cifra record di cinquecento euro.
Nessuno si
tirava indietro, così come non ci si preoccupava del fatto che, a causa della
pausa estiva dei campionati, era impossibile verificare gli effetti delle fiale
miracolose, cioè le prestazioni in campo dei ragazzi sotto cura, che erano
ormai la maggioranza. Così il numero di acquirenti continuò ad aumentare. Mimì
roteava gli occhietti sempre più eccitato e felice, mentre zia Rosalia godeva
degli effetti collaterali di quella vicenda, lasciandosi andare ad un paio di affettuose
relazioni che, chissà, avrebbero potuto riaprire la partita sentimentale della
sua vita.
Chi non gradiva affatto
questa faccenda era don Vincenzo.
Ad ogni domenica
del miracolo inviava in gran segreto emissari nel vicolo di Mimì per
sapere esattamente quanto guadagnava quel “fetente”, quel “pezz’ ‘e mmèrda”,
tanto per citare un paio degli epiteti più gentili con cui era solito chiamarlo
nelle riunioni di famiglia.
Chi gli stava
vicino affermava che il boss diventava sempre più livido e irascibile, aveva
perduto l’appetito e il buon umore, trattava male anche i figli, soprattutto
Pasquale. Era persino dimagrito di qualche chilo.
Conoscendo don
Vincenzo, si poteva pensare ad una tempesta imminente, anche perché Mimì risultò
appartenere, sia pure come gregario, ad una “famiglia” rivale. Aveva
sguinzagliato per la città un manipolo di spioni, investigatori professionisti
e ragazzi volonterosi, incaricati di carpire il segreto del seme che si
rigenerava.
- Qualcuno dovrà pur parlare – aveva tuonato – e
allora gli faccio vedere i sorci verdi, a chillo llà.
Ma le ricerche risultarono
infruttuose, sembrava che il segreto di Mimì fosse impenetrabile.
Ogni lunedì,
nella riunione di famiglia, il figlio Pasquale, detto ‘o ragioniere,
relazionava sui ricavi ottenuti da Mimì
con la vendita del DIEGARMANDOplus.
Un vero e proprio conto “profitti e perdite” veniva stilato ed aggiornato
settimanalmente.
- Ma
quali perdite – aveva tuonato nuovamente il boss – i costi sono zero. Anche
l’infermiere si presterà gratuitamente, visto che è un suo amico che gli deve della
riconoscenza.
- Parliamo allora dei profitti – si fece
coraggio Pasquale – da quando questa storia è iniziata io stimo che Mimì abbia
intascato mezzo milione di euro. E se va avanti così…-
- Non andrà
avanti così – sibilò livido don Vincenzo, battendo con violenza la grossa mano
destra sul tavolino di cristallo, sbriciolandolo.
Sembrava
sull’orlo di un collasso cardio-circolatorio, annaspò nelle tasche per trovare
l’abituale pastiglia da mettere sotto la lingua; poi, mentre i camerieri
raccoglievano veloci i cocci, chiese d’essere lasciato solo con Pasquale.
- Mezzo
milione – disse, appena solo col figlio – mezzo milione, capisci? Noi li abbiamo
spesi e lui li ha guadagnati. E quel farabutto fetuso del nord, che fine
ha fatto, ci lascia qua soli a farci umiliare da ‘sto fetente? -
- Tocchi un tema di cui avrei voluto parlarti
– rispose Pasquale – temo che ci siamo fatti minchionare da quel distinto
signore di Milano. La fa tanto complicata, bisogna aspettare non so quanti anni
per vedere dei risultati, intanto Mimì fa soldi a palate. -
- Lo
voglio vedere, presto, oggi stesso. – Ringhiò don Vincenzo.
La seconda cena
da zi’ Teresa sembrò formalmente identica alla prima: don Vincenzo, Ajraghi,
il tavolino appartato.
