!-- Menù Orizzontale con Sottosezioni Inizio -->

News

mi piace

lunedì 30 maggio 2016

I luoghi dell’anima

di Lea Miniutti

“Ognuno ha il proprio passato chiuso dentro di sé come le pagine di un libro imparato a memoria e di cui gli amici possono solo leggere il titolo” 
                                                                                                                                      Virginia Woolf     


Quella scrivania era sempre stata nella stanza dove dormivo quando, da piccola, andavo in vacanza dai nonni, nella campagna friulana. Mio fratello e mia sorella dividevano una camera in due. La mia stanza era in alto, l’ultima sotto il tetto, tre rampe di scale ripide per raggiungerla. Appeso con una catenella alla porta un cartoncino recitava: La stanza della Principessa.  

Sì, in famiglia mi chiamavano Principessa,  e questo suscitava la stizza di mia sorella e anche di mio fratello. 
Mi ero sempre chiesta se mi fosse stata assegnata quella camera singola perché era uno spazio scomodo e in disuso o perché io ero considerata capricciosa, tanto da meritarmi quell’ironico appellativo, che a me piaceva molto e, senza merito alcuno, mi faceva godere, fin da piccola, di una stanza tutta per me. Come Virginia Woolf, già nel 1929, auspicava per le donne nel suo libro “Una stanza tutta per sé”.


Camera da letto, Vincent Van Gogh
Quella stanza era ampia, ingombra di mobili messi lì alla rinfusa. C’era un letto singolo in ferro verniciato verde oliva: sulla testata foglie e fiori colorati dipinti ad olio, un po’ scrostati qua e là. I comodini erano uno diverso dall’altro. In un angolo un armadio con le ante a specchio. Accostate a una parete due sedie imitazione Thonet, con la paglia un po’ sfilacciata, sapientemente nascosta con cuscini colorati. Un tavolinetto tondo vicino all’entrata era sempre ingombro di cianfrusaglie. Inoltre, durante il giorno, tutte le bambole erano adagiate sul letto e, quando andavo a dormire, le spostavo sulle sedie, sulla poltroncina, sulla scrivania. 
Nello spazio tra le due finestre c’era la scrivania, il mobile più bello della stanza: era in radica, aveva i cassetti sui due lati, con le antine per nasconderli alla vista e per chiuderli a chiave. Le era accostata una poltroncina in vimini con braccioli intrecciati e un morbido cuscino a fiori colorati. Il piano della scrivania era sempre coperto di giochi, di libri, di quaderni, ma i compiti li svolgevo solo gli ultimi giorni prima del ritorno a scuola. In quella stanza c’era un’accozzaglia di stili, di colori, di cose curiose,  ma tutto quel bric-à-brac mi piaceva.  
I miei fratelli entravano nella mia camera solo quando io li invitavo. Gli adulti non pretendevano che la tenessi in ordine e pulita. Era il mio regno, e io lì, mi comportavo come una principessa. Prima di ripartire, alla fine delle vacanze, consegnavo la chiave ai miei nonni che riprendevo quando tornavo per un’altra vacanza.  
Il tempo della fanciullezza trascorse sereno e inarrestabile. Ci furono col passare degli anni altre vacanze in luoghi e mondi diversi. E interessi diversi segnarono la mia crescita. Ma le vacanze trascorse in quel luogo dell’anima sono indimenticabili. 
Arrivò il tempo del matrimonio. Il mio fidanzato e io stavamo arredando la nostra futura abitazione, e entrambi avemmo l’idea di fare trasportare a Milano la vecchia scrivania che stava nella stanza della mia adolescenza. La volevamo nella nostra nuova casa. Era un mobile obsoleto e pesante, difficile da accostare all’arredamento che noi avevamo scelto. Ma a me piaceva, era appartenuta ai miei bisnonni, aveva per me un valore affettivo, un sapore di legami famigliari. Chissà quanti segreti erano stati custoditi nei suoi cassetti. Quella scrivania mi raccontava la mia infanzia. Mi restituiva la mia storia. 
Per evitare che si rovinasse durante il trasporto era stata avvolta in un imballaggio di protezione. Quando la portarono in casa avevo perso non poco tempo per liberarla, impaziente di vederla in tutta la sua bellezza. Poi, con lo stesso atteggiamento curioso che avevo da bambina, aprii i cassetti uno ad uno. Il primo era vuoto. Il secondo era vuoto. Nel penultimo c’era una scatola e nell’ultimo in fondo un’altra scatola, entrambe chiuse da nastri scoloriti dal tempo.  
Metto le scatole sulla scrivania. Sto col respiro sospeso mentre apro la prima e, sorpresa: contiene uno scialle. Apro l’altra: estraggo una cuffietta, delle calzine, una tutina, delle fasce, tutti indumenti da neonato. E, sul fondo della scatola una busta di stampa antica, ingiallita dal tempo. Con mani tremanti la apro: contiene una medaglietta ovale con inciso il mio nome e la data di nascita. E poi due foto, antiche, un po’ rovinate, la stampa sgranata. Una ritraeva un  ragazzo e una ragazza in atteggiamento affettuoso, sorridenti, alti di statura, dalle foto in bianco e nero si capiva che erano biondi. Nell’altra i due giovani tenevano tra le braccia un bimbo in fasce. Non c’erano date o altre indicazioni sul retro, ma era chiaro che la creatura tra le braccia dei miei genitori ero io.  
Espongo tutto sul piano della scrivania: lo scialle, azzurro, è in lana lavorato a uncinetto. Stringo tra le mani i piccoli pezzi del corredino in morbida lana bianca, tutti confezionati a mano con ferri da maglia.   
Molte volte avevo sentito raccontare da mia madre la storia dello scialle e dei corredino, ma non li avevo mai visti. Chissà dove erano stati custoditi e perché proprio ora, che stava per cominciare un’altra stagione della mia vita, me li avevano fatti recapitare? 
In un attimo tutto mi fu chiaro. E gli occhi mi si velarono di pianto per l’emozione.    
 Era una tradizione iniziata dalle nonne e dalle mamme della mia famiglia. Allora si partoriva in casa. Lo scialle che indossava la madre al momento del parto, e il corredino che copriva le creature, figlie femmine, erano amorevolmente custoditi in gran segreto. Venivano poi dati loro in dono quando andavano spose: un gesto propiziatorio e colmo d’amore per le future mamme.   
Quella tradizione continuò a lungo nel tempo. La mia generazione è stata l’ultima a godere di quegli antichi riti, tanto misteriosi quanto semplici, considerati oggi dalle giovani mamme un po’ demodé e impegnativi. Quei piccoli indumenti che andavano a coprire i teneri corpicini dovevano essere confezionati a mano in lana morbida,  lavorati a uncinetto o con i ferri da maglia. Ora, che tutti i filati come lana, seta o lino sono sostituiti da materiali più pratici ma meno nobili, e forse anche nocivi, quell’usanza viene letta come una storia  d’altri tempi.     






1 commento:

  1. Brava Lea, un pezzo scritto con semplicità e molto commovente che fa rivivere tempi andati che resteranno solo nella memoria di pochi. Juanito.

    RispondiElimina