!-- Menù Orizzontale con Sottosezioni Inizio -->

News

mi piace

lunedì 22 gennaio 2018

IL VALZER DELLA SVASTICA E DELLA STELLA - parte 1

(di Alessia Ghisi Migliari)
Budapest,
Tavole dei Dieci Comandamenti vuote
perchè venne a mancare il rispetto per l'uomo
(foto di M. Zuffi)




Nazisti e Giusti fra le Nazioni negli straordinari incroci della Storia: da Freisler, Heydrich ed Eichmann fino a Wallenberg, Anger e Perlasca

PICCOLO INCIPIT
Cercando nei libri di Storia, per un romanzo ambientato durante il Ventennio, ho scoperto particolari che non sospettavo.

Vicende terribili e tenaci, fatte di eventi crudeli e persone vittime o eroiche.

E sfogliando pagine si scoprono alcuni nomi, più o meno noti, che si sono incontrati nel pieno della tempesta : individui diversissimi fra loro, che si sono incrociati per un attimo, con fini opposti o identici, per poi perdersi.

Questo breve saggio vuole essere una raccolta di sei biografie di chi, come in un valzer, ha avuto davanti a sé l’altro, e l’altro a sua volta il personaggio dopo – una danza inquietante, battaglie e frontiere opposte.



Come una catena – non necessariamente da forzato.

Tre di questi hanno vissuto nel lato dell’ombra, metaforica e sadica.
Gli altri tre hanno scelto un fine elevato, raro e nobile : come dice il Talmud, chi salva una vita salva l’umanità. E questi, di esistenze, ne hanno protette migliaia e migliaia, con un epilogo talvolta tragico per la loro stessa incolumità.
Per collocare fisicamente questo raccontare, ho scelto un estenuante ‘valzer’ ambientato per lo più Ungheria, Paese occupato tardivamente (ma ovviamente crudelmente) dal nazismo – soprattutto per poter parlare anche di un uomo da noi sconosciuto : Raoul Wallenberg.
Questo umile lavoro è un inchino a tre esistenze di tanto valore, che nemmeno si può descrivere.
E alle infinite e più sconosciute.


ROLAND FREISLER: L’AVVOCATO DEL DIAVOLO

L’ATTIMO
Non avrebbe mai pensato di avere, un giorno, la propria possibilità di emergere.

C’era stato un momento quando, prigioniero in Siberia, così giovane, ha temuto di aver terminato ogni opportunità futura.

Evidentemente, altri piani erano in serbo per lui.

Del resto, sa come comportarsi, sa da che parte schierarsi – lui l’aveva capita subito, prima di molti altri, la grandiosità di Hitler.

E adesso ne coglie la fiera e giusta ricompensa.

Se lo potessero vedere, i suoi detrattori!
Quando è in tribunale, sa farsi ascoltare, alza la voce, è un oratore di carriera e qualcuno se ne sarebbe dovuto accorgere, prima o poi.

Con la sua faccia storta, imperfetta, il suo naso grossolano e quelle palpebre cadenti di sonno (in realtà, per nascondere meglio certi suoi pensieri, ché non si vedano), molti lo trovano grottesco e insopportabile.

Poco conta, finché sta su tale scranno.

È lui che decide, della vita e della morte altrui.

Per migliaia e migliaia di volte, di continuo.

Lui deve essere Dio – la Giustizia del nazismo.
PROLOGO DI UN GIURISTA ESALTATO
I più non ne hanno mai sentito parlare.

È una di quelle eminenze di sfumature incerte, vaghe presenze alle spalle del potere.

Ed è sorprendente – sì, perché stiamo parlando di una sorta di becera divinità, di quelle che decidono del destino o come lo si vuole chiamare.

Roland ha una toga e un’ossessione – nobile la prima e ovviamente cieca la seconda.

Del nazismo ha fatto scopo, quasi da subito, da quando è spuntato all’orizzonte incerto della Germania arresa dal primo conflitto mondiale.

In un tempo di caos del genere, c’è posto anche per lui, senza dubbio.
Meglio dunque non farselo ripetere, e presentarsi sulla scena.

La sua infanzia è stata piuttosto dinamica, per via del lavoro d’ingegnere del padre.

In fondo, se la famiglia resta unita, non può far male cambiare qualche paesaggio, soprattutto i un’epoca in cui i più vivono respirano e muoiono nel medesimo luogo.

Quando nasce, il 30 ottobre 1893, è a Celle, Germania.

Ma subito si riparte, e sarà così per un po', fino a quando, all’inizio del nuovo secolo – che chissà che porterà – si starà per qualche anno nel medesimo posto, Aquisgrana.

Il piccolo Freisler cresce in fretta – di lui poche notizie (sa accucciarsi nell’ombra da subito, a quanto pare) – e arriva all’università, corso di laurea in giurisprudenza.

Ma la Storia decide per lui e milioni d’altri : Prima Guerra Mondiale.
Parte verso il proprio dovere, entra in fanteria – è in prima linea, viene ferito, guarito, rispedito al fronte (una vita giovane vale poco, in questa tormenta).
Come già accennato, però, c’è scritto, chissà dove e da Chi, che deve sopravvivere.
E lo fa in maniera un po' penosa, nel senso che viene catturato dai russi, e il quasi imberbe luogotenente si ritrova, nel 1915, in Siberia, da cui riuscirà a tornare ben un biennio dopo la conclusione del conflitto.
È un lungo momento di grande dolore e di sviluppo di un’arte machiavellica della sopravvivenza.
Di nuovo a casa, riprende i suoi studi : ha tutta l’esistenza di fronte, e viene da una famiglia in cui la cultura è essenziale.
Si laurea nel 1922, e, assieme al fratello Oswald apre uno studio : due rampanti avvocati all’inizio della carriera.
È solo il 1925 quando conosce il nascente nazismo.
È uno della prima ora, quasi.
Entra nel partito (tessera 9679, un numero lusinghiero perché piuttosto basso), ne è esaltato, esattamente come intense anche se pedanti sono le sue perorazioni in aula : innegabile la sua abilità del disquisire e attirare l’attenzione di un pubblico, qualunque esso sia – quindi la politica può andar bene per lui.
Il tribunale diviene il trampolino da cui lanciare tutta la sua intensissima passione di nazionalsocialista, e non solo in teoria : quando qualche camicia bruna si comporta, al solito, in maniera crudele e feroce, lui la difende – è il suo mestiere.

Il suo procedere nella scala sociale del nazismo non è rapido o impressionante, ma un lento scivolare in avanti, diciamo un vero e proprio strisciare : consigliere comunale, poi il parlamento prussiano e infine deputato per la grande Germania.

Quando la cricca di Hitler nel 1933 sale alle gloria, può ben aspettarsi un po’ di gratitudine, per il suo zelo infuocato : consigliere di Stato, dirigente ministeriale, segretario di Stato presso il Ministero di Giustizia del Reich – di cui sarà il rappresentante alla conferenza di Wannsee .

La legge viene affiancata al concetto di “razza”, quando c’è lui.

È una parola sacra, che nella sua bocca non manca mai.

La distorsione del legiferare non lo riguarda, lui segue più alti ideali, e con un tale impeto da impressionare anche i più incalliti seguaci hitleriani. C’è qualcuno che sussurra che sia “pazzo”, proprio così, totalmente incontrollabile.

Ma le voci rimangono flebili, ed è nell’agosto del 1942 che trova il proprio momento di massimo splendore : diviene (e lo rimarrà fino alla morte) presidente della Corte Popolare di Giustizia, la Volksgerichtshofs.

E sarà una vera strage, senza voler esagerare.