Quasi identica,
perché al tavolo c’era anche Pasquale che salutò freddamente l’ospite. Questi
si scusò di avere poco tempo; era stato dirottato da Roma su Napoli dalla
telefonata di Pasquale e doveva assolutamente prendere il volo delle 21.15 per
Milano Linate, l’ultimo della sera.
- Bene,
giusto il tempo per gli spaghetti al cartoccio come l’altra volta, li ho già
ordinati per guadagnare tempo. –
La risposta di
don Vincenzo era arrivata con tono affabile, quasi pregustasse la replica di
una cena con un vecchio amico, ma gli occhi scrutavano l’ospite, come a voler
cogliere qualsiasi sintomo di nervosismo su cui far breccia.
- Certo, non me li voglio perdere. –
La replica
sorridente di Ajraghi mal celava un certo imbarazzo. Perché un po’ di
nervosismo lo mette, ricevere la telefonata dal figlio del boss a metà giornata
e sentirsi intimare, senza troppi convenevoli, di precipitarsi a Napoli perché
il padre voleva vederlo.
Che cosa
potevano volere da lui? L’affare concluso prevedeva un primo check point
dopo otto anni, quando l’embriclone sarebbe stato uno dei tanti bambini
che giocava nei “pulcini” di una squadretta giovanile; dopo pochi mesi non
poteva essere successo ancora niente.
Il noto profumo
di mare e spezie lo colse di sorpresa, mentre era assorto in quei pensieri; lo
chef Peppino aveva infatti lacerato il cartoccio e lasciato che la fragranza si
sprigionasse, per poi dividere gli spaghetti in tre porzioni diseguali, giacché
quella di don Vincenzo doveva essere doppia.
Seguì il lungo
silenzio tipico dei commensali alle prese con una pietanza appetitosa. Finalmente,
don Vincenzo, dopo essersi passato il tovagliolo sulla bocca, affrontò il tema
della serata:
- Lei avrà sicuramente letto di quello che sta
succedendo a Napoli, vero? –
- Oddio, che altro sta succedendo? – Domandò Ajraghi,
ripensando alle cronache sull’immondizia, le discariche, le sparatorie e le
uccisioni di stampo camorristico.
- Lei avrà sicuramente letto di Mimì, quel
barbiere che ha inventato un nuovo miracolo. –
- Ah sì, un miracolo simile a quello di San Gennaro,
un po’ blasfemo, mi pare. – Ribatté Ajraghi ridacchiando, mentre sorseggiava
con piacere la solita Falanghina fresca.
- Ma anche molto simile al vostro – ribatté
prontamente don Vincenzo - nel senso che anche lui crea campioni col DNA. E sa
quanti soldi ha già fatto con questo sistema? –
- Non saprei proprio, la stampa nazionale non
ne parla molto, solo qualche accenno nelle pagine interne. –
- Allora glielo dico io: mezzo milione di
euro, caro giovanotto. Mezzo milione in pochi mesi, la stessa identica cifra
che noi abbiamo dato a lei, in attesa di un “miracolo” che si verificherà, se
tutto va bene, tra vent’anni. –
Il tono del boss
era tagliente. Ajraghi avvertì una minaccia, ma cercò egualmente di controllare
il crescente nervosismo. La sua linea di difesa passava necessariamente per lo
sputtanamento dell’altro, per cui replicò con un sorriso forzato:
- Don Vincenzo, ma quello è un buffone, non
gli potete credere. Chissà come se lo procura, quel seme…e poi non c’è nessuna
base scientifica, nessuna ricerca sul genoma, nessuna metodologia certificata,
un’iniezione intramuscolo di seme fresco e nascono i campioni. Ma quando mai!
Tutto l’opposto della nostra azienda, che detiene un buon numero di attestati
scientifici dei più importanti organismi internazionali! – Prese fiato un
attimo, distogliendo gli occhi dal boss che non aveva mosso un muscolo. Subito
dopo cercò di concludere, con un argomento che pensò risolutivo.
