L’esperienza di lavoro in carcere come
Tutor è stata, per l’autrice, una delle più significative della sua vita,
soprattutto per gli incontri che ha avuto l’occasione di fare, per la
particolarità del
luogo in cui si è
trovata ad operare e per la condizione delle persone con cui è entrata in
contatto.
In questo scritto viene mostrato un mondo
che spesso non si vuole conoscere:quello di chi è recluso, raccontando
comportamenti e necessità quotidiane simili a
quelle di tutti.
Un intreccio di storie e di testimonianze
umane, ricche di vissuti differenti, con privazioni e sofferenze aggravate
spesso dalla consapevolezza di aver trasgredito le regole sociali.
Una proposta formativa che ha coinvolto il
gruppo di allievi che vi hanno preso parte motivandoli a migliorarsi e a
scoprire i propri talenti: un’esperienza sorprendente ed emotivamente densa.
Intervista
a Giovanna Rotondo, autrice di QUANDO LAVORARE È BELLO. Lettere dal carcere,
pubblicato dalla Casa Editrice “La Vita Felice” Milano.
Giovanna,
una domanda che viene spontanea, perché un titolo così?
Sì,
penso che siano in molti a chiederselo, perché è stata una bella esperienza e
non solo dal punto di vista lavorativo. Il lavoro era creativo e non annoiava,
e questo è stato importante. Ma,
soprattutto, si era formato un buon gruppo, si lavorava bene insieme con grande intesa e assoluto rispetto dei
ruoli. E non sempre capita.
Come
mai un’esperienza di lavoro è stata
considerata così importante?
Questo
libro parla di un’ esperienza vissuta in un luogo che non fa parte del vissuto
quotidiano: il carcere. Di solito si pensa al carcere e a
chi vi è rinchiuso come a un’entità astratta, a individui diversi,
ma non è così. Là dentro s’incontrano persone come quelle che si trovano nella
vita di tutti i giorni al lavoro, al bar, in famiglia o in vacanza. Con gli
stessi difetti e le stesse qualità: intelligenti, stupidi, buoni, cattivi, più o meno lazzaroni e più o
meno onesti e, non di rado, vittime di circostanze avverse. Solo che non ci si
pensa, almeno finché non si viene a
contatto con una realtà di quel tipo. E
si rimane sorpresi, com’è accaduto a me, quando mi sono trovata a lavorare con
persone detenute, assolutamente simili, almeno nel comportamento, ad altri gruppi
di lavoro con cui mi ero trovata a lavorare in occasioni e circostanze
considerate normali.
Che
mansioni avevi?
Ero
Tutor in un corso di Legatoria e Cartotecnica. Un corso professionale che
rilasciava una qualifica per il lavoro e che copriva l’intero anno
scolastico e tutto l’arco della giornata, fino a metà pomeriggio. Oltre a
sistemare e rilegare libri, si decoravano le carte per l’oggettistica e la
rilegatura e si creavano oggetti di vario tipo: cornici, monili, sculture:
molto creativo. Bravi i docenti e bravi gli allievi. Devo dire che è stata
una bella esperienza per tutti sia allievi che docenti.
Hai
avuto momenti problematici o conflittuali?
Molti.
Soprattutto a causa della burocrazia del luogo e della sua rigidità. Inoltre,
avere una classe eterogenea sia per età sia per retroterra culturale ha richiesto tutto l’impegno
possibile. Ma ben presto ha prevalso il desiderio di imparare e migliorare e
questo ha unito tutto il gruppo, giovani e meno giovani, e il lavoro è
diventato bello.
Come
ti è sembrata la vita delle persone in carcere?
Ti
rispondo con le parole di Silvana Ceruti, che ha scritto la prefazione di
questo libro: “Il carcere è brutto, è per definizione divisione. E quello che
separa non è bene. D’altra parte bisogna tutelare l’esigenza di difesa da parte
delle persone che hanno ricevuto gravi offese. Il carcere dunque è un mezzo di
difesa. Ma di difesa allontanando l’altro…”
E
una persona a cui viene tolta la libertà ed è separata dagli altri è difficile che
possa crescere e rimediare al danno e alle offese che ha causato.
Non
bisogna essere esperti, penso, per poter
dire che il carcere, così com’è concepito non è funzionale al recupero delle
persone che sono detenute, e non aiuta il loro reinserimento sociale. E ci sono
tante storie di disagio nelle carceri!