Da qui in poi, con processi sommari, del tutto inadeguati e già decisi in partenza, manda a morte o all’ergastolo la quasi totalità degli imputati che hanno l’indiscussa sfortuna di capitargli innanzi.
Qualunque minimo crimine diviene segnale di un corrompimento razziale da eliminare ad ogni costo.
Se poi a essere chiamati a giudizio sono dei potenziali, ipotetici traditori del suo Fuhrer, nessuna punizione sarà mai abbastanza.
È volgare, offensivo e svilente, nel rivolgersi a chi ha davanti : insulta e umilia senza posa, urlando talmente ad alta voce che, gli addetti alle riprese dei processi hanno difficoltà nel loro compito – ci tiene a imprimere per sempre le sue scenate su pellicola.
È un invasato, ha chiaramente problemi psichiatrici, ma il suo posto è lì, un patibolo senza tregua dai ritmi serrati.
Al suo terribile cospetto sfilano personaggi oggi considerati con grande stima, uomini e donne probabilmente sgomenti dalla follia di quel microcosmo, rappresentato da una strana creatura perennemente furente.
Due dei casi più noti da lui ‘gestiti’, quello della Rosa Bianca e l’attentato a Hitler del luglio 1944.

Un film ha recentemente raccontato, della Rosa Bianca .

Cinque ragazzi, quasi ancora bambini, fervidi nel loro idealismo vigoroso e ardito, che portano avanti una resistenza non violenta a quanto sta accadendo nel loro Paese.

Contrari al regime che li governa, stampano opuscoli e volantini, e gli scritti possono anche fare le rivoluzioni, è cosa nota.

Studenti di Monaco, una di essi, la celebre Sophie Scholl, lancia gli ultimi fogli di carta dallo scalone della Facoltà, e in questa pioggia firma la propria condanna.

Scovati, portati di fronte all’improbabile giudice, il giorno stesso della loro udienza vengono (non tutti assieme) condannati a morte e ghigliottinati.

Anche chi tenta di raccogliere soldi per aiutarli, viene messo in prigione.
Sono dei traditori, che fomentano gli animi impuri – Freisler deve aver rischiato la sincope, temendo di trovarsi innanzi il diavolo in persona.
Cinque giovani adulti decapitati.

Anche il 20 luglio 1944 è fatto storico conosciuto.

Le sorti della Germania sono ormai segnate, lo sanno in molti, lo dicono ad alta voce in pochi (sempre sussurri).

Per fermare un suicidio annunciato, bisogna fermare la mente di tutto questo : uccidere Adolf Hitler.

E a pensarlo non sono dei dissidenti usuali, dei nemici del Terzo Reich.

No, sono ufficiali della Wermacht, le forze armate della potente nazione.

A capo di questa impresa pericolosissima, l’audace e nobile (un conte) Claus von Stauffenberg, giovane colonnello, che malgrado una grave disabilità dovuta allo scoppio di una mina (cieco da un occhio, senza una mano e parzialmente amputata l’altra) continua nel suo compito, con però ormai forte antipatia per il regime – prendendo ‘antipatia’ come un eufemismo.
Il piano è quello di posare una valigetta contenente una bomba accanto a Hitler nel suo quartier generale in Prussia.
Un banale spostamento del delicato oggetto provoca sì un’esplosione, dalla quale però Hitler esce solo ferito, troppo lontano dall’ordigno.
La vendetta sarà totale : presi i responsabili e chiunque li abbia aiutati, si tortura e si uccide.
Di più : anche i famigliari dei colpevoli, pur senza aver fatto nulla, vengono deportati e trucidati – che siano adulti o bambini.

Freisler, di fronte a un gesto del genere, è sconvolto: trova sia il crimine più “mostruoso” mai accaduto nella Germania tutta, per lui non solo è inconcepibile, ma nemmeno l’inferno sarebbe abbastanza, per un’onta simile.

Ciò che non può sospettare, nel proprio entusiasmo, è che anche lui ha i giorni contati.

Nei tre anni del suo operato, circa duemilaseicento individui sono stati condannati a morte.

EPILOGO DI UN FOLLE TOGATO
Anche lui, così al di sopra della legge e degli uomini, finisce per soccombere sotto il colpo dei tempi.

È il 1945, il 3 febbraio: un bombardamento aereo su Berlino gli risulta fatale, e resta mortalmente colpito.

Il suo cadavere viene rinvenuto – stava chiaramente tentando di cercare scampo nei sotterranei – sotto una colonna.

Lo si immagina, col suo corpo sgraziato, correre disperatamente, nell’illusione di un riparo della sua preziosa persona.

Senza volerlo, questo epilogo gli ha consentito di non assistere alla definitiva caduta di Hitler e di tutto ciò che aveva consentito a un tale figuro una carriera luminosa con potere di vita e morte.

Quando i soccorritori lo trovano, esanime, tra le braccia ha il fascicolo di un cospiratore antinazista che, se il nostro antieroe fosse vissuto, sarebbe stato senza dubbio giustiziato (e che invece, dunque, vivrà fino agli anni Ottanta!).
Quando si dice una salvezza caduta dal cielo...
L’ATTIMO
Sa dei giudizi assai poco gentili che gli dedica.

Per quanto allucinato, Freisler ha una sua forma di lucidità e un’indubbia intelligenza – capisce benissimo i pensieri di Heydrich, quando lo guarda, per quanto difficile da scrutare.

Qui, a Wannsee, Reinhard è il re.

Per cui non lo degnerà neanche di uno sguardo – poco gli importa anche di questo, lo sanno tutti che il biondo è arrogante e presuntuoso, che si crede d’essere a loro tutti superiore, e non lo si contraddice perché fa paura.

“Signori, siamo chiamati a questo delicato compito, in questa magnifica cornice. Sperò che questo incontro sarà proficuo per le sorti della Germania” – su questo almeno, Roland concorda.
L’avvocato del diavolo crede di essere lì, lui, a fare la Storia.
E purtroppo sarà così.
REINHARD HEYDRICH: LA BELVA CHE SUONAVA IL VIOLINO

L’ATTIMO
Tutti sanno che non lo sopporta.

Freisler ha un che di grottesco e infimo – e lui invece è ben eretto, magnifico, dallo sguardo spietato e padrone.

Questa specie di ululante giudice non gli va giù – ma siamo alla conferenza di Wannsee, bisogna sorridere, essere affabili.

Gli altri lo sanno, come definisce Roland: il viscido pagliaccio.

Magari ne è consapevole anche il ridicolo avvocatuncolo, ma col suo prostrarsi ai piedi di chi conta, non si rivolgerebbe mai a lui, Heydrich, in malo modo.

Non ha dignità, Freisler.
Lui, invece, è nato figlio della musica (così lo chiamavano), e adesso è un paladino del Reich.
Lui, così ariano, così al di là di tutti gli altri, così ambizioso.

Che Freisler continui a petulare: lui resta impassibile, coi propri gesti misurati, con l’eleganza innata dell’ambiente da cui proviene, col ruolo che ha adesso, in questo momento importante della Storia – pieno inverno e decisioni fondamentali da prendere.
Reinhard Heydrich non vede nessuno: nel suo cammino, solo una strada libera fatta apposta per un uomo come lui.
Un uomo di razza.
PROLOGO DELLA BELVA BIONDA
I soprannomi sono sempre teatrali.

Hanno un che di esagerato, caricaturale, alla fine di vero.

E ci sono metamorfosi impressionanti, nel modo in cui si chiama qualcuno.

Perché c’è chi nasce figlio della musica, appunto, e muore belva bionda (senza dimenticare il non meno meritato boia).

In mezzo, tutto quello che non doveva essere.

Marzo, 7, 1904, Halle an der Saale : il celebre compositore Richard Bruno Heydrich e la moglie Amalia Kranz hanno un bambino.

La gioia tipica dell’evento : Reinhard Tristan Eugen – qualcosa di altisonante, perché il pargolo nasce sotto ottimi auspici, nulla gli manca.