- Senza contare il fatto che il nostro
prodotto, sia pure in embrione, l’avete visto, vostro figlio ha visto… -
- Caro dottor Ajraghi – gli occhi del boss
erano diventate due fessure – queste cose le sappiamo. Ma conta molto ciò che
la gente percepisce: Mimì fa i soldi, i ragazzi fanno i goal, sono tutti
contenti. Lo so che Mimì è un imbroglione, ma chi mi dice che non lo sia anche
lei e che tra qualche anno non ci ritroviamo con un pugno di mosche in mano e
mezzo milione di euro in meno? –
Era il momento
di puntare sulla serietà:
- Don Vincenzo, se potessi glielo restituirei,
il mezzo milione, per toglierle qualsiasi dubbio sulla nostra serietà ed onestà.
Ma vede, far crescere un embriclone costa una fortuna. Bisogna
alimentarlo, allenarlo, mantenerlo in speciali incubatrici da cui può uscire
solo per periodi limitati, il tutto monitorato da importanti società
scientifiche che ne certificano i progressi. Insomma, il mezzo milione di euro,
mi creda, se ne va tutto in costi per far crescere il pupo. –
Consultò distratto
l’orologio; era stato bravo, diretto, efficace. Pensava proprio di averli
convinti, anche se il nervosismo interno per qualche motivo stentò a placarsi.
- Alla salute, dottor Ajraghi – disse il boss
alzando il suo bicchiere di Falanghina – mi raccomando, non ci faccia pensar
male. –
Anche Ajraghi
alzò il bicchiere, i cristalli tintinnarono per un attimo. In quel momento,
Peppino si avvicinò sorridente per annunciare che il taxi aspettava alla porta
e Pasquale, scusandosi,
si alzò per fare una telefonata.
Il commiato fu
molto rapido. “Bene” pensò Ajraghi, che vedeva aumentare le probabilità
di prendere l’aereo delle 21.15.
Il taxi
aspettava vicino all’uscita; il conducente, un giovane bruno ed affabile,
indossava una polo azzurra e pantaloni di tela bianchi. “Bianco e azzurro, i
colori del Napoli” pensò Ajraghi mentre prendeva posto sul sedile
posteriore.
- A
Capodichino, per favore, ho un po’ di fretta perché non vorrei perdere l’ultimo
aereo per Milano. –
- Bene dottò,
faremo una volata. –
Non gli andava
proprio di passare un’altra notte fuori casa, gli succedeva troppo spesso da
quando era esploso il business degli embriclones. Socchiuse gli occhi
pensando a Marilena, la giovane moglie, che l’aveva chiamato a Roma per dirgli
che lo desiderava, e quando diceva così sapeva bene che lo aspettava una
piacevole nottata.
Quella sera le
cose sembravano andare per il verso giusto. Via Partenope era relativamente
sgombra e forse aveva trovato l’autista ideale, allegro e sicuro di sé, per
farsi una corsa fino all’aeroporto senza i soliti patemi: niente traffico,
niente ritardi.
Ma la
tranquillità durò fino allo squillo del telefonino dell’autista. Questi ascoltò
attentamente, fece una smorfia e riagganciò. Si voltò di tre quarti verso Ajraghi
per comunicargli la notizia:
- Dottò,
mi dicono che la strada per Capodichino è tutta intasata. Certo è un’ora di
grande traffico, tutti corrono a casa, poi c’è anche la partita dell’Italia in
televisione. –
- L’Italia? Non ci avevo proprio pensato… e
allora, che si fa? –
- Che
si fa, dottò? Ci si mette in coda buoni buoni e si vede quanto si impiega.
