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martedì 27 marzo 2018

La colazione interrotta - parte prima


di Marco Moretti
Stazione Centrale, Milano
(foto dal web)



Il ritorno a Milano dopo la drammatica estate in cui Mario ha perso la compagna e si è risvegliato il suo lato oscuro. L’incontro con il giornalista e il commissario i cui sentierii continuano a incrociarsi. La morte di una donna solitaria, una giovane colf che non ci vede chiaro. Nella nebbia autunnale.

La stazione centrale di Milano accoglie tutti allo stesso modo, tutto l’anno: Novembre non fa eccezione. Un enorme nido metallico che offre rifugio alla miriade di esserini operosi vomitati da scatole metalliche su ruote, più o meno vecchie, più o meno veloci. Qui trovano il primo distratto saluto del barman o dell’edicolante e le lusinghe ammiccanti di loro simili all’apparenza più fortunati: grandi, luminosi e sorridenti, in abiti griffati o su auto a sei cifre. In tabelloni luminosi, irraggiungibili.
Mario Pinozzi, appena sbarcato dall’ Intercity delle undici proveniente da Genova, si aspettava ben altra accoglienza  recandosi alla testa del binario. E le attese non andarono deluse.
L’assalto alle spalle fu degno di un commando sbucato dalla giungla di passeggeri, carrelli di servizio e uomini delle pulizie; la botta lo fece vacillare e solo la memoria di pugile impedì al medico di franare sul trolley. Pinozzi è smilzo, così dicono di lui, ma le gambe si allenano con la corda e le braccia discutono con il sacco che penzola dal soffitto della camera. Quando non cede alle lusinghe del divano.
-          Hai abbassato la guardia, ma sai ancora incassare: lasciati abbracciare razza di chirurgo da quattro soldi!
-          Giù quelle zampe da orso, copia taroccata di giornalista, o ti metto al tappeto.
Il fiume dei passeggeri in transito si limitò a deviare il corso, senza rallentare, intorno alle figure strette in un abbraccio muto: il magro Pinozzi e il corpulento Bruto Munnacci, amico giornalista e motore di ricerca personale del medico. Era lui, in base alle parole chiave fornite da Mario, a scovare persone e fatti ignoti a chiunque non vivesse nel sottobosco metropolitano.
-          Mollami ora, o ci scambiano per fidanzati;  dimmi solo quanti giorni ti fermi.
-          Ancora non so, ho prenotato per due notti.
-          La prenotazione puoi gettarla nel cesso e tirare lo sciacquone, sarai mio ospite.
-          Ho abitudini un po’ particolari, Bruto.
-          Cosa ti è successo, sei passato dall’altra parte?
-          Mi riferivo a orari e  pasti, praticamente non c’è mai nulla di programmato.
-          Benvenuto nel club! A casa mia troverai solo la moka, birra e dischi di musica classica.
-          Vada per la moka, sai come sono messo con l’alcool e in quanto alla musica vedrò di rieducarti.
-          Con cosa, se non sono indiscreto?
-          Blues, l’unica musica con la “m” maiuscola.
-          Sarà una  battaglia  cruenta, ma ora andiamo. Ho lo scooter fuori,  spero il casco di riserva vada bene e con il trolley ci arrangeremo.
La polizia municipale li fermò a cinquecento metri dalla  stazione,  l’agente che                                                         
non credeva ai propri occhi: un' orso travestito da uomo conduceva uno scooter  impennato, dietro sedeva un tipo smilzo dalla testa enorme che trascinava il trolley a mo' di rimorchio.          
Bruto riuscì a negoziare la multa evitando il sequestro del mezzo, a patto che Mario proseguisse il viaggio diversamente: informati dell’ indirizzo, gli agenti si assicurarono che Pinozzi salisse sul taxi e si allontanasse, poi si dedicarono a Munnacci.

-          Il pasto mi costerà meno della multa, – bofonchiò Bruto un’ora dopo e la bocca piena, nella placida trattoria sui Navigli – che facevamo di male?
-          A parte rallentare il traffico nel centro di Milano, mentre tutti giravano un video che diventerà virale?