La famiglia frequenta ambienti altolocati, sono cattolici in un contesto protestante, ma vengono stimati e ricercati.

È stato Bruno a fondare il conservatorio di Halle, grazie alla propria dedizione e al talento.

Che al piccolo – suo figlio – non mancano.

Gli mettono nelle manine un violino, e lui è bravo, si vede subito.
Non smetterà più, il piccino.
Purtroppo, la passione non è abbastanza per farne il mestiere di una vita : la Storia, sempre quella con la maiuscola, si sarebbe altrimenti risparmiata molta ferocia.

Frequenta le scuole migliori, Reinhard.

Non è particolarmente espansivo, anzi : soffre di una timidezza quasi patologica, ma supplisce in altri modi – con la sua bravura negli sport, per esempio.

Adora nuotare, ed è un provetto spadaccino, soprattutto.

Ma, in generale, archetto o no, ha la stoffa dell’atleta.

Crescendo con tutte queste attività, il corpo si modella bene, l’aspetto ne guadagna.

E quando, più avanti, si scoprirà che esiste una razza ariana, allora il giovane Heydrich ne sarà un perfetto esemplare, uno dei pochi, nell’elite nazista (i paradossi della natura umana) – tutti gli altri hanno un’aria anonima, non hanno particolare statura, nulla di ‘biondazzurro’.
Lui è alto, capelli chiarissimi, occhi un poco piccoli, ma viso regolare, con un profilo d’aquila – solo il naso stona, pare raccontare di quell’onta ebraica che gli si attribuisce (a bassa voce anche qui, che con lui non c’è da scherzare).
Spicca, per via del suo incedere sicuro, delle sue molteplici abilità, della sua cultura e provenienza.
Hannah Arendt non avrebbe potuto racchiuderlo nella banalità del male.
In un regime crudelissimo composto da apparentemente insipidi singoli, c’è un Heydrich.
Il che fa ancora più paura.

Non è abbastanza adulto, per partecipare alla Prima Guerra Mondiale : Bruno deve aver tirato un sospiro di sollievo, per il proprio pargolo.

Ma c’è sempre un modo per compensare, quindi entra nei Freikorps locali, appena adolescente, sposandone l’ardore antesemita e quanto altro.

Eppure il ragazzo è inquieto, deve trovare altri orizzonti – e l’orizzonte, per definizione, mica puoi raggiungerlo.

È il 1922 quando entra nella Marina, e qualche anno dopo diventa secondo luogotenente nel comando baltico, ma il suo sogno di diventare ammiraglio non si avvera.

Succede qualcosa – prima o poi succede sempre, niente da fare.

Le versioni differiscono.

La più nota parla di una questione di donne.

La figlia di un noto industriale lamenta di essere incinta di Heydrich, ma sostiene che l’uomo non vuole sposarla, essendo già fidanzato con Lina von Osten, che poi diverrà la sua consorte.

Di fronte alla corte viene espulso dalla Marina – il protagonista stesso pare avvallare questa versione, senza però che nessuno, nemmeno dopo la caduta del nazismo, sia riuscito a trovare prove.

Altra teoria : si scopre che l’ambizioso ragazzo è una spia dei nazisti all’interno del sistema navale tedesco.

Ma, anche qui, si resta nel dubbio.
Solo una certezza : lascia i flutti, Heydrich.
Perso un potenziale violinista, perso un potenziale lupo di mare, si scivola lentamente verso l’ineluttabile.
Serendipità negativa.

Il 1931 è nella sua esistenza un momento pieno, come si dice.

Entra nelle SS e, ovviamente, si è iscritto al partito nazista, con un numero di tessera ben elevato : 544916 – insomma, non un camerata della prima ora.

Non solo : a dicembre sposa la sua Lina, da cui avrà quattro figli : Klaus (1933), Heider (1934), Silke (1939) e Marte (1942).

Insomma, si può dire che ormai è adulto e pronto al lancio.

Le SS (Schultzstaffel, reparti di protezione) sono la risposta ‘sofisticata’ alle SA (Sturmabteilung, squadre d’assalto).

Nate per proteggere Hitler, si muovono, con le loro uniformi nere, in contrasto con la violenza asistematica degli altri, quelli con la camicia bruna, quelli che hanno al vertice Ernst Rohm.

Man mano che il potere aumenta, i gerarchi nazisti comprendono di aver bisogno di un corpo scelto più qualificato.

Ecco perché tra il 29 e il 30 giugno 1934 avviene la “Notte dei lunghi coltelli” : le SA sono diventate ingombranti, basta far credere che le truppe di Rohm stiano per ribellarsi e si sarà legittimati ad agire.

E agiscono, in effetti.

Alla progettazione di questa offensiva spietata ha partecipato ovviamente Heydrich.
All’inizio, nel suo lavoro nell’intelligence nazista, è uno dei tanti, Reinhard.

Ma scala in fretta – i gradini, alto com’è, li può fare due a due.

A Himmler , ex allevatore di polli, piace questo giovane che è ciò che lui non sarà : brillante, agile di testa, terribilmente ariano.

Lo mette a capo della SD (Sicherheitsdienst, il servizio segreto di sicurezza delle SS), e il violinista mancato ne fa la sua opera d’arte.

Da piccola sezione ignota, la fa crescere con cura : scova informazioni e archivia notizie su comunisti, ebrei, nazisti stessi e industriali di rilievo... un’enciclopedia di segreti, insomma.

Così bravo a scoprire, il biondo eroe teutonico le rampe a questo punto le affronta a balzi : capo del dipartimento politico di Monaco, poi della Baviera tutta, infine della polizia di sicurezza dell’intera Germania.
Ormai lasciato l’archetto, si ritrova fra le mani la meno armoniosa Gestapo : siamo nel 1936, e il figlio della musica ha appena superato la trentina.

I nemici, che siano veri o presunti, non hanno scampo.

Totalmente privo di etica o empatia o qualunque loro surrogato, i metodi di eliminazioni del biondo atleta non vacillano mai.

Regista nato, trova l’occasione di aiutare Hitler, che arriva ogni tanto a immaginarlo suo successore (ma di quanti, lo si è detto!).

È il 31 agosto 1939 e la stazione radio tedesca di Gleiwitz viene attaccata da soldati polacchi che invitano i compatrioti della Slesia a ribellarsi al Fuhrer.

In realtà si tratta di nazisti con uniforme della Polonia, e vengono persino lasciati sul campo i cadaveri dei supposti ribelli (in realtà povere vittime uccise nel campo di Sachsenhausen proprio per fare ‘scenografia’).

È la scusa per l’occupazione della Polonia.

È l’inizio della Seconda Guerra Mondiale.

A orchestrare (in maniera assai diversa dal padre Bruno) ogni cosa, Heydrich.

La sua sfera d’azione si fa da qui sempre più ampia: ormai si occupa anche di spionaggio al di fuori dei territori tedeschi.

Sono i suoi uomini, quelli che permetteranno l’“affare Venlo”, dal nome della località dove vengono rapiti due agenti inglesi convinti di incontrare dei tedeschi intenzionati a uccidere Hitler.

In realtà è un’invenzione : si vogliono passare informazioni false, ma soprattutto, le prede consentono di avere molti nomi di spie nel Reich.

Machievelli ne sarebbe stato disgustato.

La questione ebraica già rientra negli ‘interessi’ di quello che è ormai la belva bionda.

Dal 1938 dirige l’Ufficio Centrale per l’Emigrazione Ebraica.

Con l’invasione della Polonia, adesso ha i ‘giudei’ stranieri, anche, cui pensare.

E lo deve fare bene, così da poter dissipare la sua grande ombra, quella voce che pare essere l’arma con la quale il Fuhrer e gli altri potenti si assicurano la sua fedeltà e ‘correttezza’.