Vuoi
dirmi due parole sulla prefazione?
Volentieri!
Come ho già detto, la prefazione è stata scritta da Silvana Ceruti, insegnante
e scrittrice. Silvana Ceruti ha dedicato parte della sua vita al carcere e alle
sue problematiche; il Comune di Milano le ha conferito l’Ambrogino d’Oro per il
suo impegno.
E
la sua bellissima e appassionata prefazione è diventata parte integrante del
libro.
Non
sei alla tua prima pubblicazione, vero?
Sempre
con la Casa Editrice “La Vita Felice” di Milano ho pubblicato “Non è colpa di
Pandora La zona d’ombra delle dipendenze”, dicembre
2014; "Omaggio a Orlando Sora
Artista del Novecento”, dicembre 2015. Libri che
sono stati recensiti su questa rivista. Grazie
sognaparole.blogspot.it!
Prossimi
progetti?
Un
romanzo, se la mia affollata quotidianità mi darà il tempo di scriverlo.
A
questo punto, noi di sognaparole, vogliamo riportare per intero la preziosa prefazione
di Silvana Ceruti:
Si legge con passione questo libro che – diviso in
snelli capitoli di una o due pagine, con un linguaggio semplice quanto preciso
ed efficace – racconta l’esperienza umana di Giovanna Rotondo che entra in un
carcere, per la prima volta, come Tutor di un corso. La scrittrice ci offre i
suoi pensieri, le sue sensazioni, i desideri e le consapevolezze che a mano a
mano emergono in lei, che trovano spazio nel lettore e nelle quali ci si può
facilmente rispecchiare. Durante lo svolgimento del corso Giovanna ci fa
conoscere alcune persone detenute e, nella seconda parte del libro, ci
presenta, attraverso lettere ricevute e inoltrate, le persone recluse che, non
stupisca, sono ormai divenute amiche sue e degli altri docenti.
La persona detenuta viene spessa immaginata come
“altro”, totalmente diversa da noi che siamo “fuori”, ma bene scrive Giovanna
nella sua introduzione: «in un luogo di pena come un carcere
si incontrano esattamente le stesse persone con cui ci confrontiamo ogni giorno
nel nostro lavoro, nei viaggi, in famiglia. Qui [...] si trovano persone
intelligenti, stupide, creative, più o meno oneste di altre e via dicendo» (p.
13). Anche qui, dunque, è possibile stringere vere amicizie, a patto di essere
capaci di abbandonare i pregiudizi, essere realmente aperti alla scoperta
dell’altro, avere empatia.
Ed è capacità empatica quella che
fa scrivere a Giovanna:«Vorrei portare (nel carcere) dei
fiori come il calicanto, l’unico che ha un profumo intenso in questa stagione,
o i colori del bosco o del cielo al tramonto: qualsiasi cosa che parli di
natura» (p. 22). Giovanna sente come la bellezza, che la natura offre a tutti
gratuitamente e che a lei è così cara, può essere una porta che riconcilia
l’uomo con se stesso e con gli altri e vorrebbe poterla offrire a queste
persone recluse alle quali sono negati gli elementi, anche i più semplici,
della natura. Poche pagine prima aveva scritto ancora di questa sensazione
ricorrente provata nelle mattine in cui si avvicinava al carcere: «Ho sempre rimpianto, soprattutto nelle belle giornate,
di perdere quel contatto prezioso che è il rapporto con la natura e, in un luogo
come questo, dove il legame tra uomo e ambiente si è perso, l’avverto
profondamente » (p. 19). E questo rimpianto, pensa Giovanna, devono averlo
anche le persone recluse. Molto più avanti nel libro, nel giornalino voluto
dagli insegnanti e dai corsisti, compare una poesia di un detenuto anonimo,
probabilmente trasferito dal carcere di Monza ad altro Istituto penitenziario: «Fuori dalla finestra/in lontananza/ una striscia blu/
si confondeva/ con il cielo,/ il mare!/ [...]/ aveva dimenticato/ che esistesse
il mare./[...]/ La sua cella non era/ poi così male/ se poteva vedere il
mare...» (p. 99).