-          Voi di Genova siete legati alle abitudini, qui amiamo improvvisare e non ci piace la routine.
-          Parli a vanvera, quella parola non è nei miei archivi. E non sono nato all’ombra della Lanterna.
-          Già, arrivi dal marmo delle Apuane. E si vede.                                                                     
Un brindisi con acqua e vino rosso, poi Bruto cambiò registro.
-          È stata dura tornare qui, lo immagino, ma  il pugile si rialza dopo una batosta.
-          Lasciamo perdere i guantoni e le sventole, anche perché quella volta sono finito al tappeto.
-          A chi lo dici! La mia memoria dopo quei colpi  non è più la stessa, caro Barack Obama.
La risata esplose lasciando interdetti il cameriere e gli scarsi avventori
-          Hai notizie del tuo amico Commissario?
-          Moruzzi? Doveva essere trasferito, ma qualche santo in paradiso gli ha concesso un altro anno nella metropoli. Un orso solitario che vive tra indagini e l’hobby della cucina.
-          Mi piacerebbe rivederlo, sotto quella scorza burbera deve esserci altro.
-          Solo uno sbirro, fidati di Bruto.
-          L’aveva già fatto Cesare e pensa alla brutta fine che ha fatto.
Altra risata, che indusse il cameriere a servire i caffè e preparare il conto.
La giornata proseguì in placida routine per i due: Bruto seguiva nell’ombra un’indagine per omicidio, ignorando le diffide di Moruzzi. Mario si recò alla Clinica universitaria dove avrebbe partecipato a uno stage di chirurgia ricostruttiva, due o tre giorni di impegno. I due si ritrovarono in serata, comprarono pizze e diressero al domicilio di Bruto: una casa di ringhiera a due passi dai  Navigli. Superarono, su una passerella, lo scavo che impegnava due operai alla luce delle alogene e nel cortile incontrarono una giovane donna che andava di fretta. Qualcosa di sexy filtrava da movenze fluide, sportive.                                                        
-          Ciao,  gossiparo da strapazzo. Vai già a nanna?
-          Ecco Martina,  la badante più figa di Milano.
-          E i dintorni dove li lasciamo? Sai che abito a Monza. Ma chi è lo sfortunato che dovrà cenare con te?
-          Mario ti presento la donna che da mesi disturba il mio sonno. Solo quello, purtroppo.
I due scambiarono una stretta di mano e  si scrutarono nella penombra.
-          Mano calda, - disse lei – cuore freddo?
-          Pizza ai peperoni, incarto arroventato.
-          Se mi restituisce le dita…dovrei andare. Buona serata,  ciao Munnacci.
Entrati in casa i due divorarono la pizza dal cartone, con Vivaldi in sottofondo, Munnacci muto e chiuso come un riccio.
-          Ti è andata la pizza di traverso?
-          Taci, medico che pugnala alle spalle l’amico che lo accoglie.
-          Che cazzo stai vaneggiando?
-          Sei mesi che tampino Martina e manco mi guarda: arrivi tu e quasi vi baciate.
-          Non essere assurdo, ci hai presentato e qui finisce la storia. Se però lavora come badante potresti assumerla.
I riflessi da pugile schivarono la lattina di Coca, poi con calma serafica svuotò il bicchiere d’acqua.
-          Si occupa di un’ anziana che vive al piano terra, Ersilia: è ignorata da tutti nello stabile, da qualche tempo ha iniziato a perdere colpi.
-          È inferma?
-          Macché, ha solo bisogno di aiuto per la spesa e i lavori pesanti. Martina di solito va da lei la mattina presto, ma certe volte torna e cenano insieme.
-          Fatti invitare, puoi portare vino e dolce.
-          No grazie, vedo mia nonna già a Natale e Pasqua.
-          Un nipote modello, da romanzo strappalacrime. Comunque mi racconterai la storia un’altra volta, vado a nanna: domani iniziamo presto.
-Vuoi che ti accompagni io?                                                                      
-          Desidero arrivare integro e in orario. Buona notte, Vale 46.
-          Dormi di merda, dottor Frankenstein!
