Scritto da Heiko H. Caimi
Nivangio Siovara (foto di
Gloria Mezzadri)
Nivangio Siovara è un autore
insolito nell’attuale panorama letterario italiano: si aggira nei meandri del
fantastico più puro, con una continua produzione di oscuri scritti, come dice
la sua biografia. Finora ha pubblicato due romanzi (L’onestà del Moloch, 2017,
e In Albis, 2018) e una raccolta (Di vento. Tre storie di resurrezione
metropolitana, 2019), tutti con Prospero Editore, più una lunga lista di
racconti in antologie e sul web.
Non esiste perché è una parte di me che tendo a non presentare: è quella che si chiude in casa, scrive e pensa. È la mia parte critica e vagamente rabbiosa, sicuramente la più oscura e asociale.
Quindi fondamentalmente fai da portavoce a questo lato oscuro?
Sicuramente sì, e lavoro per mantenerlo. Sono il suo mecenate, diciamo!
Hai esordito nel 2017 con L’onestà del Moloch che, a proposito di scrittori che non esistono, ha come sottotitolo: Ovvero della beata nientitudine. Sulla quarta di copertina di questo romanzo è riportata una frase: Essere in un posto che non è quello che sembra. Dicono: se n’è andato. Ma uno, se va, da qualche parte arriva. È quindi una questione di frontiere?
Esatto: L’onestà del Moloch è interamente ambientato in una frontiera, una frontiera esistenziale mai chiarita. Può essere quella dell’incoscienza o della malattia, ma anche del post-mortem, quindi di un nulla che si riempie di vissuto; un vissuto che si riesce a ricostruire.
Un mondo molto nebbioso.
Tutti i ricordi del protagonista si ambientano in un mondo in cui nulla è come sembra. Bisogna andare molto vicino alle cose per riconoscerle per quello che sono, compreso il proprio corpo; è tutto immerso in una nebbia fittissima, e ciò affiora da questa nebbia è quello che cerchiamo, che vogliamo vedere.
Fra
cui un pastore seguito da agnelli.
Sì, c’è questo pastore che è
l’officiante del rito del Moloch.
È
un rito cananeo, ma non solo, anche assiro, fenicio, che prevede un sacrificio.
È come il Moloch del film
Metropolis. Non so se vi ricordate: gli operai muoiono su una enorme macchina
per tenerla in vita. È il sacrificio delle persone stesse a mantenere in vita
la divinità. L’idea del sacrificio è abbastanza centrale nel romanzo. Il
sacrificio delle persone per salvare ciò che di bello hanno nella vita.
A
volte anche per distruggere ciò che pensano di avere di bello. Ci troviamo in
un mondo dove la scienza, tra cui la medicina, ha fatto passi da gigante
attraverso la clonazione, quindi possiamo avere nel giardino agnellini
bellissimi tutti uguali e interscambiabili, tant’è che un particolare agnello
viene scambiato due volte. Eppure ma non si è ancora trovata una cura per il
cervello. Di conseguenza, possiamo rimanere in salute fino a quando il nostro cervello
regge, dopo di che l’Alzheimer, la demenza, sopravvengono comunque. Ci sono
quattro amici, Akbar, Imix, Ik e Kan, che vivono in questo luogo nebbioso e
fanno un patto. Nessuno di loro vuole finire con la nebbia nel cervello, e per
di più nella loro civiltà è previsto un rito: chi finisce con la mente
annebbiata viene mandato al largo e abbandonato. I quattro amici non vogliono
né fare questa fine né vivere da dementi, quindi stipulano un patto di sangue
come quelli che facevano da bambini e si promettono che, quando il primo di
loro finirà in quelle condizioni, gli altri tre faranno un’estrazione a sorte
per decidere chi di loro lo ucciderà. Poi ne rimarranno tre, e il sorteggio
sarà tra due; poi ne rimarranno due, e chi rimarrà lucido ucciderà l’altro.
L’ultimo si dovrà arrangiare.
Quest’ultimo sostanzialmente
è la voce narrante.
Però anche la voce narrante è stata raggiunta dalla malattia, tant’è che
nelle prime pagine è un po’ difficile capire che cosa ci stia raccontando; poi si inizia a capire, specialmente perché i ricordi lontani sono ancora piuttosto nitidi; mentre quelli vicini sono parziali, confusi… nebbiosi, appunto. L’onestà del Moloch è peraltro un romanzo filosofico, intriso di filosofia orientale, ed è un romanzo che sfida il lettore fino alle ultime pagine.
Durante una delle prime
presentazioni, l’intervistatore disse che nel mio romanzo c’era un forte
impatto per il lettore, ed effettivamente la situazione raccontata è
completamente spiazzante; dico sempre che si tratta di un libro che si può
leggere aprendolo a caso – è un libro circolare, si ripete, tutto viene
rivisto, non c’è una cronologia.
Tant’è
che, quando finalmente si comprende in che mondo ci si trovi e si immagina che
la narrazione si farà più lineare, finisce la prima parte e ci si ritrova
nuovamente in una situazione di confusione. È un continuo ribaltamento di
prospettive.
Ogni capitolo vuole essere
la voce di un personaggio, meno quella di Ik, che appare in tre capitoli
parabolari: è la voce dissidente della vicenda, e sostiene che non importa
diventare così, perché diventiamo tutti i giorni qualcosa. Quando saremo in
quel mondo di malattia e confusione, saremo diventati quello, comunque una
parte, un lato della vita che non va trascurato. Faccio da molti anni volontariato
in una casa di riposo e sono continuamente a contatto con malattie come
l’Alzheimer continuamente; sento sempre dire ai parenti Piuttosto che ridurmi
così, fatemi fuori! Ma, vivendo con questi anziani, mi accorgo della ricchezza
che c’è in quel loro mondo, e mi sembra ingiusto che una persona si privi anche
di quello. È qualcosa che noi nemmeno conosciamo, e non capisco perché dovremmo
privarcene. