di Alessia Ghisi Migliari
Aubrey Beardley (foto dal web) |
Il suo nome dice poco, ai più – ma basta una sua illustrazione, ché i suoi disegni hanno influenzato l’arte tutta e hanno accompagnato grandi opere altrui (al punto che pochi si ricordano che fu anche scrittore).
Un tocco moderno di china e inchiostro, spesso irriverente, sovente con tematiche erotiche e mitologiche – un rappresentante celebre e scomodo dell’Art Nouveau, con una vita breve e difficile e un senso dell’ironia e dello scandalo che bene rispecchiavano l’estetismo del tempo, pur con dei tratti unici.
Fu lui stesso a dire di sé, con estrema e scarna lucidità: “Ho uno scopo: il grottesco. Se non sono grottesco, non sono niente”.
Brighton nella seconda metà dell’Ottocento era un delizioso centro marino in cui la buona società andava a respirare aria buona, a fare qualche bagno per rimettersi in sesto, a passaggiare chiaccherando nella zona del Palace Pier, un parco di divertimenti e svago che quasi cade in mare.
E’ qui che nasce, nel 1872 Aubrey Beardsley, che quasi non si riesce a pronunciare – in una famiglia dove il talento pareva essere di casa, così come una certa precarietà economica, che li accompagnò in alcuni periodi (di fatto si trattava di gente che faceva parte della middle e upper class).
Cresciuto ascoltando le lezioni di piano della madre, legatissimo alla sorellina Mabel, che sarebbe poi diventata attrice e con cui ebbe un rapporto ambiguo, Aubrey iniziò ad avere problemi di salute ad appena nove anni: la tubercolosi non le avrebbe mai più abbandonato, lasciandolo per intere stagioni invalido.
Ma anche la carissima mamma fu malata a lungo: questo la obbligò a mandare il figlio da una zia e a separarsene – la scuola non lo appassionava, pur essendo proprio sui giornali lì prodotti che pubblicò i suoi primi lavori (ad esempio, il poema The valiant nel 1885). Contemporaneamente, iniziò le sue dissacranti caricature, le sue prime composizioni, sempre di china, nero e bianco, lussuriose, ingiuriose, cupe ma ipnotiche e decadenti. Il suo sarcasmo, il suo tratto deciso e schietto fecere di lui stesso una sorta di personaggio teatrale: anche nelle fotografie, col suo naso enorme in un corpo emaciato, con la sua frangetta, ha un che di sfacciato e forse ridicolo.
Nel vero, i suoi polmoni deboli e la frustrazione di dover sopravvivere facendo l’impiegato per una compagnia assicurativa, rendevano la sua vita insoddisfatta. Ecco perchè iniziò a frequentare gli artisti dell’epoca, soprattutto quelli dell’ambiente di Oscar Wilde (che definì Beardsley “una faccia come un piatto d´argento e con capelli verdi come l´erba”) e i preraffaelliti, che influenzarono fortemente la sua visione artistica.
Partecipò a corsi serali di arte per supplire la mancanza di preparazione e nei primi anni Novanta del secolo ebbe il suo attimo di gloria: gli furono commissionate centinaia di illustrazioni, per riviste note
Illustrazione per Salomè, 1893 |
L’uscita di The Yellow Book, nel 1894, gli diede la reale notorietà: un giornale per giovani artisti dell’estetismo, in cui le parole e i disegni del ragazzo abbondavano. Considerato dall’epoca vittoriana indecente, l’associazione mentale che lo legava a Wilde gli fu fatale: quando il famosissimo Oscar fu portato in tribunale, anche gli amici del “suo stampo” subirono vessazioni – dunque l’illustratore si ritrovo senza posto e riuscì a risistemarsi solo grazie a un editore, Smithers, che si occupava per lo più di pornografia.
Nel suo curriculum, tra molto altro, anche un racconto erotico, Under the hill, disegni per storie su Pierrot e per novelle di Edgar Allan Poe.
Purtroppo la tubercolosi non aveva mai smesso di tormentarlo, ed era andata in crescendo: accanto a lui, sempre la madre, come infermiera, e la sorella – tutto inutile.
Aubrey, dal presente brevissimo e dal futuro promettente, muore ventiseienne e convertito al cattolicesimo, in Francia, nel 1898.