Un motivo in più per essere un assassino perfetto.

Perché quel naso ‘così ebreo’, magari non è solo una coincidenza.
Il padre, accanto al cognome attuale, pare si chiamasse anche Suss.
Tipicamente ebraico.
Derivante da un secondo matrimonio della nonna paterna di Reinhard.
Eppure Bruno era già nato, la cosa non dovrebbe essere disturbante.
Certo, si tratta di un patrigno non ariano, anzi, peggio : uno di loro.
Ma è una situazione nebulosa, mai chiarita, c’è chi sostiene che sia stato lo stesso Heydrich, a confidare di avere un nonno ebreo.
Hitler lo convoca, ci parla assieme : lo definisce assai dotato e, proprio per questo, molto pericoloso.
Quindi utile.
Per cui, che si taccia.

Ed ebree sono molte delle vittime delle Einsatzgruppen (Gruppo Azioni Speciali) : una realtà politica nei territori occupati, che ha per scopo quello di eliminare oppositori di vario genere.

L’idea di questa ennesima creazione : sempre sua.

Tanto zelo va ripagato : capo delle RSHA, sempre 1939.

La Soluzione Finale.

Ormai drammaticamente nota, si realizza profondamente con quella conferenza.

La conferenza del Wannsee.

E Goering sa a chi affidare l’increscioso compito : Heydrich.

Ci penserà lui, agli undici milioni di ‘pidocchi’.

Gennaio 1942 : gelo, un’antica villa dalla facciata di un delicato rosa.

Una riunione per decidere come sterminare esseri umani e si decide ogni cosa : quanti e come.

Accanto, l’uomo banale, il segretario : Adolf Eichmann.

Appunti minuziosi, stile tipicamente nordico : precisione e disciplina.

Portare gli ebrei all’est, farli lavorare, dare una mano alla selezione naturale.

Con questa professionalità, l’inquietante Suss che gli pende sulla testa non conta più nulla, anche perché, nel frattempo, gli è stata consegnata un’altra carica : ha il protettorato di Boemia e Moravia.
C’è chi dice che Himmler tiri un sospiro di sollievo, ad averlo via da Berlino : il ‘biondazzurro’ fa paura ad averlo solo accanto.

In ogni posizione continua a far bella mostra della propria già nota natura: fa impiccare duemila cittadini cechi, fa uccidere senza sosta, deporta dai ghetti gli ebrei, in modo che vadano alle camere a gas.

Fa trasportare e uccidere gli occupanti di Theresienstandt , da Lodz manda verso la fine di Chelmno , e intanto si occupa di mecenatismo, per trasformare Praga in una culla d’arte.

Insomma, la musica è importante.

Maggio, giorno 27, anno 1942.

Heydrich si muove sulla macchina scoperta.

Anche Mefistofele deve smetterla, prima o poi.

Una granata, e l’automobile, che si è riusciti a fermare, viene colpita.

Si tratta di membri del governo della Cecoslovacchia, che hanno ricevuto un addestramento dal SOE .

Il boia resta dieci giorni in ospedale, in condizioni gravissime, prima di morire, per avvelenamento del sangue e i danni riportati ad alcuni organi.
Si dice abbia espresso, prima di spirare, il proprio pentimento.
Ma riesce a fare vittime anche da sottoterra, ché Hitler è furioso di questo illustre decesso: gli serviva, un personaggio del genere, in mezzo a tanta mediocrità.

Il 10 giugno, come risposta all’assassinio del trentottenne nazista, il villaggio di Lidice (noto per la sua attività partigiana) viene circondato.

Tutti gli uomini – dall’adolescenza in poi – vengono presi e uccisi.

Anche alcune donne finiscono per rientrare tra le uccisioni: un totale di 340 persone – gli abitanti restanti vengono spediti nei campi di concentramento.

Come conclusione, sempre in onore di tale leader, nasce l’’Operazione Reinhard’, che nasconde l’intenzione di uccidere gli ebrei polacchi e segna l’utilizzo massiccio dei campi di sterminio.
EPILOGO DEL BOIA
La tomba di Heydrich prima progettata come grandiosa (quanto i suoi funerali) non verrà terminata e sarà comunque rimossa dagli Alleati.

Dello spadaccino amante della musica, atleta e pilota e quanto altro, resta una carriera atroce.

E si guardano i suoi occhi piccolini, così minuscoli – da rapace – che dentro non riesci a capire nulla.

Solo lo sgomento.

Perché, appunto, il male non sempre è banale.

Questo uomo era nato in una famiglia eminente.

Aveva ricchezza, ogni porta aperta – talento e agilità, le migliori scuole e quanto altro.

Aveva i mezzi per comprendere, per allontanarsi, per.
Ma è rimasto.
Ed è diventato se stesso.

In psicologia, si direbbe che era una persona affetta da un disturbo antisociale di personalità: del tutto indifferente al dolore dei propri simili, sadico, privo di qualunque scrupolo.

Umanamente, si potrebbe semplicemente affermare che è stato qualcuno che ha potuto decidere di sé.

E l’ha fatto.

Ha posato l’archetto – ed è diventato un boia.
L’ATTIMO
Il profilo d’aquila si illumina tenue alla luce della finestra – luce crepuscolare, wagneriana.

Alle sue spalle, l’uomo banale sorride.

È lui il braccio destro di questo geniale Heydrich, lo sanno tutti.

E adesso gli ha detto che apprezza così tanto la sua capacità organizzativa, da mandarlo a Praga, a ‘sistemare’ la questione ebraica.

Ha ben da essere orgoglioso, Adolf Eichmann.

“Allora?”

“Oh certamente...certamente. Farò del mio meglio”, deve aver detto.

La belva bionda non mostra particolare interesse, ma non ne ha bisogno.

Sa che questo ometto con l’aria innocua agirà ottimamente.

Gli ebrei non avranno tempi facili, con questo ‘impiegatuccio’ solerte.

E l’uomo banale sorride.
ADOLF EICHMANN: L’UOMO BANALE

L’ATTIMO
Non capisce proprio questo strano uomo criptico.

Proprio così, è una parola che rende, e lui alle parole dà il giusto peso, le pondera con attenzione, mai una di troppo.

Il suo superiore gli mette una certa inquietudine, con la bionda supponenza, la superiorità sbandierata senza tregua, i suoi modi secchi e recisi dietro tanta inusuale eleganza.

È Heydrich che decide di lui, e quindi non bisogna scontentarlo.

In fondo lo ha soddisfatto, col suo operato preciso e attento, per cui possono dirsi entrambi soddisfatti.

Il profilo di Reinhard ha un che di marmoreo.

Il banale Eichmann scompare, accanto a questa figura.

Tanto meglio: lui è in gamba, a scomparire.

E gli servirà, anche.

Il burocrate banale scivolerà via grazie alla propria apparente nullità.
PROLOGO DELL’UOMO OMBRA
Quasi primavera anche in Renania, 19 marzo 1906.

Nasce Otto Adolf, in un famiglia modesta e onesta – il signor e la signora Eichmann.

E sono contenti di questo figlio, che sin da piccolo si rivela terribilmente obbediente.

Proprio così : terribilmente.

Certo, l’educazione dell’epoca ne fa un punto d’onore e rispetto : si ascoltano i genitori, non si transige e non si polemizza.

Ma al fanciullino viene quasi spontaneo : ha necessita di essere guidato e si sottomette con zelo e volentieri.
Diventerà un tratto dominante del suo carattere.

Ancora nell’infanzia il trasferimento a Linz, Austria : suo padre diviene il dirigente della società cittadina dei tram.

Deve essere un contesto piacevole, in cui crescere : non un piccolo centro, non una fastidiosa metropoli, il luogo adatto per un ragazzino insicuro e un pò introverso.

