di Nivangio Siovara
Mi raccontò mio padre che la prima volta che emigrai fu quando venni espulso dai suoi lombi, e la prima volta che immigrai fu quando m’accolse il grembo di mia madre.Mio padre m’insegnò che se uno va, prima o poi da qualche parte arriva.
Non può dissolversi.
Eppure sono ormai molti anni che dal nostro villaggio le persone hanno
incominciato a sparire. Svaniscono così, senza lasciare traccia, da un momento
all’altro, talvolta. E non ritornano più.
Sei già partito una volta, sei già arrivato una volta, adesso stai, mi disse
mio padre. Se partono tutti non rimane più nessuno che possa andare a cercare
gli altri.
Infatti noi, i pochi rimasti, non ci siamo rassegnati al destino che inaridisce
questa nostra povera terra: ogni mattina andiamo in perlustrazione, ora dopo
ora scandagliamo il lungo e il largo. No, sia: di quelli, non ne abbiamo mai
ritrovato uno. Ma siamo consapevoli che per dare un senso al nostro presente e
una possibilità al nostro futuro, lo dobbiamo fare. È il nostro dovere.
Dimostriamo al cielo di sapere lottare ancora per riaverli in mezzo a noi, che
sono presenti ogni giorno, nella nostra vita, anche se non davanti ai nostri
occhi. Che il passato vive.
Nessuno più lavora i campi, nessuno che abbia più voglia di
danzare.
Solo il passato vive.
Al termine di ogni battuta, giunto il tramonto, ci
ritroviamo intorno al fuoco, al centro del villaggio. Lì riuniti ci scambiamo
il resoconto della nostra giornata, ci raccontiamo come si è svolta la ricerca
e quali frutti abbia dato. Ogni volta riusciamo a sorprenderci ancora,
ascoltando dalla bocca degli altri la notizia che è stato del tutto inutile
condurre i nostri occhi per il mondo.
Per non dire poi di quelle lunghe notti che passiamo lì seduti a capo chino,
silenziosi, dopo aver amaramente constatato che anche qualcuno fra quanti erano
partiti alla mattina, è venuto a mancare.
E nonostante questo sia infinitamente triste, la nostra vita
non è del tutto priva di bellezza. A volte, nel corso delle mie esplorazioni mi
fermo a riposare lungo i margini dell’impenetrabile foresta. Rimango a lungo a
osservare il capo dei fiori che ondeggiano al vento. I pollini si alzano in un
turbine tempestoso, violento, talvolta. Noto poi come molti di loro spesso
atterrino nell’oscurità della foresta. Quando torno, qualche giorno dopo,
magari, in quegli stessi punti sono sbocciati dei nuovi fiori, uguali ai primi.
È come andare e contemporaneamente rimanere.
Ed ecco il buio è violato da scintille di vita.
Lo spirito del tramonto chiama scandalo il colore.
Quella fatale notte, prima d’andare a dormire, ci riunimmo
come sempre intorno al fuoco. Ci contammo, ci udimmo dire che non avevamo
ritrovato nessuno di quanti cercavamo. Ma quella volta, uno di loro ritornò.
Quando lo vedemmo restammo pietrificati dallo stupore, incapaci di dire o fare
nulla. Lui era completamente fradicio e nel breve periodo in cui rimase fermo
dietro di noi, una vasta pozzanghera si formò ai suoi piedi. Nessuno osò
rivolgergli un saluto: lo temevamo. Semplicemente ci allargammo facendogli
posto. Si è allora seduto fra noi, ha guardato a lungo nel fuoco e quando le
fiamme si sono spente siamo silenziosamente ritornati alle nostre case, mentre
l’uomo è rimasto lì.
Il giorno dopo, affacciandoci alla porta, l’abbiamo visto ancora nello stesso
posto. E continuava a gocciolare, come quando era arrivato. Dalla pozzanghera
formata in mezzo ai suoi piedi partiva un rivolo d’acqua che giungeva fino alle
braci morenti, che nella rabbia si spegnevano sibilando come un serpente,
uccise senza potere per un solo attimo – trasformate in fumo – giocare con il
vento prima di dissolversi.
Con quelle braci rinnovavamo il nostro fuoco da sempre.
Ora ne sarebbe venuto uno nuovo forse, per noi.
Inevitabilmente: sarebbe stato così.
Ma il nostro fuoco era morto per sempre.
Nel frattempo il morso gelido dell’alba aveva provato le
carni dell’uomo che era tornato. Il suo corpo era incessantemente sconquassato
da violenti brividi di freddo. Quando fummo tutti intorno a lui, all’improvvisò
s’alzò e con un braccio teso ci indicò un punto lontano. Volle che lo
seguissimo. Pensando che avremmo così svelato il mistero delle scomparse, gli
andammo dietro, verso nord, come lui voleva.