Certo non posso garantirle di arrivare in tempo per il suo aereo. –
- Oh
mio Dio, ma non c’è una strada alternativa, un po’ meno trafficata? –
- Non
direi… o forse sì, un’alternativa ci sarebbe – replicò il tassista meditabondo,
quasi riluttante – però da qui bisognerebbe tornare indietro, si allunga di parecchio
ed è anche un po’ tortuosa, in collina. Ma se lei vuole tentare, certo il
traffico dovrebbe essere più scorrevole. –
- Proviamo, proviamo. – Insistette Ajraghi,
ansioso di cercare in tutti i modi di arrivare in tempo.
L’auto seguì la
fiumana del traffico per un paio di semafori, poi svoltò decisa su una strada a
quarantacinque gradi sulla sinistra. “Via De Liguori” memorizzò Ajraghi,
pensando che poteva venirgli utile un’altra volta, poi “ancora a sinistra in
via Foria” trasalì “certo, così si torna indietro di un bel pezzo…meno
male, ora svolta a destra, che via è? Michele Tenore, chi sarà mai stato?”
Il traffico andò gradatamente diminuendo.
A quel punto non
riuscì più a seguire l’intrico di viuzze percorse dal taxi. Rinunciò a
memorizzare l’itinerario, finché l’auto non imboccò le dolci volute di Salita Moiariello,
superò l’Osservatorio Astronomico per puntare dritta verso il parco di Capodimonte.
Ajraghi pensò
che poteva finalmente rilassarsi; la strada era quella prevista, il traffico era
ormai ridotto al minimo, quell’autista sembrava davvero sapere il fatto suo.
Don Vincenzo e
Pasquale, da quando Ajraghi aveva lasciato il ristorante, avevano parlato
pochissimo. Solo un rapido scambio di battute all’inizio, quando il boss aveva
chiesto al figlio:
- Sei
proprio sicuro che questo ci minchiona? Non sarà davvero uno scienziato in
buona fede? Tu l’avevi visto, questo embri-cazzo… –
- Pà, che
ti devo dire, io ho visto, ma cosa? Una miniatura, un giocattolo. Che ti posso dire, mi rimane
addosso la spiacevole impressione che questo ci stia prendendo per i fondelli.
–
A quelle parole
don Vincenzo sussultò, perché anche solo l’idea di poter essere preso in giro,
e per giunta da uno del nord, era per lui assolutamente insopportabile; fece quindi
un cenno a Peppino e alla sua guardia del corpo.
Da quel momento
i due si erano concentrati sulle aragoste, a schiacciare chele e staccare
dolcemente la carne dalla corazza.
Erano
freschissime. Si alzarono dopo una mezzoretta più che soddisfatti della cena
prelibata.
Tornando in auto
verso casa, il boss sembrò teso e corrucciato, nonostante l’autista si fosse
sintonizzato su Radio FM Music, la sua emittente preferita. Stavano
trasmettendo un programma di canzoni anni ’60, quando poco dopo la radio sfumò
il pezzo in onda per attaccare con Edoardo Vianello e uno dei suoi cavalli di
battaglia, “Guarda come dondolo”.
Don Vincenzo abbassò
il finestrino di qualche centimetro, inspirò profondamente, poi richiuse e
strinse il braccio di Pasquale mormorando:
- E’
fatta. –
Piaceva ben
dolce il caffè a don Vincenzo. Aveva deposto due cucchiaini e mezzo di zucchero
raffinato nella tazza e stava mescolando accuratamente; la colazione era
completata da cornetti caldi alla marmellata e da un piccolo babà, che il boss
non si faceva mai mancare. Era un rito mattutino che lo predisponeva
serenamente alla giornata di lavoro.
Seduto su una
poltrona di foggia antica foderata di crétonne a fiori, allungò la mano sul
tavolino in stile napoletano dell’Ottocento, uno dei suoi mobili preferiti, per
avvicinare a sé “Il Mattino”, il principale quotidiano di Napoli.
Pregustava già
la notizia di prima pagina, il direttore gliela aveva anticipata: “Imprenditore
del nord suicida a Capodimonte”.