Perché lui è così : taciturno, facile da intimorire, preso crudelmente in giro dai coetanei.

Con quell’aspetto un po’ così poi, con quei lineamenti, lo scherniscono : lo chiamano “ebreo”, e lui tace.

Ma c’è sempre da fare il conto coi tempi : siamo nel bel mezzo della Prima Guerra Mondiale, ma in fondo non è nulla, agli occhi di un bambino, rispetto a ben altro dramma : la morte della madre.

In più anche papà sparisce : va a combattere nell’esercito austroungarico, il dovere prima di tutto.
No, non è un periodo felice. Proprio per nulla.
Terminato il conflitto, restaurata un po’ di pace fuori e dentro casa, i rapporti familiari si rivelano comunque piuttosto asettici, senza particolare impeto.
In più, il giovanotto non ama studiare, non ha ambizioni particolari, non si impegna in nulla che non sia strettamente richiesto.
Con questi presupposti non finisce neanche la Realschule, l’istruzione superiore, insomma.
A questo punto, per forza, inizia una girandola di precarie occupazioni : altro non c’è da aspettarsi, da questo ragazzo mingherlino ed eccessivamente deferente.
Lo aiuta il genitore: inizialmente prova a studiare per diventare meccanico, poi, sotto la tutela del padre, ormai uomo d’affari, sta nella compagnia mineraria di Eichmann senior, al che tenta come commesso e infine nell’ambito della Vacuum Oil , come agente di zona.
Onestamente, non è un successo.
E chissà che non c’entri anche quel suo senso d’essere estraneo anche fra le pareti domestiche : dopo la morte di mamma, papà non ha atteso molto, per convolare a nuove nozze, e lui si è sentito un po’ solo.
Certo, l’importante è non essere disobbediente.
E seguire la fede evangelica, tanto cara presso di loro.
È un peccato, non riuscire a creare un qualche vincolo emotivo, visto che sono un nucleo numeroso: infatti si ritrova ad avere una sorella e ben cinque fratelli – fratellastri suona male.
Quando, ormai più che adulto e ormai in prigione, verrà intervistato, parlerà di un compagno di questa prima parte della sua vita : il suo amico ebreo, Harry, che gli ha tenuto compagnia in tanto vuoto.
E lo farà con irritante affetto.

Ma è poi vero che non c’è ambizione, in questo uomo agli inizi?

Succede che nel 1932 ha l’occasione, grazie all’amico di famiglia Kaltenbrunner , di assistere a un raduno del partito nazista.

L’entusiasmo che vede negli ‘adepti’ pare scuoterlo, almeno quello.

Entra nella NSDAP e poi nelle SS, sempre grazie all’intervento di Kaltenbrunner e nel 1933, con l’ascesa al potere di Hitler, torna nella natia Germania.

Finalmente una direzione.

E qui obbedire è una virtù – proprio adatto a lui, nulla da eccepire.
Nel suo lento progredire (i suoi passi non sono balzi, ma timidi avanzamenti) viene assegnato allo staff amministrativo del campo di concentramento di Dachau .

Ma il suo sguardo punta diritto verso la Polizia di Sicurezza, e il suo arrivo al quartiere berlinese dell’SD (il servizio segreto di sicurezza delle SS, vedi pag.5) è un’idea vincente : solerte e attento ai particolari, sempre pronto a eseguire quanto richiesto con scrupolo quasi maniacale, i superiori apprezzano e promuovono.

Nel frattempo, nel 1935, ha anche messo “la testa a posto”, come si dice.

Una degna SS deve avere arianissimi e numerosi figli.

Nel 1935 sposa Vera Liebl, da cui avrà ben cinque eredi : Klaus (1936), Horst Adolf (1940), Dieter (1942) e, ormai fuggitivo, Ricardo Francisco (1955).

Per tutta la propria esistenza, Eichmann si vanterà d’essere un conoscitore della cultura ebraica.

In realtà, la sua è una formazione lacunosa e caotica, ma senza dubbio maggiore di quella dei suoi collaboratori o capi.

Nel 1937 però, effettivamente si avvicina a quello che poi sarebbe stato il luogo della sua fine.

Con il superiore Hagen atterra ad Haifa : si vuole sondare un ipotetico trasferimento degli ebrei in Palestina... una soluzione bisogna trovarla, e per ora non ancora “finale”.

Il risultato non è felice : il costo di questo trasporto di massa sarebbe eccessivo, e non si vuole creare uno Stato di ‘giudei’.

C’è da pensare ad altro.
Intanto, inviato nell’annessa Vienna per organizzare (il suo verbo preferito) le SS, nel medesimo periodo arriva a ricoprire il proprio ruolo primario: la guida dell’Ufficio per l’Emigrazione Ebraica, appunto.

Le parole certe volte vengono usate in modo ambiguo – emigrare, per esempio.

Le si pensano tutte : si potrebbe trasportarli in Madagascar, per dirne una, e pare quasi concretizzarsi, il progetto.

Ma sono ipotesi che cadono, nel mentre che Eichmann studia l’ebraico e la cultura degli ebrei, in maniera un po’ approssimativa, ma abbastanza da farlo credere un esperto.

Poi l’incontro con Heydrich, il violinista mancato.

Due menti opposte nella stessa direzione.

E Heydrich porta a Wannsee, dove non parla di cambiare territorio.

No, si dice altro.

E allora le sue competenze si spostano sì, al trasporto : ma non per condurre a nuova vita, ma per portare alla morte.

Il figlio della musica lo assegna al territorio polacco, e lo scopre così bravo nel far viaggiare verso lo sterminio, che nel 1944 lo manda anche in Ungheria.
Quattrocentomila anime, riesce a mettere sui treni, dal suo ufficio di Budapest.
Certo, c’è quel Raoul Wallenberg che gliene strappa un numero impressionante, ma non c’è da lamentarsi : coi russi alle costole, lui continua a svolgere il proprio dovere, in ogni caso.
La sua sezione IVB4 può ben vantarsi dell’operato: e solo quando nel 1945 arrivano i sovietici che si può scappare.
Eh già: conviene proprio, scappare.

La sua mania di precisione e l’attenzione con cui ogni convoglio viene messo in viaggio hanno un che di patologico: è capace di andare su tutte le furie, se qualche guasto tecnico o ferroviario frena il ritmo.

Ordine, serve ordine.

E la sua è una guerra da scrivania, da scartoffie: crea una burocrazia che lascia senza scampo. Manca sempre qualche carta, qualche permesso, qualche visto, agli ebrei.

La verità è che non si accontenta dei ‘giudei’ di una nazione: mette il naso ovunque...Francia, Croazia, Italia – li trova, li mette nei vagoni e via.

L’amico Kaltenbrunner stavolta non ci sta: la guerra è persa e terminata, non ha alcuna intenzione di nascondere nella sua casa tra le cime austriache uno scomodo Eichmann.

Non conviene.

E allora l’uomo banale torna in Germania, finisce arrestato dagli americani.

Dà un’identità falsa, e nessuno si concentra su di lui : non sa di nulla, pare non avere alcuna caratteristica degna di nota, non attira l’attenzione.

È questa la sua vittoria: lui non attira l’attenzione.

Così palesamente ignorato, da riuscire a fuggire e da starsene tranquillo in zona per un pò.
E da qui, di lui, più nulla.
Solo una testimonianza, tempo dopo, di chi dice di averlo visto morto : peccato si tratti di un parente, e quindi ben poco affidabile.

Ma al mondo esiste un Simon Wisenthal.

Simon, nato nel 1908, in Polonia (e morto nel 2005).

Architetto, finisce per essere internato in ben tredici campi di concentramento nazisti, fino alla fine, quando i soldati statunitensi entrano in Mathausen .