La nottata si srotolò su entrambi senza scossoni o sogni degni di nota: nella mattina le ore si inseguirono tra interventi chirurgici in ambiente asettico e caffè in osterie, alla ricerca di malsane confidenze. I due compari si erano accordati per vedersi a pranzo, appuntamento sotto casa di Bruto.
Il primo  ad  arrivare fu  Mario che, sceso dal taxi, inciampò nel set di un film     giallo ambulanze e due volontari, i soccorritori che uscivano dallo stabile senza fretta.                                                        Portavano solo un lenzuolo che copriva un corpo, inutile correre o liberare le sirene; nell’altro mezzo il sanitario era intento a medicare una persona. Un uomo corpulento, di spalle, parlava al cellulare e indicava con autorità la casa a due poliziotti; si voltò e incrociò gli occhi di Pinozzi, intascò il telefono e diresse verso il medico,  braccio destro teso e mano aperta.
-          Caro dottore, dobbiamo smetterla di vederci in mezzo ai cadaveri. Come va?
-          Si vive, a differenza di qualcun’ altro – il pollice sinistro rivolto alle ambulanze, la mano destra a quella di Moruzzi – Parlavo di lei giusto ieri, con Munnacci.
-          Pessima giornata allora, ma oggi non promette meglio: eccolo che arriva.
Bruto smontò dallo scooter e, casco in mano, raggiunse i due.
-          Che succede, ci hanno attaccato in forze?
-          Solo signora Morte che si è presa la tua vicina di casa, una certa Ersilia.
-          Che cazzo! Com’è successo?
-          Non dovrei parlare, ma mi romperesti le palle: l’ha trovata la badante in un lago di sangue con il cranio rotto. Sembra avesse preparato per fare colazione e sia caduta, a quell’età succede. Non c’erano segni di effrazione ed  era sola in casa.
Mario intervenne, il cuore di medico fece capolino.
-          Aveva mangiato e ha avuto un malore, ci può stare.
-          Errore, non ha toccato cibo, né caffè: la moka era da accendere, sul fornello, la tavola apparecchiata con marmellata, biscotti e burro sciolto. Si preparava a una colazione coi fiocchi.
-          Strano, - disse Munnacci – di solito era Martina a preparare la colazione. Lei era vedova e sola.
-          Chi, quella specie di giovane pazza? – Moruzzi socchiuse gli occhi – La conosci?
-          Non abbastanza, purtroppo. Ma perché l’hai chiamata pazza?
-          Hai notato che ci sono due volanti?
-          In effetti quattro uomini per una vecchietta…nooo, cosa ha combinato Martina?
Il Commissario posò bonario la destra sulla spalla di Munnacci.
-          Una furia: ha scoperto il fatto, ci ha chiamato e aggredito uno degli agenti che le proibiva di toccare il cadavere,
-          Che voleva fare?
-          Pulire il corpo dal sangue e metterla sul letto. Posso capire le buone intenzioni del gesto, ma ha fatto un occhio nero al mio agente, quindi va al fresco.
-          Sospetti di lei?
-          Non ho  elementi, il patologo ha  detto che la  donna sembra morta intorno alle dieci: quella matta è arrivata solo alle undici, stiamo verificando.
Munnacci allontanò il braccio del Commissario.
-          Non puoi chiudere un occhio?
-          Con   quello del  mio  agente  sarebbero due: si  fa una  notte in cella, dopo                                                     
potrà venire a pulire. Il caso è fin troppo semplice e non intendo mettere sotto sequestro l’appartamento.
-          Posso almeno fare qualche foto?
-          Domani potrai anche girare un filmato, ora smamma. Dottore, a lei auguro buona giornata e consiglio di non frequentare cattive compagnie.
Detto ciò girò i tacchi e si allontanò, scartando la prima liquirizia della giornata e perdendosi il saluto con il dito medio di Munnacci.
-          Non mi guardare, - Mario sollevò le braccia nel gesto di resa – pranziamo poi devo tornare all’Università. Tu cerca di mordere il freno, per una volta.
-          Buana mooooldo buono gon suo servo, moldo.
Il resto della giornata fu da archiviare sotto la voce “Che due palle” per il giornalista e “Finalmente qualche ora senza andare a mille” per il medico.