Spunto di riflessione questa attitudine del passato (così fece anche Wilde) di farsi cattolici in punto di morte: un tema coinvolgente, legato alla paura dell’al di là e della percezione di quella precisa religione, in alcune parti del mondo, come salvezza l’arcano e la forza dell’indottrinamento.
C’è un che di attualissimo nei suoi disegni: di essenziale, gotico e sensuale (una sensualità nera, inchiostrata, dinamica come doveva essere la forma dell’ Art Nouveau).
Appare, nelle illustrazioni, una tensione palpabile: pare di vedere il movimento, nel foglio tutto riempito, senza colore. I visi sono aguzzi, con espressioni impressionanti, i nudi sono realmente grotteschi, palesi, sconvolgenti per l’epoca.
C’è un senso di tragico, in Aubrey: sa che non vivrà a lungo, e per gran parte del tempo è fermato dal suo malanno.
Come spesso accade in queste situazioni, c’è la necessità di formarsi un’identità propria, profonda e ben visibile, per evitare di divenire semplicemente un “povero ragazzo malaticcio”: una sorta di sublimazione, sostenuta da un incessante bisogno di espressione e liberazione dai propri fantasmi interiori.
Per sorpassare lo stereotipo che si ha di lui come bimbo sempre allettato, ha da esagerare, imporsi, sottolineare.
Fu molto teatrale anche per il periodo, che teatrale lo era, in quegli ambienti.
La tubercolosi è iniziata troppo presto, per non influire sulla formazione della personalità: la percezione è legata a un rapporto difficile col mondo, un mondo oggettuale ostile e precluso.
Divenire caricatura, altro-da-sé (il sé non sano), sfruttando un dono, in risposta anche a un ingresso nel mondo insoddisfacente (la professione impiegatizia, non scelta bensì subita) diventa scappatoia da un destino segnato, una forma di evasione, forse di rimozione.
Grazie a compensazioni a situazioni tragiche abbiamo nella Storia nomi altrimenti perduti, anche se non famosissimi, come quello di Beardsley.
Persino il suo fortissimo ma unicissimo senso della famiglia è ancor oggi misterioso: affezionatissimo alla devota madre e innamorato della sorella Mabel – si dice che abbiano avuto assieme addirittura un figlio.
La famiglia come consolazione, come luogo generoso e non ostile, luogo di cura e sicurezza.
E arte come proiezione di rabbia e dolore e una consapevolezza non desiderata.
E non solo: sarebbe riduttivo fare di Beardsley il risultato di una reazione alla tragedia: interessante è scoprire l’ennesimo “genio” in un nucleo famigliare che ne ha già molti – dunque quale è mai il rapporto fra doti artistiche ed ereditarietà genetica e influenza dell’ambiente?
Malgrado i valori vittoriani fossero bene in auge e malgrado i problemi personali (o forse proprio per quelli, anche), Aubrey mostra una sessualità intensissima, una libido libera, che vuole mostrare, quasi costruire in faccia al prossimo (senza sapere se l’abbia poi davvero vissuta con così tanta… convinzione).
La sessualità è energia, esistere, affermazione e bellezza – ma anche una caricatura, qualcosa di crudele, talvolta ridicolo.
Crea e dissacra i propri stessi lavori, divenendo sfuggente: ha un senso dell’umorismo che è una versione nera e crudele di quella dell’amico Wilde, che fu addolorato di sapere della morte di un “fanciullo venuto meno all’età di un fiore”.
L’egocentrismo da figlio fragile, il conoscere il proprio valore di artista eppure il deriderlo nel momento in cui lo si offre alla piazza, segnano il desiderio di affermazione ma anche di distruzione: io-sono-guardatemi-bene-anche-se-in-fondo-è-tutto-quanto-poca-cosa.
Disegna compulsivamente – non c’è molto tempo.
Il voler essere riconosciuto come modo per sapere d’esserci, d’esserci davvero – d’esserci stato, almeno.
Aubrey Beardsley, considerato lascivo e volgare dai contemporanei, è invece l’esteta fecondo, il nero essenziale per non perdere il messaggio e il senso di un bello esagerato, calcato e ricalcato.
Aubrey è forse un grido magnifico, un’imposizione che non si può ignorare, una rivincita.
Ed è riuscito – bisogna dirglielo – a essere grottesco.
Perchè lui era così: o grottesco o nulla.
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