Decine di suoi familiari sono stati uccisi, solo la moglie, salva, viene ritrovata.

La sua vita viene dedicata alla ricerca dei criminali del nazismo, di quegli uomini scampati per cavilli o incuria, e lo fa sempre, come dice lui, “per giustizia, non per vendetta”.

Prima collaboratore di altre associazioni, fonda poi un suo centro, per non dimenticare e continuare a cercare nomi scomparsi nel nulla.
Scrive libri, parla ai giovani... sarà lui a dimostrare la veridicità di Anna Frank e di quanto le è accaduto.
Sarà lui a trovarlo, a trovare l’uomo banale.

Si fuggiva bene, dalla Germania nazista.

Al di là della mitologica Odessa, è indubbio che tantissimi nazisti sono riusciti a svanire, sparpagliandosi ovunque, per lo più in sud America, grazie sovente alla connivenza dei governi al potere, e con l’aiuto di conventi e realtà cattoliche.

Wiesenthal conosce il ruolo essenziale di Eichmann nello sterminio degli ebrei.

Per lui non è un caso come gli altri – è il maggiore, il più importante.

Ma l’uomo ombra ha mantenuto un profilo talmente basso, che nemmeno una sua fotografia si riesce a recuperare, per sapere chi è.

C’è solo la dedizione di Simon, che non crede sia morto.
Allora si indaga.

Eichmann arriva in Argentina con un grande paio di occhiali scuri nel 1950, dopo un rapido passaggio in Siria.

I suoi compagni di sventura, già lì, lo attendono : adesso si chiama Ricardo Klement, e viene portato a Tucaman, centinaia di chilometri lontano da Buenos Aires.

C’è una rete fitta di contatti e aiuti, per quelli come lui.

Gli viene trovato un lavoro, che svolge bene, perché lui è fatto così : l’impianto idrico della zona gli compete, e lui lo fa con la stessa attenzione con cui ha progettato e mandato a morte milioni di ebrei.

Questione di coerenza.

Ma non gli basta, questa esistenza grama : vuole la sua famiglia.
È un rischio, si sa, ma si tenta.
Nel 1952 Vera e i bambini lo raggiungono, e tutti insieme vanno a vivere in una fattoria – la famiglia Klement, coi suoi documenti finti, vive una sorta di paradiso naturale, libero e tranquillissimo.
In zona ci sono molti, “come loro”, ma si fa finta di nulla.
Solo che non si fa il conto con Wiesenthal e la Mossad .
Perché la magnifica ironia è questa : Hitler voleva sterminare gli ebrei, e loro sono rinati in una nazione (nel 1948).
Lontani sì, ma presenti, e sempre più organizzati, e feriti. Parecchio feriti, ovviamente.
Chi è rimasto si è unito, e non ha dimenticato.

Le traversie economiche di qualunque famiglia obbligano a dei trasferimenti.

Magari anche la paura di essere trovati, verrebbe da dire.

I Klement si stabiliscono a Buenos Aires (nel frattempo è nato l’ultimo figlio), in una casetta umile, sottotono.

E fanno ogni giorno le stesse medesime cose, con monotonia – e precisione.

L’11 maggio 1960, grazie alle accurate ricerche di Wiesenthal, ad aspettare Eichmann vicino alla propria abitazione ci sono agenti del Mossad, che hanno studiato con attenzione ogni singolo movimento della ‘preda’.

In sessanta secondi viene caricato in macchina e portato via : non è un arresto, non ne hanno avuta l’occasione.
È un rapimento.
Da subito, l’arresa : accetto il mio fato, pare abbia detto.
E, sotto l’ascella, un tatuaggio stinto, quello delle SS.
“Ich bin Adolf Eichmann” – sono Adolf Eichmann.
Viene tramortito con dei farmaci, caricato su un aereo, portato in Israele.
David Ben Gurion annuncia al globo tutto di avere in mano il burocrate dell’Olocausto.

EPILOGO DELL’UOMO BANALE
Nell’aprile del 1961 inizia il processo: i media di tutto il mondo lo seguono, attenti. Non c’è più l’omertà di una volta, si vuole sapere, al di là dei mezzi con cui si è trovato e preso questo misterioso uomo accusato di crimini contro l’umanità.

È partecipando a queste giornate in tribunale, che l’inviata Hannah Arendt conia la celebre espressione qui così tanto citata : la banalità del male.

Ché è scoraggiante vedere faccia a faccia lui, che ha avuto un peso così drammatico su infinite sorti, ed è qui, con l’aria innocua e vacua, misero e minuscolo dentro e fuori.

La sua difesa è senza personalità e coraggio: nicchia, si dipinge come un uomo da ufficio, senza tutto quel potere che gli viene attribuito, un uomo da nulla che si è trovato in un ingranaggio difficile...non si intravede pentimento o altro, solo un insieme di formule stereotipate e spente.

Ha solo eseguito gli ordini.

Il verdetto, in quel di Gerusalemme, è ovvio: pena di morte.
Da tutto il mondo arrivano telegrammi perché si salvi la sua vita: questa è una vendetta, dicono.
Che lo sia o no, è un’esistenza contro quella di milioni di individui, suona la risposta.
Niente grazia.
Il 31 maggio 1962 viene impiccato nel carcere di Ramla, cremato, le sue ceneri sparse al vento – di lui non resta niente.

L’ATTIMO

La cena sarebbe stata squisita.

Se non avesse dovuto e ancora non dovesse ascoltare le pavoneggianti analisi di questo svedese così caparbio.

Non è in grado di contrastare le sue parole, di contestarle, può solo rispondere in maniera ovvia e tacere: loro due hanno scopi opposti, e non gli va a genio per nulla, questo diplomatico di famiglia più che distinta, affabulatore e non facile da fermare.

Gli sta creando guai, è questa la verità.

“Ha ragione, Herr Wallenberg. Ma questo sistema che lei tanto deplora, il nazismo, mi ha dato un potere notevole, e non posso che essergli grato. Certo, so che tanta gloria non durerà a lungo... ma, in ogni caso, io farò del mio meglio, per fermarla. Gli incidenti capitano. Anche al legato di un Paese neutrale”.
Un incontro difficile da credere, il loro.

Il giovane Raoul non pare impressionato, lascia che Eichmann più o meno velatamente minacci: lui ha un fine, da perseguire.

L’uomo banale si alza, saluta con deferenza.

Qualunque fosse il perché di questo invito, non ha avuto senso: uno dei due deve soccombere.

E non sarà certo lui, il burocrate perfetto.

Anche se, alla fine, senza saperlo, si perderà nel vento.
RAOUL WALLENBERG: IL GIUSTO SENZA GIUSTIZIA

L’ATTIMO
Sa essere intrigante, se gli serve per salvare qualche vita umana.

Può tranquillamente starsene allo stesso tavolo di Eichmann, e conversare con lui, tra una portata e l’altra.

È un uomo inconsistente, quel nazista, ma sta ben saldo nella propria posizione e quindi bisogna saperci discutere.

“Che ci fai con certa gente?” – gli chiedono –

“Sono un diplomatico. Le provo tutte. Fino alla fine”.

Nessuno si sarebbe atteso una scelta così complessa e rischiosa: in fondo, è un figlio viziato dell’ alta società. Poteva trovarsi posizioni ben più comode.

E invece è venuto qui, bene al centro del caos, e adesso non riesce più a smettere di fare ciò che fa.

Non gli interessa essere un eroe.

Semplicemente, ha visto quanto sta accadendo e non gli viene da comportarsi diversamente.

Cammina nel freddo delle strade ungheresi, di notte, dopo questa cena inutile.

Un cappello nasconde la sua precoce calvizie: è ancora così giovane, e il suo universo si è trasformato totalmente in pochissimo tempo.

Si chiedeva cosa mai avrebbe realizzato nella propria vita.