L’indomani intorno alle dieci Martina, fredda e rigida per la notte in cella, sfidò le brume con il tram per raggiungere la casa che era stata di Ersilia: intendeva onorare l’impegno sino alla fine. Edifici e rari alberi avvizziti scorrevano nel monitor che era il finestrino, visione in bianco e grigio nel filtro della nebbia. Si perse nel proprio volto deformato dalle gocce sul finestrino caricando il film della serata precedente.
-          Lei discute sempre usando i pugni?
-          Solo quando ho davanti un mulo idiota.
-          Non voglio fare la parte del maestro di scuola, ma non si pesta un poliziotto.
 Moruzzi intrecciò le mani sulla scrivania e prese a roteare i pollici. La giovane lo fissava con occhi neri che non si abbassavano, sul volto ovale dalle  labbra carnose.
-          Chiama poliziotto un bamba a cui una donna fa l’occhio nero?
I pollici si fermarono, per riprendere subito in senso contrario. Molto più veloci.
-          Se fosse stata una poliziotta?
-          Non sarebbe stata così stronza…
Pollici fermi, pugno sul tavolo. Martina non mosse un muscolo.
-          Adesso le dico io cosa facciamo: stanotte dorme al fresco, letteralmente, in cella non c’è riscaldamento. Domani torna sul luogo dell’incidente e pulisce, come voleva fare oggi. Okay?
-          Non credo.                                         
-          NON CREDO COSA?
-          Che quello che dice sia giusto.
Con un sospiro il Commissario intrecciò ancora le mani, i pollici stanchi riposarono.
-          Chiunque altro l’avrebbe denunciata, ma lei era sconvolta.
-          Intendevo la colazione. La signora Ersilia…
-          BASTA! – anche i pollici si accavallarono l’uno sull’altro come due gambe sfinite – Vecchia più capogiro uguale caduta con testa rotta. Buona serata nel nostro hotel.
Veramente un uomo che sa ascoltare, ma a scuola di sbirri uno più uno fa sempre e solo due. Acquistò una merendina e una tazza di acqua calda sporca dal distributore, seguì l’agente e si coricò faccia al muro. Al risveglio neanche l’ombra della colazione, firmò il verbale e stava per gustare la libertà, ma lo sbirro capoccia di ieri doveva avercela con lei: la fecero attendere sino alle dieci, con la scusa di controllare i documenti, poi  per strada senza un saluto.
Il tram la lasciò a pochi metri dalla meta, avvolta da una bambagia lattescente che rendeva indistinte le forme e annacquava i colori.
Infilò la chiave e spinse la porta: l’odore dolciastro la stringeva come un boa e raggiungeva lo stomaco, dicendogli di svuotarsi. Fendendo l’olezzo raggiunse la finestra, aprì con violenza e inalò la  nebbia  come  un  balsamo  profumato; poi  esplorò  quello  che  la  circondava.                                                                        
La chiazza sul pavimento, rappresa, si era fatta scura: Martina si inginocchiò e la toccò con rispetto, un pensiero infantile, quasi che un poco della vita di Ersilia fosse conservata nel grumo. Abile regista, fece una panoramica della cucina con primi piani e dettagli: il tavolo apparecchiato, biscotti, marmellata e zucchero, una nuvola di burro fuso. Scosse la testa, poi carrellata sui fornelli: latte e moka, che si facevano compagnia. E su tutto l’odore appiccicoso del sangue, appena diluito dalla nebbia.
La donna accantonò i suoi venticinque anni, i sorrisi e le battute, i rumori delle stoviglie: rispolverò la voce e i gesti tranquilli di Ersilia che preparava il tè, “perché sono un po’ matura, mica invalida”. Mentre la aiutava a riporre la spesa quasi scusandosi: lei, la nonnetta che sul bus non avrebbe mai chiesto il posto al ragazzino stravaccato. Indossati grembiule e guanti, si inginocchiò per procedere al rito purificatore; smacchiò e raschiò, svuotò e pulì la caffettiera, ripose il latte in frigo e i biscotti  in credenza accanto alla marmellata cui non si erano uniti.