Nelle pagine
interne c’erano lunghi articoli e dissertazioni su questo strano faccendiere
che si spacciava per industriale, un ambiguo personaggio, tale Alessandro Ajraghi,
che proponeva strani contratti di lungo termine in cambio di mere promesse, o addirittura
in cambio di niente.
Sia pure presa
da lontano, a pagina cinque c’era anche una foto dell’uomo che penzolava dall’albero,
foto per la quale il direttore del Mattino avrebbe ricevuto una valanga di
critiche, che come sempre gli sarebbero scivolate addosso senza minimamente
scalfirlo.
I vari articoli
concordavano su un punto: si trattava sicuramente di suicidio. Infatti, i primi
rilievi esperiti dalla Scientifica non avevano trovato altre tracce se non
quelle delle scarpe dell’Ajraghi sul terreno, le sue impronte sullo sgabello
ritrovato a qualche metro di distanza, scalciato via dall’impiccato nel tragico
momento. Pertanto era attesa l’archiviazione del caso, da parte della
Magistratura, nel giro di poche ore.
Sorrise don
Vincenzo, pensando che Antonio era proprio bravo, faceva dei lavori puliti come
nessun altro. Si rilassò e intinse il cornetto nel caffè con voluttà; era il
momento giusto per godersi la colazione e rilassarsi un poco.
Ma appena il suo
sguardo scese sotto la metà pagina del quotidiano, il sorriso gli si spense tra
le labbra: lì c’era una notizia inattesa, con un titolo intrigante: “Giovane
napoletano rivela i segreti di santa Rosalia”.
Si tuffò nella
lettura di quell’articolo dal tono ammiccante, nel quale si raccontava che Nicola,
un giovane dei quartieri spagnoli di cui non veniva citato il cognome per
riservatezza, aveva confessato, a una giornalista prima e alla Polizia poi, che
il seme fresco del “miracolo di santa Rosalia” era suo e non d’o campione.
Questo Nicola
dichiarava, con gran serietà, di volersi togliere dal cuore il peso di
quell’inganno, al quale aveva collaborato per denaro. Si scusava molto con chi
era stato ingannato fino allora, ma era giunto per lui il momento di
ristabilire la verità; a tale scopo era pronto a sottoporsi al test del DNA e a
confrontarlo con qualunque fiala di DIEGARMANDOplus in possesso dei compratori.
Pareva che la Polizia,
dopo le verifiche di rito, si fosse presentata alla bottega di Mimì e l’avesse
arrestato per truffa aggravata.
Don Vincenzo era
sbalordito: com’è che nessuno gli aveva detto niente? Perché il direttore del
Mattino non si era premurato di comunicargli la notizia? Forse pensava che non
fosse di suo interesse?
Invece lo era,
perché se i traffici di Mimì erano un imbroglio allora aveva ragione Ajraghi, e
quel coglione di suo figlio Pasquale…
Lo sapeva che
non avrebbe dovuto dargli ascolto, pensò mentre stritolava la tazzina vuota e
annaspava nuovamente in cerca delle pillole sub-linguali; con la mano ferita
dai cocci della tazzina ne prese una, mentre con l’altra afferrava il
telecomando del televisore, incurante del sangue che gocciolava a terra.
Dopo un
frenetico zapping tra un’emittente locale e l’altra, si sintonizzò su Televomero
quand’era appena iniziato il telegiornale, che si apriva naturalmente col
suicidio di Ajraghi; subito dopo andò in onda il piatto forte della
trasmissione: l’intervista che Susanna Sorrentino, la giornalista più carina
dell’emittente, aveva strappato a Nicola, il ragazzo che si era auto
denunciato.
Questo Nicola
non si vedeva bene, sempre voltato di schiena, la voce alterata da un
distorsore elettronico per non essere riconosciuto; sembrava molto onesto e fermamente
determinato a fare giustizia perché, diceva, per tutto questo tempo lui non
aveva reagito ai signori del male, ma era giunto il momento di cambiare,
voltare pagina, combattere e smascherare le attività criminose.