Giovanna guarda le persone detenute alle quali deve
fare da Tutor nel laboratorio di Legatoria con occhio attento e delicato:«Il saluto del mattino è un rito importante» (p. 23) si
accorge e scrive «ognuno dice qualcosa o fa un cenno,
anche solo un mezzo sorriso per dire che c’è» (p. 23). E anche lei dice ogni
mattino qualcosa a ognuno per fargli sentire che si è accorta che... c’è! Così
anche «Durante la giornata cerco di
scambiare due parole con tutti» (p. 24) poiché essere ignorati è
sicuramente la pena più grande, che si può infliggere a qualcuno. Si pensi al
bambino “monello” che a scuola fa di tutto per essere notato, per dire alla
maestra: “io ci sono”. Giovanna parla volentieri con tutti ma, scrive: «non chiedo mai le
ragioni per cui uno si trova lì» (p. 24) e questo è un importante segno del
rispetto dell’altro:la mancanza della curiosità, sempre un po’
morbosa, che apre la porta al giudizio. Soprattutto in un carcere è importante
guardare all’altro nel suo presente, non fissarlo nelle sue azioni passate.
Poi è importante, forse ancora più della disponibilità a parlare, la capacità di ascoltare. Tutte
le persone hanno certamente un gran bisogno di essere ascoltate, ma in un
carcere il groviglio di sensazioni trattenute – sensi di colpa, rabbia,
delusioni – può portare a soffocare una persona; alle volte l’aiuto richiesto
non è quello di trovare la soluzione a un problema, altre la richiesta
è solo quella di essere ascoltati.
«A volte basta poco per aiutare qualcuno a superare un
momento di solitudine» (p. 27) annota Giovanna, a volte basta saper ascoltare,
offrire uno spazio di accoglienza.
Enrico, persona detenuta, in una lettera scrive a
Giovanna, rivolgendosi anche a tutti i docenti che ha incontrato nel corso di
Legatoria: «nel mio lungo inverno mi avete dato
calore. [...]Siete per me persone indimenticabili. La vostra umiltà di gente normale mi ha affascinato e sorpreso. Siete
stati belli, tristi, malinconici, felici, siete stati semplicemente
straordinari in tutto»(p. 80). Sì, sono stati straordinari Giovanna e gli altri
docenti, perché hanno saputo offrirsi con
naturalezza, senza maschere di ruolo, così pur nelle loro precise funzioni di
insegnanti, di tutor, di esperti, si sono offerti prima di tutto come persone
che si rapportano ad altre persone. Ed Enrico è “sorpreso”, come scrive.
Forse si può far del male agli altri solo quando non si
riconosce negli altri un altro se stesso. E scoprire negli altri una persona,
un altro se stesso, può sorprendere... In una lettera successiva, poche pagine
più avanti, sempre Enrico scrive: «da voi sono
riuscito a capire il senso della normalità e come si può
vivere bene con gli altri sentendosi partecipi di qualcosa» (p. 84). Ci si può
domandare allora se la vera medicina per persone che hanno rotto il patto
sociale sia il carcere che separa, con le sue mura, o non piuttosto delle
attività che mettano in relazione, che
facciano sentire “partecipi” di una comunità, di un progetto,
come questo che ci è raccontato da Giovanna.
In un’altra lettera, un’altra persona detenuta, Luca,
scrive al professore di Legatoria: «non ho mai ricevuto
tante attenzioni da persone come te» (p. 71) e William «sento che non stai
molto bene e questo mi addolora» (p. 74) e poco più avanti «conosco un professore [...] ti farà star meglio» (p. 76): il riconoscimento di un aiuto
ricevuto, la partecipazione a un dolore e il desiderio
di dare aiuto: la nascita della relazione.
Penso che ciò che salva sia, in tutti i casi, solo
l’incontro con altre persone. E questo è tanto più vero in un carcere: a
“salvare” è l’incontro con persone, persone che abbiano altri valori di quelli
sperimentati e messi in atto nella propria devianza.
Valori magari mai incontrati prima da queste persone
che certamente hanno sbagliato, ma che dimostrano di poter cambiare, se
soltanto qualcuno dice loro, come Giovanna nella lettera a Matteo: «mi ricorderò sempre di te: una bella persona dotata di
molto talento» (p. 85). Penso che solo se qualcuno crede in te, si abbia la forza di crescere. Di questa
consapevolezza sono pieni Giovanna e tutti gli insegnanti di questa esperienza
di corsi nel carcere di Monza, anche quelli della Sezione Sperimentale che nel
primo giornalino che pubblicano scrivono una frase di una bella poesia di
Danilo Dolci: «Ciascuno cresce solo se
sognato» (p. 35).