Rassettando la casa si occupò del bagno, in perfetto ordine, della sala e della camera; osservò il letto disfatto, stese le lenzuola e rincalzò le coperte. Le mani scovarono un oggetto freddo, liscio: il cuore sorrise nel riconoscere il Nokia 3310. Minuscoli tasti e piccolo display in bianco e nero, nulla di smart,  una minuscola rubrica di plastica con antenna integrata.
-          Che ci fai sotto il materasso?
                                                       
 Sul display muto il ricordo di tre chiamate e un  SMS: numeri e cifre  senza un nome. Ersilia non si separava dal piccolo feticcio tecnologico: la paura di cadere o restare senza latte, un blackout o qualche scocciatore alla porta. Avrebbe potuto chiamare lei o una delle amiche con cui si vedeva nella bella stagione, o le domeniche di sole se non faceva troppo freddo.
-          Vediamo con chi ha parlato: -  si ascoltò, aprendo il numero in entrata – chiunque fosse ha chiamato due volte, la prima solo pochi secondi e poi per  venti minuti.
Allo stesso numero Ersilia aveva inviato il messaggio:
“Ci ho pensato sopra, solo due parole”
-          Il numero non è in rubrica, due chiamate e un SMS. 
Il cellulare sotto il materasso.
La colazione pronta.
La porta chiuse e senza segni di scasso.
La sensazione era anomala: stringeva tra le mani un cellulare cugino di quello della madre, mai convertita al touch-screen: chiamata e SMS con numero sconosciuto, non tornava. Anche se Ersilia non aveva ceduto alla lusinga delle foto o delle chat,  non mollava il telefono. Mai. E chiamava sempre le stesse persone. Seppe cosa doveva fare.
“Dove sei?”
 Aveva caldo.
A Milano.
Il venti novembre.
Con la nebbia. E le finestre aperte.
“Chi cazzo sei”
Era pur sempre una risposta.
Adesso un brivido ci stava bene.
“Non ha importanza”
Short, Message…non ricordava la terza parola, ma stavano rispettando le indicazioni della sigla.
“Cosa vuoi”
Non amava i punti interrogativi, chiunque fosse.
Un po’ di attesa sarà utile.
“Sto aspettando”
Non gradiva neppure le pause.                                                                       
“Voglio parlare”
E per parlare ci si deve incontrare.
Ci si guarda negli occhi.
“Di cosa”
Ma bisogna essere in due.
“Lo sai”                                                               
Mai giocato a poker in vita sua.
“Capisco. Un accordo”
Ha sentito che bisogna alzare la posta.
“Ovviamente”
Anche chiedere le carte e aspettare.
“Oggi alle 17. Davanti a Prada in Galleria,  una Coca in mano.”
Nessun altro segno di vita, fine del capitolo. Anzi, del paragrafo: ma era necessario scrivere ancora. Aveva l’idea, mancava solo qualche personaggio.
Compose il numero di tre cifre.
-          Polizia, mi dica.
-          Devo parlare con il Commissario Moruzzi.
-          Qui è il centralino, in quale Commissariato lavora?
-          Che ne so, è uno sbirro come te.
-          Non faccia la spiritosa, mi dia le sue generalità.
-          Non do niente a nessuno, specie a un coglione come te!
-          Le va bene che siamo al telefono.
-          Altrimenti che faresti? Prima senti il  tuo collega con l‘occhio nero, poi…
-          Poi cosa?
-          Fottiti.
Troppo presto per l’appuntamento, troppo tardi per tornare a casa: era scossa da brividi e provata dalla fame, le priorità assolute erano una doccia e cambiarsi. Ma dove? Poteva chiedere a quell’orso di Munnacci, certo solo per scroccargli il pasto non certo il bagno caldo. Si erano fatte le due del pomeriggio, le ore in casa di Ersilia erano fuggite tra pietose pulizie e ricordi. Il dito si avvicinò al campanello del giornalista, l’unico senza nome
-          Che cazzo avrà mai da nascondere, un’ identità segreta o teme di fare imbestialire qualcuno con i suoi articoli?