Ma la
giornalista non si accontentava di dichiarazioni generiche. Lo incalzò:
- Puoi
spiegarmi com’è avvenuto il contatto con Mimì, come avveniva la raccolta del
seme? La gente vuole sapere, e poi se vuoi essere creduto devi essere preciso!
–
- Ma…è
stato Mimì… - Nicola tergiversò, visibilmente imbarazzato, poi inspirò
profondamente e disse tutto d’un fiato: - Mimì un giorno mi si era avvicinato e
mi aveva detto che sua zia Rosalia voleva conoscermi, che le ricordavo la sua
giovinezza, che lui mi avrebbe dato cinquanta euro se le tenevo un po’ di
compagnia. –
- E
quindi tu per cinquanta euro… -
- In
realtà cento euro, perché altri cinquanta me li dava zia Rosalia. Cento euro
ogni volta, cioè ad ogni “miracolo”. –
La conversazione
si fece scabrosa; tenace, la giornalista non intendeva rinunciare ai dettagli
più intimi, che sarebbero sicuramente finiti su You Tube e avrebbero forse
fatto la sua fortuna:
- Riassumendo, tu per cento euro tenevi
compagnia a zia Rosalia. Avevate dei rapporti sessuali, quindi. –
- Sì, cioè no… – rispose esitante il ragazzo –
non rapporti completi, perché lei voleva ripetere esattamente quello che aveva
fatto con ‘o campione, sapete che cosa intendo. A me non dispiaceva, perché
è davvero una bella donna. –
- Ti capisco. – Poi rivolta alla telecamera: –
Questa è la confessione completa di Nicola, in seguito ripetuta alla Polizia.
Vi abbiamo raccontato una storia incredibile, figlia dei nostri giorni. A voi
la linea. –
Don Vincenzo
spense il televisore e premette il campanello sul tavolino. Arrivò Antonio, cui
comandò secco:
- Manda qua mio figlio Pasquale.
Immediatamente. -
Un tuono lontano
annunciò in quel momento l’arrivo di un temporale, piuttosto tardivo rispetto
alla stagione.
Napoli 2025, un mattino di primavera
Certo che con
Google-voice, il motore di ricerca a comando vocale, era tutto facile. In un
dolce sabato di aprile, era bastato a Nicola pronunciare il nome “Ajraghi” nelle vicinanze
del suo micro computer, grande poco più di un pacchetto di sigarette, per
ritrovarsi un certo numero di testate di quotidiani proiettate sul muro.
Sempre tramite
comando vocale, Nicola scelse “Gazzetta”, che obbediente si ingrandì davanti a
lui fino ad assumere le dimensioni del tradizionale giornale.
Mentre sfogliava
con gli occhi le pagine della Gazzetta dello sport che si avvicendavano sul
muro, constatò felice come la mitica rosea fosse riuscita a
sopravvivere, nonostante le innumerevoli crisi e traversie, rimanendo uno dei
pochi giornali on line disponibili sul mercato.
I giornali
tradizionali, di carta stampata, erano stati da molti anni soppiantati da
quelli on line; successivamente però anche questi non avevano retto alla
crisi dell’editoria e avevano cominciato a chiudere uno dopo l’altro, con un
effetto domino spettacolare. Pochi mesi prima anche “Il Mattino”, da sempre il
glorioso quotidiano di Napoli, aveva preso commiato dai lettori con uno
straziante articolo di fondo del direttore, che denunciava come la perdurante
situazione politica non lasciasse sopravvivere nessun mezzo d’informazione
diverso dalle televisioni, che invece imperversavano con duemila canali a
disposizione dal satellite, ventiquattrore al giorno.