Purtroppo non pare dello stesso parere una delle
vicedirettrici del carcere quando consiglia Giovanna, che esprime la sua
soddisfazione per il lavoro e l’affiatamento che c’è in Legatoria, di non farsi
illusioni perché «criminali sono e criminali
rimangono» (p. 37). Chissà se questa vicedirettrice conosce
almeno
il motto della polizia penitenziaria: «Despondere spem munus nostrum» (“garantire la speranza
è il nostro compito”) che appare ben scritto alla base dello stemma del Corpo
di polizia!
«Il gruppo era bravo, compatto, stava insieme volentieri
e alcuni di loro lavoravano con vero piacere [...] stava nascendo la speranza
di una vita migliore» (p. 41) annota Giovanna, ma ecco a rompere questa felice
situazione il trasferimento improvviso di tre partecipanti al gruppo. Poi
parlando del più giovane di loro prosegue: «Luca era l’allievo
più attento, ci seguiva molto.
Incominciava a fare progetti per il futuro, sul lavoro,
a credere in una nuova vita». E aggiunge: «Mi devono dare
delle motivazioni, se ce ne sono, per questi trasferimenti senza senso, pensavo
furiosa» (p. 41). Forse sono arrivate in carcere delle nuove persone, non
sapevano dove metterle e ne hanno spostate alcune, perché la burocrazia non
guarda in faccia nessuno. Ma è questo “non guardare in faccia
nessuno”, meglio questa cecità, la vera giustizia?
Concludendo vorrei dire qualcosa del titolo scelto per
questo libro: Quando lavorare è bello. Perché il lavoro sia
bello, ci dice questa esperienza, deve essere insegnato con professionalità e coinvolgimento da parte dell’esperto, svolto in
cooperazione tra tutti i lavoratori, cioè con attenzione alla persona che
lavora e al suo benessere relazionale, ancora meglio se il lavoro proposto è un
lavoro creativo e sviluppa pensiero e gusto. Certamente un’attività ripetitiva e meccanica non appassiona e genera
disinteresse, semplicemente non educa, che è uno dei compiti che dovrebbe avere
il carcere. Naturalmente queste caratteristiche del lavoro sono valide
all’interno di un carcere così come fuori
dalle mura, ma in un carcere ci vuole forse ancora più
attenzione a questi connotati del lavoro perché si devono
correggere “cattivi vissuti” e proporne di nuovi.
Si potrebbe scrivere ancora molto degli insegnamenti di
questo prezioso libro, solo all’apparenza semplice resoconto di un’esperienza.
Ho tentato di mettere in evidenza, con alcuni esempi,
come,tra le righe, si possono trovare molti spunti di riflessione, come viene
offerto, senza pedanteria, ma con la levità di un racconto, un
metodo efficace per accostarsi alla grande sofferenza che vivono le persone
detenute, sofferenza colpevole se si vuole, ma pur sempre sofferenza. Il metodo
dunque, nato da un’esperienza professionale, o forse trovato per istinto e sensibilità da Giovanna Rotondo, ha dato risultati ben oltre
l’apprendimento di una tecnica di legatoria: un incremento di umanità, a beneficio del
singolo e della società.
Silvana Ceruti
Ora, ci aspettiamo che i nostri
lettori possano leggere le pagine di Giovanna!
Giovanna
Rotondo vive in prossimità della parte
lecchese del lago di Como. Ha
compiuto studi linguistici e partecipato a numerosi corsi sulla linguistica e la
didattica.
Ha
insegnato all’Istituto di Formazione Professionale Luigi Clerici e ha
coordinato
corsi
di formazione presso la Sezione maschile del Carcere di Monza, svolgendo
mansioni
di Tutor.
Ha
vissuto per anni in Inghilterra e negli USA, dove ha insegnato Italiano e
Cultura
italiana
al Cromwell Institute di Washington D.C. e lavorato come traduttrice
presso la Berlitz School of Languages.
Ama
la pittura e ama scrivere.
Ha
pubblicato Non è colpa di Pandora. La zona d’ombra delle dipendenze (La
Vita
Felice, 2014); Orlando Sora. Artista del Novecento (La Vita Felice, 2015).
Cura,
su internet, il blog: “Scritti di Giovanna Rotondo”.
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