Sorrise al pensiero di non aver mai letto neanche un  trafiletto sul giornale di Bruto, “Milano domani”. Una voce pacata la intercettò.
-          Proprietario e ospite sono assenti, almeno fino adesso.
-          Non credo che Bruto possieda altro che lo scooter e la sua pancia. Mario, se ricordo bene, quello che non voleva restituirmi la mano.
-          E  tu sei Martina, ma non sono così possessivo: soltanto non amo Milano, l’altro ieri è stata una giornata pesante e tu sei apparsa dalla nebbia. Volevo tenerti un po’ con me.
-          Io non posso mettere ieri sotto la voce “giornate da ricordare”.
-          La povera signora, giusto.
-          E quello stronzo di Commissario, mi ha fatto dormire una notte al fresco.
-          Non è cattivo, ma tu  hai “solo” pestato un poliziotto.
                                                         
Martina lo scrutò inclinando il capo.
-          Già sei amico di Bruto e questo ti toglie dei punti, poi non ti piace Milano e fai pure  il tifo per gli sbirri
-          Mi sembri pallida e hai la faccia stanca, ti senti bene?                                                                           
-          Adesso fai anche il dottore.
-          Ragazza, ti dico due cose: non bevo alcool e non so cucinare, ma se prometti di non farmi un occhio nero ti invito a mangiare qualcosa di caldo.
-          Andata, ma in cucina lascia fare a me.
L’appartamento li accolse con una temperatura poco amichevole: temperatura invernale, termosifoni ghiacciati. Mario controllò il termostato e tutto pareva in ordine; tolse  il giubbotto e si abbracciò  strofinando con energia.
-          Parliamo con le nuvolette come nei fumetti. – fece Martina.
-          Giornalista da strapazzo e pure in bolletta. Vedo che c’è in frigo, tu metti a bollire dell’acqua.
Mentre Pinozzi frugava nel mobilio alla vana ricerca di stoviglie, Martina imprecò sottovoce  sbattendo lo sportello del frigo, Pochi secondi e i due si confrontano.
-          Il frigo è più vuoto di una grotta lunare.
-          Niente pentola, ma forse siamo salvi: - Mario mostrò le mani con lo scarso bottino – il microonde, due tazze e sopravviviamo.
-          Non bevo tè neppure quando sto male. In frigo manca tutto, ma ci sono due birre.
-          Bevila tu, io sono alcool-free.
-          Paura di ingrassare? Ne devi mettere ciccia per far concorrenza al tuo amico.
-          Solo una brutta storia.
-          C’entra qualcosa anche Milano?
Accarezzò il filo di barba incolta e passò la lingua sopra i denti.
-          È un capitolo chiuso, sappi solo che tornare qui non è stato facile. Ora cerchiamo qualcosa da mettere sotto i denti.
Scena da un pomeriggio milanese di novembre: un medico cinquantenne e una donna, metà dei suoi anni, siedono vicini su un divano-letto che ha visto tempi migliori. La location è un bilocale nella zona dei navigli, al primo piano di una casa di ringhiera: il divano sta al centro del locale che funge da cucina e living. Bagno con doccia e camera da letto completano la residenza di Bruto Munnacci, arredata con mobili svedesi e adibita a mero dormitorio. La coppia sul divano ha le gambe coperte da un caldo plaid, l’uomo sorseggia tè e sgranocchia biscotti mentre la miss beve birra da una bottiglia e mangia arance. I due dialogano tra un boccone e l’altro.
-          Martina da Monza, che combinerai ora che il tuo datore di lavoro ti ha licenziato?
-          Non certo quello che facevo prima, cioè l’Università: aiutavo Ersilia perché mi dava qualche euro per le tasse.
-          E nel tempo libero?
-          Sport e cazzeggio, un libro o un film. Tu invece, oltre a invitare donne sole in posti squallidi?
-          Risolvo problemi alle persone, problemi personali.
-          Come mister Wolf in Pulp Fiction?
-          In effetti speso c’è di mezzo del sangue.
-          Sei smilzo, ma non ti ci vedo come vampiro. E non mi fai paura, hai detto che non bevi alcool e mi sono appena fatta due birre.