Raoul Wallenberg finalmente lo sa.
PROLOGO DI UN AUDACE SVEDESE
In politica, in diplomazia, ma soprattutto nel denaro.

I Wallenberg sono potentissimi, in Svezia.

Sono i banchieri più importanti, sono conosciuti, prestigiosi – e suo padre è cugino dei due più noti rappresentanti del clan, se così si può dire.

Che di suo padre, poi, si è dovuto accontentare dei racconti perché, purtroppo, è morto prima che lui nascesse, anche se era tanto giovane.

Quando Raoul Oscar nasce vicino a Stoccolma, il 4 agosto del 1912, sua madre è già vedova (e adora il suo piccolo).

Ma, ancora nel pieno degli anni, quando il figlio è ancora bambino si risposa , determinando nel suo primogenito una sorta di tristezza, o meglio, un’introversione precedentemente sconosciuta.
Ma sa andare d’accordo con gli altri, Raoul, e inoltre è Gustav, il nonno paterno, il perno della sua vita.
Gustav che tenta subito di indirizzare il nipote verso l’eccellenza, affinché sia degno del proprio cognome e si realizzi anche più degli altri.
In effetti non ha problemi nello studio, anche se è un ragazzino un pò supponente, già convinto che avrebbe raggiunto chissà che fama e successo.
Viziato, ecco.
Ma capita, se sei un rampollo dei Wallenberg – per essere degni del proprio Fato, si va a studiare in giro per il mondo, Europa e America.
Ma quando si tratta di scegliere la materia su cui concentrarsi, non si indirizza all’economia, ma all’architettura.
Nel mentre svolge anche dei lavori, come se dovesse mantenersi e pagarsi i libri.
Soprattutto, non smette d’esserci il controllo affettuoso ma costante di Gustav.

Una volta laureato nel 1935, non sembra trovare la propria strada.

Forse gli sorge il dubbio d’essere uno di quegli eredi secondari che possono vivere senza faticare, ma senza grandi talenti.

È un periodo di incertezze, dove nulla si prospetta per i propri meriti, la propria bravura : certo, è abilissimo nelle lingue, parla magnificamente sia il tedesco che l’inglese e anche il francese.

Ma arriva un momento in cui c’è da ritagliarsi una via che ci appartenga, e lui invece viene sempre guidato dall’alto, dal nonno.

Che lo manda in Palestina e in Sud Africa a far pratica da banchiere, ma al ritorno tutto è come prima.

Non sembra che i gloriosi zii lo abbiano in particolarmente simpatia.
L’impressione che dà, probabilmente, è quella di un uomo appena fatto, ricco e con le intenzioni confuse.
Insomma, lo si impiega in una società di import-export, e in questo gesto si decide, senza saperlo, il suo futuro.
Serendipità commovente.

A capo dell’attività in cui è coinvolto c’è un emigrato ungherese, Koloman Lauer, che, essendo ebreo, non può spostarsi liberamente per l’Europa.

Quindi, quando si tratta di viaggiare, ci pensa Raoul.

E deve fargli un’ottima impressione, perché quando c’è da fare un nome per trovare un ‘salvatore’ da inviare in Ungheria, fa il suo – mister Wallenberg.

Il tutto nasce perché Lauer è in contatto con un rappresentante del War Refugee Board, e quindi quando gli viene chiesto se conoscesse qualcuno di adatto da inviare ‘là’, che fosse ‘creativo’ e coraggioso e abile, lui ha in mente il suo socio.

Non ci sono linee guida: si salvino queste povere anime.

Il come, è a discrezione personale.
Si potrebbe discutere ore, del perché un ragazzo baciato dalla sorte, con ogni mezzo e fortuna, figlio di un Paese neutrale, si metta in pericolo, esponendosi a rischi enormi.

Raoul vuole scoprirsi, mettersi alla prova al di fuori dell’ombra familiare.

Ha un forte senso etico, ed evidentemente ben altre risorse rispetto a quelle che appaiono a prima vista.

Non è solo uno scanzonato e brillante frequentatore di feste e bella società.

E poi è così bravo, con le lingue.

In ogni caso, qualunque siano gli elementi posti sulla bilancia di questa scelta, il 9 luglio 1944 Wallenberg è un diplomatico, il primo segretario della legazione svedese a Budapest.
Ha intravisto la sua strada.

Peccato sia più che impervia.

Raoul è chiaro da subito: ha già molta libertà d’azione, ma vuole ‘carta bianca’.

Nessuno deve intralciare i suoi piani, non deve star lì a chiedere il permesso per ogni respiro.

Se ogni istante è prezioso, ha da sbrigarsi senza attendere ogni volta il consenso altrui.

L’incontro con il collega Per Anger avviene subito.

Sono più o meno coetanei, e fra i due si instaura immediatamente un’intensa amicizia fortificata dalla continua collaborazione.

I passaporti sono già in uso, per salvare gli ebrei, famiglie che hanno qualche rapporto di parentela con cittadini svedesi.

Non è semplice rendere validi questi pass, ci si appiglia all’aria, se è necessario.

E finora sono solo poche centinaia, ad averlo – unica consolazione : dà il permesso di non indossare la stella di David.

È una buona idea, ma serve di più.
Con l’arrivo dei tedeschi, a comandare e sovrintendere adesso sono le Croci Frecciate, il partito ungherese filonazista e antisemita che può spadroneggiare senza sosta accanto all’invasore.

Con i soldi americani, Wallenberg acquista molteplici edifici, che spaccia per istituti di ricerca svedesi, biblioteche svedesi e quanto altro: è quello ‘svedese’, a renderli luoghi protetti.

Non vi riguardano, sono nostri. Se sei qui dentro, sei al sicuro.

E poi ci sono i contatti, le persone da incontrare: il rabbino Samu Stern e, soprattutto, Carl Lutz.

Lutz è un diplomatico svizzero nato nel 1895 (e morto nel 1975) e quando arriva in Ungheria si impegna per proteggere quante più esistenze riesce: dà lettere di protezione agli ebrei che stanno per emigrare in Palestina.

Il suo operato rimarrà a lungo ignoto, ma nel 1965 lo Yad Vashem lo dichiarerà Giusto fra le Nazioni (assieme alla moglie).

Immaginarseli, assieme, attorno a una scrivania: Wallenberg, col suo viso delicato e pallido, e Lutz, coi suoi occhialini tondi sotto le sopracciglia folte.

Vicini, a consultare carte e pensare, pensare in maniera disperata.

Valzer della Storia, grandi uomini che si incrociano.

Il frutto di tanto cogitare è giallo e blu, con le tre corone svedesi sopra, la firma del Ministro.

Fa la sua scena, insomma.

Ed è speciale: è un’idea di Wallnberg ed è un passaporto di protezione (Schutz-passe).

Vuol dire che si rilascia a chiunque abbia conoscenti o parenti o lavori in sospeso in Svezia.

Vuol dire che chi lo ha presto ci andrà, in Svezia.

Ma, nel mentre che la burocrazia fa il suo corso, nel mentre che si raccolgono tutti gli incartamenti necessari, i diretti interessati sono protetti.
Ha un che di geniale, si osa molto.
Non suona molto credibile, onestamente, ma c’è una tale confusione, là fuori, che per un pò può funzionare – e non è il caso di inimicarsi Paesi neutrali.

I passaporti vengono stampati: mille e poi altri mille e poi altri mille e così via.

Non bisogna svalutarlo, c’è da stare attenti, ma il compito è salvare quanti più esseri umani possibile.

Per un mestiere del genere serve organizzazione, serve un ufficio apposito, e allora lo si crea, e ci si mette, all’interno, ebrei.

Non va per il sottile, Wallenberg.

Per un certo periodo le deportazioni sono fermate, ma non ci si illude: con Eichmann a comandare tutto, si riprende presto – con una situazione sempre più complicata.