Camminavamo da diverse ore, ormai, e quando fummo giunti in un luogo molto
lontano si fermò, si girò verso di noi e indicò un punto alle nostre spalle. Ci
voltammo: la foresta divampava fra alte, indomabili fiamme. Sembrava che
gridasse di rabbioso dolore. A quel punto, di certo, ormai, anche il nostro
villaggio doveva esserne stato divorato. Il fuoco, veloce, inesorabilmente
avanzava verso di noi. Lui riprese a camminare e ancora, lo seguimmo.
In quel momento capimmo che era tornato per salvarci.
Da almeno due giorni marciavamo senza sosta quando lui sollevando una mano
c’arrestò. Davanti a noi si spalancava l’improvvisa visione dell’infido,
sterminato mare. Durante quel periodo il fuoco aveva camminato più velocemente
di noi, e ormai ci lambiva. Già inviava avanguardie ad ammantarci d’un’oscura
nuvola di fumo. L’uomo s’immerse e noi capimmo che non avremmo avuto scelta:
dovevamo andare con lui.
Credendo vicina la fine, pensando ai miei antenati, volsi il mio sguardo verso
il cielo: il sole era oscurato dal fumo e dal maestoso passaggio di numerosi
stormi d’uccelli in volo.
Ritornavano.
Ma ogni partenza, per loro, è un ritorno.
Nuotammo finché ci fu possibile, finché i nostri muscoli non
diventarono duri e pesanti e, mutata la loro natura in quella della pietra,
iniziarono a trascinarci verso il basso. Qualcuno di noi gridò di non essere
più in grado di avanzare oltre. Lui ci osservò senza emozione, facendoci
intendere che non dovevamo avere paura, che potevamo lasciarci andare, che era
giunto finalmente il momento di riposare: non ci sarebbe stato altro che
bellezza, in questo. La bellezza del polline nel vento. E così subito, per
darci l’esempio, s’abbandonò al proprio stesso inerte corpo giù, sotto al pelo
dell’acqua.
Sprofonderemo, pensammo, senza fine.
Quando sembrava ormai certo che saremmo tutti morti annegati, che il nostro
spirito sarebbe da noi uscito nell’ultimo conato d’aria che disperatamente
risaliva verso la superficie, toccammo infine il fondo. Lui ci fece segno che
avremmo dovuto continuare a camminare anche lì. Infatti giungemmo presto al
cospetto dell’ingresso d’una grotta: fatti pochi gradini ci ritrovammo in un
ambiente vastissimo, asciutto. La cupola era altissima, centinaia di passi.
Dall’apertura che occhieggiava al suo centro, potevamo osservare una macchina
che scoccava potenti dardi infuocati, diretti verso sud. E nell’intervallo tra
un lancio e l’altro godemmo la vista d’un meraviglioso, libero, cielo azzurro.
Dall’oscurità alla quale ben presto i nostri occhi si abituarono potemmo vedere
emergere davanti a noi un enorme, mostruoso simulacro dalla forma di volto
umano. Spalancò la bocca. Il nostro compagno ci fece cenno d’entrare, perché lì
saremmo stati mangiati.
Sembrava riluttante l’espressione della faccia che stava per ingoiarci, non
eravamo forse il cibo che credeva di meritarsi. Ricordo però che anche alla
donna che sposai fu insegnato che se mi voleva prendere doveva disprezzarmi con
lo sguardo.
Entrammo, allora, docilmente. E dalla bocca armata dai denti che stavano per
stritolarci, per somma crudeltà, plasmata dentro a una nuvola d’alito fetido,
giunse una voce che diceva:
Sapete voi quanto preferibile sarebbe stata la vostra sorte, rimasti nei
lombi del padre, o dispersi come polline?
Lo sapevamo.
Sapete voi quanto migliore sarebbe stato il vostro destino, frutto digerito
da un uccello in volo e come seme caduto a terra dentro un solco?
Lo sapevamo.
E allora perché avete seguito il vostro compagno?
Rispondemmo: Per sfamarti.
L’idolo sembrò contento della nostra risposta e ci ingoiò.
Nivangio Siovara non esiste, è solo uno pseudonimo. Come Atena, è nato dalla testa del padre che non abbandona mai; trascorre, anzi, il proprio tempo ad osservarlo con scientifico interesse. Il risultato è una continua produzione di oscuri scritti. Il genitore, rassegnato, gli concede completa libertà, nella speranza che diventi per lui l'immancabile bastone della vecchiaia. Ha pubblicato con Prospero Editore i romanzi "L'onestà del Moloch" (2017) e "In Albis" (2018), e la raccolta di racconti "Di vento". Suoi racconti sono presenti nelle antologie di Prospero Editore "Oltre il confine" (Prospero, 2019) e "Anch'io" (Prospero, 2021)
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