-          E con questa possiamo tirare il sipario.
Lui, posata la tazza, scorre la coperta fin sopra il petto e abbandona il capo sulla spalla della donna; trovata una posizione comoda si dedica ad un sommesso russare. Lei, perplessa, si sfila e accompagna la testa dell’uomo sulla spalliera Ikea, aggiustando la coperta. Infine scarabocchia un foglietto.
-          Non ho capito che fai, mi sei simpatico e ho un appuntamento. Magari possiamo                                                               
vederci con calma e ti svelerò qualcosa di Martina. Per adesso ti lascio il mio numero.
Baciato il bello addormentato sulla fronte  abbandona la scena.
Diego Menotti, Ispettore, bussò alla porta dello studio: recava in mano un appunto e alcuni documenti che il suo superiore aveva chiesto. Non ricevendo risposta aprì con prudenza e sbirciò all’interno: nessuna traccia del capo. Pensò di uscire, restando immobile sulla soglia, infine entrò e raggiunse la scrivania su cui depose cartella e  pizzino. Controllato che tutto fosse in ordine tornò fischiettando  alle proprie occupazioni.
La galleria era particolarmente affollata: turisti globalizzati alle prese con selfie accanto alle vetrine sfavillanti, sfaccendati di ogni età e manager frettolosi con borsa e ombrello. Non mancavano fotografi entusiasti del Duomo o della Scala, dell’amico che piroettava sui genitali del toro o fan in attesa della celebrità, entrata per un caffè da venti euro nel locale di fama.
Martina si abbandonò al flusso variopinto e lasciò che la portasse alla deriva, era in anticipo e volle godersi qualche minuto senza la pressione di orari della Metro o impegni di sorta.
All’ora e nel luogo convenuti, le mani gelate dalla lattina di Coca, apparve come una terrestre dal fisico atletico e l’abbigliamento sportivo che osservava immagini di una specie aliena lontana da lei anni luce. Scrutò con attenzione la foggia e i colori, cercò di intuire i materiali, valutò le taglie e sorvolò sui prezzi; dopo avere esaminato le luci, la perfezione del cristallo e la precisione della composizione aprì la lattina, si voltò verso la galleria e controllò il cellulare. Detestava la Coca, ma l’attesa aveva inaridito la bocca.                                                     
Mai portato un orologio.
Mezz’ora di ritardo.
Non si fa attendere una donna.
Dando per scontato che stai aspettando un uomo.
Ammesso che arrivi.
Fa freddo, la stanchezza e la fame tornano alla carica.
Se non arriva nessuno entro cinque minuti si passa al piano B.
La strategia alternativa  iniziò appena scaduto il trecentesimo secondo: brioche e cappuccino, con l’intento di restare qualche minuto al caldo e osservare il mondo, gli altri. Continuavano a rappresentare sé stessi nel palcoscenico della vita in quel copione prevedibile che era la quotidianità; si sentì l’aliena travestita e disarmata  che solo un terrestre speciale poteva riconoscere.
E non aveva la minima idea della persona che si sarebbe presentata. Se mai lo avesse fatto.
Ancora un’ occhiata al telefono, muto.
Rimestò negli avanzi della tazza, ormai freddi e rattrappiti: fuori non vedeva la piazza con il  Duomo, persone frettolose o al telefono, coppie che passeggiavano unite. I volti erano tristi o assorti, il giardino ben curato come i vialetti di ghiaia scricchiolante sotto i piedi: in mano teneva un bicchiere di plastica, sporco di liquido nerastro e insapore.
Il telefono aveva dato l’allarme in piena notte, alle tre: un motociclista troppo veloce in autostrada, giovane e sano.
-          Martina, Martina il telefono.-  la voce esile di mamma: dormiva poco, il gorgoglio dell’ossigeno,  il respiro corto, il rumore dei pensieri.
-          …ho sentito, vado. –  il freddo sotto i piedi la accompagnò verso lo squillo, divenuto una melodia.
-          Si, siamo noi.
-          Quando?                                                                          
-          Dove? –  gli occhi di nuovo bagnati, colmi di speranza.
-          Chiamo subito un’ ambulanza. Grazie, grazie.