Quando gli ebrei non sono autorizzati a uscire di casa, Raoul sale sulla propria automobile e va a distribuire il suo lasciapassare per la sopravvivenza.

Peccato che, con un drastico cambio di governo il ricercatissimo documento venga dichiarato non valido.

Il legato svedese non si fa prendere dall’ansia: così come in passato è andato in una sinagoga occupata a prendersi i suoi ‘protetti’ che stavano per essere portati via, allo stesso modo, da bravo personaggio d’alta società, sa chi cercare e chi contattare.

E c’è Elisabeth, la giovane moglie del Ministro degli Esteri: è un affabulatore, Raoul.

Sa le parole come si usano, il loro peso, il loro effetto.

È un bel gesto, che potrà tornare buono in futuro, aiutare gli ebrei, riconsegnare a quel bell’oro e blu il corretto valore – così dice – potrebbe servire, far sapere che il proprio consorte non è un assassino di massa.

La donna acconsente, sa influenzare – ogni cosa al proprio posto.

E poi c’è la guerra più pratica, quella di tutti i giorni: andare dove si arrestano gli ebrei, quotidianamente, a portarsene via quanti più si riesce.

Mai abbastanza eppure tantissimi.

Chi salva una vita salva l’umanità.
Quando i bombardamenti alleati distruggono i binari che devono trasportare ai campi, Eichmann non si preoccupa: che i ‘giudei’ marcino per duecento chilometri, fino alla stazione adatta per partire.

Wallenberg salta in automobile con Anger, segue la scia di povere creature (ne moriranno a migliaia), dà cibo e passaporti, ormai senza tregua.

Arriva al capolinea (Hegyeshalom, sul confine fra Austria, Slovacchia e Ungheria), si avvicina ai treni, gli puntano addosso i fucili, ma non si ferma: ad alta voce chiama i classici nomi ebraici, a caso, chiede chi sia protetto dalla Svezia, e offre la carta alle mani che spuntano dai vagoni ormai chiusi.

Sparano in aria, i nazisti lì: che la smetta, ma lui niente, va avanti.

Ogni notte dorme in un luogo diverso: per Eichmann sarebbe delizioso, che gli accadesse un incidente – e gliel’ha detto, che capitano anche ai diplomatici ‘neutrali’.

Nel frattempo si è trasferito a Pest, meno aristocratica e soprattutto meno sicura di Buda : sta vicino ai ‘suoi’ ebrei.

I sovietici si avvicinano, si iniziano i programmi per la fuga.

Malgrado il continuo ondeggiare tra la validità dei passaporti e una revoca della stessa non si sia mai effettivamente interrotto, finora si è stati in grado di trarre in salvo decine di migliaia di persone.

Ormai i suoi volenterosi e prodi colleghi stanno giustamente preparandosi a un ritorno e si mettono in salvo.

Malgrado le raccomandazioni di Anger, lui resta e continua, quasi come un clandestino.
Quando nel gennaio del 1945 viene trovato dai primi russi è nei sotterranei di un edificio della Croce Rossa.
Spiega di essere un diplomatico svedese, ma, per esserne certi, c’è da far intervenire il NKVD .
Viene interrogato per giorni, nel mentre che, in prossimità della fuga, si decide di ‘evacuare’ il ghetto centrale.
Sarà proprio un collaboratore di Wallenberg, a far presente che non far rispettare i passaporti significa rischiare gravi incriminazioni seguenti.
Le stesse frasi che usava Raoul.
Il solo avere il suo nome in bocca frena un’azione che avrebbe sterminato decine di migliaia di individui.

Non si trovano credibili i suoi racconti: ebrei salvati e quanto altro suona senza senso.

Raoul aveva scritto alla madre che forse sarebbe restato via molto, nell’ultima lettera – premonizioni.

Il suo ultimo viaggio da libero è, col suo autista, verso il quartier generale del capo militare Malinovsky: “Non so se come ospite o prigioniero”, ha detto.

EPILOGO DI UN GIUSTO CHE NON HA AVUTO GIUSTIZIA
Che ne è stato di Raoul?

Viene portato a Mosca, presso l’ NKVD, messo in prigione: è una spia degli americani?, dei tedeschi?

E poi è membro di quella famiglia di banchieri potentissimi, anche se farnetica di gente salvata.

Non si fidano, i sovietici.

Mai.

Viene trasferito in una vera e propria galera, dove comunica con altri esponenti diplomatici con precisi colpi sul muro.
Sempre interrogatori.
Allora: spia americana (lavorava per il Comitato dei Rifugiati di Guerra, che è statunitense)?, tedesca (partecipava a feste e numerosi incontri, coi nazisti)?
Quando si trattava di portare al sicuro, Raoul era disposto a tutto : anche a rilasciare, in maniera non ortodossa, qualche documento a dei nazisti ‘pentiti’ e pronti a correre lontano. Un tedesco esaltato per avere in cambio i suoi ebrei.
Adesso, tutto ciò gli si ritorce contro.

Passano due anni, sempre in cella, tranne per venti minuti al giorno.

Il suo Paese non agisce con abbastanza forza, a lui non è concesso di contattare nessuno.

Queste le ultime certezze.
Da qui in poi, solo ipotesi.
Non deve essere morto in quel posto.

Più probabile che lo abbiano trasferito da un campo di lavoro all’altro.

Ci sono testimonianze di un suo ‘soggiorno’ in un ospedale psichiatrico, e tenui prove che fosse ancora vivo tre decenni dopo la fine della guerra, malgrado i documenti inviati dalla Russia sostengano che sia morto di infarto nel 1947.

Ma se la Svezia è lenta i Wallenberg si muovono, sollevano il caso, anche troppo, per i gusti russi.

Intanto è iniziata la così detta Guerra Fredda , meglio negare di avere un diplomatico svedese in gattabuia da infinito tempo – Raoul è scomodo.

Di lui, non si saprà più nulla.

Le sue nipoti ancora combattono per cercare la verità, quella con la “V” maiuscola – le organizzazioni a suo nome, la fondazione, ogni organo nato in sua memoria persiste nell’inseguire ciò che mai è stato detto.

E ciò che sovente si scorda è che, a condividere una sorte probabilmente simile c’è anche il fedele Vilmos Langfelder, l’autista con lui prelevato e a sua volta smarrito nei labirinti di Stalin.

Nel 1966 lo Yad Vashem lo proclama Giusto fra le Nazioni.

Diviene cittadino onorario di Israele, Canada, Stati Uniti e di Budapest, un suo monumento a Manhattan, dove sono le Nazioni Unite e infinito altro.

A Budapest un salice d’argento – il salice piange, per definizione.

Molto gli viene intitolato, ma non sarà mai abbastanza.

Un uomo salva centomila vite – davvero, un’umanità.

E sparisce nel nulla.

Si è fatto abbastanza?, tutto ciò che si poteva?

Aveva da poco superato la trentina – aveva ogni cosa, ed è scomparso.

Come fosse nulla o nebbia.

Ma era il Giusto che giustizia non ha avuto.

Era Raoul Wallenberg.

L’ATTIMO
Gli piace questo giovane, quasi suo coetaneo.

L’ha trovato subito qui, con la sua faccia di bravo ragazzo impegnato.

“Passaporti, sì...che ne dici, Raoul?”

”Ottima iniziativa, ma non è abbastanza”

”Lo so, ma è un inizio”.

Anger ha modi cauti e contenuti – il contrario di Wallenberg.

È contento: c’era bisogno di una mano, e questo pare svelto di testa.

Chissà che ci viene a fare, qui, uno che viene da una famiglia del genere.

“Allora, Per: iniziamo?”

(parte 2 segue a giorni)

Nessun commento:

Posta un commento