Non gli capitava
spesso di consultare la Gazzetta, ma in quei giorni era nell’aria un grande
evento: Max Ajraghi, giovanissimo calciatore di un grosso club del nord, scendeva
ad esibirsi per la prima volta al San Paolo di Napoli, la città dove il padre
aveva trovato un’inspiegabile morte anni prima, poco prima che lui,
Massimiliano, nascesse e venisse iscritto all’anagrafe di Milano.
A quel tempo, la
storia dell’imprenditore di successo, suicida per motivi inspiegabili nel parco
di Capodimonte, aveva riempito le cronache; chi ricordava il fatto era molto
curioso di vedere in campo il figlio, anche per il collegamento, fatto
all’epoca, con un presunto episodio di clonazione.
Nicola si lasciò
assorbire da un’intervista al giovane Max, appena sedicenne, corredata da una
foto da cui trapelava la straordinaria somiglianza con un grande campione del
passato. Nell’intervista, alla domanda se si considerasse il clone del grande
campione, Max negava con una risata franca, aggiungendo però che sperava di
emularlo sul campo.
Affermava di sapere
poco sulla morte del padre. Raccontava invece che la mamma l’aveva spedito a
sette anni ad una scuola calcio e da lì era cominciata la sua avventura.
“Ne sa poco, lui” pensò Nicola, ripercorrendo in un attimo gli eventi che tanta
importanza avevano avuto nella sua vita.
- Allora
che succede, stamattina niente coccole? Che cosa ci sarà mai di tanto
interessante sul giornale da trascurarmi così? –
Caterina si era
appena alzata dal letto e si stava dirigendo al computer come uno zombie, lo
sguardo ancora carico di sonno, il volto imbronciato della bambina delusa.
A Nicola piaceva
moltissimo quando metteva quel broncio un po’ infantile; le cinse la vita,
percependo al tatto la sua nudità sotto la camicia da notte leggerissima, prima
di attirarla a sé facendola sedere sulle sue ginocchia.
Era bellissima,
splendente nella sua maturità di trentenne. Nicola la guardò estasiato,
constatando che era sempre più attraente. Sentì salire irresistibile l’impulso
di baciarla e fare l’amore con lei. Si trattenne, troppo preso dal grande
evento; si limitò a indicarle con lo sguardo l’articolo su Ajraghi, mormorando:
- Ricordi? –
Come poteva non
ricordare? Lo abbracciò forte a sua volta e rimasero così per un lungo istante,
mentre i loro pensieri fluttuavano liberamente verso un passato ormai lontano.
Quelli di Nicola
corsero subito a quel mattino memorabile in cui, veramente a sorpresa, era
riuscito a vedere Caterina in strada, per la prima volta. Quel giorno non aveva
avuto bisogno di temporeggiare nella cartoleria davanti a casa di don Vincenzo,
nella speranza di vederla; se l’era trovata davanti ancor prima di entrare.
Fatto vieppiù sorprendente, era stata lei a fermarlo, affrontandolo senza mezzi
termini:
- Dì la
verità, sei tu Nicola? –
Lui si era
trovato spiazzato, sulla difensiva nel rispondere:
- Mah…sì…io
mi chiamo Nicola… e tu? – aveva domandato, provando a passare al contrattacco,
anche se conosceva benissimo il nome della ragazza.
[1] Subbuteo: gioco da tavolo nel quale viene
riprodotto in miniatura il gioco del calcio. Popolarissimo negli anni Settanta
e Ottanta, simula il calcio vero e proprio con undici giocatori per squadra,
rappresentati da miniature in plastica, manovrate con un tocco a punta di dito
che richiede particolare destrezza.
[2] Genoma: altrimenti detto “patrimonio
genetico”, è il corredo di cromosomi contenuti in ogni cellula di un organismo,
rappresentando così l’informazione ereditabile dall’organismo stesso.
[3] KPMG: società multinazionale olandese
specializzata nella revisione di bilancio e nella consulenza alle imprese.
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