Il tuffo sul letto, l’abbraccio cauto tra due volti umidi.
-          Abbiamo un cuore, si va.
Era sola sulla panchina, non potevano esserci il padre né Francesco: due uomini, neanche un grammo di anima. Il primo l’aveva accompagnata una mattina a scuola, una valigia in mano e un bacio in fronte: svuotato il conto, aveva lasciato a lei e alla madre solo un domicilio. E Francesco, il bello, Francesco il bullo che cancellò il numero dopo un SMS: “Non ho la vocazione dell’infermiere”. Le cure, inutili, il lavoro da cameriera, qualche ora in palestra: sudore e lacrime, per lavare la rabbia. Dapprima lasciava il suo nome al bar “aspetto  una telefonata  importante”,  le sbirciate  tra i caffè e le brioche,  poi la palestra; il cicalino e il cellulare, quel display muto e freddo.                                      
Ore dilatate in giorni, settimane, mesi.
E ancora volti nuovi, uomini e donne che andavano salutando grati o ringraziando comunque, gli occhi sconfitti, il capo chino.
Il chirurgo la svegliò dal torpore scomodo sulla poltrona della sala.
Complicazioni.
Fatto tutto il possibile.
Situazione grave.
Era dispiaciuto.
Lo furono tutti: il proprietario del bar e della palestra, i colleghi e i vicini di casa. Ma lei sola la accompagnò, sotto un sole di maggio gelido e distante. E sola rientrò a casa, aprì le finestre e lasciò che aria e luce allagassero le camere; Martina era morta con lei, Martina nasceva ancora dalle ceneri. Sola, ma nuova: l’università, una diversa palestra e l’incontro con un’ arzilla anziana cui aveva rovesciato il carrello della spesa. Vinse l’impulso della fretta e ruppe la corazza dell’indifferenza; raccolse frutta e latte, la accompagnò a casa. Ersilia.
Il film replicato fino alla noia, ancora lei e la gemella allo specchio con il dito indice teso a sfidarla.
Fine degli scherzi, si cambiano le regole e si fa sul serio: stop a fregature e ferite da leccare, basta dare. Era giunto il momento di giocare duro, prendere finalmente qualcosa.
-          Prende altro signorina? – il giovane barman la sfidava con un sorriso.
-          Il conto. E rilassati, cocco.
Pagò lanciando le monete sul bancone, accanto ai resti della brioche e del sorriso smorzato sul volto pulito del ragazzo.
Si lasciò andare ancora nella fiumana multicolore e multietnica, soffermandosi ad osservare vetrine e bar, riflessi di luci e immagini sui cristalli luminosi di ottimismo. Giunta a San Babila scartò improvvisa e fu ingoiata dalle scale della metro.
Dove cazzo è Menotti?
-          È uscito, Commissario.
-          Così presto? State diventando dei lavativi.
-          Veramente sarebbero le diciotto e trenta.
-          Sarebbero? O sono o non sono , che cazzo di risposte!
Moruzzi entrò nello studio mettendo alla prova la porta, che rimbalzò e lo colpì.
-          Giornata di merda, vediamo di finirla meglio. Ci mancava pure la riunione con il Questore.
Sedette alla scrivania e controllò i documenti, ascoltandosi.                                                      
-          Eccolo, il dossier su Martina Gelmi, da Monza. Studi, famiglia, lavoro.
Non certo una vita in discesa.
Conto bancario più  rosso di un semaforo.                                                               
Vive sola in appartamento di proprietà.
Quindi le farebbe comodo un bel gruzzolo.
Esaminò il foglietto scritto a mano. L’appunto in merito alla chiamata di una certa Martina e dei numeri in codice.
-          E questo? Un numero di conto corrente, anzi due. Uno è quello della povera Ersilia, ma l’altro?
Digitò sulla tastiera per qualche minuto,  colpì la fronte e imprecò.
-          Stai davvero rincoglionendo, Moruzzi. Vedova e sola, vedova e sola. Piantoneeeeeeee!
Un agente preoccupato aprì con cautela la porta..
-          Si sente male?
(a breve la seconda parte)

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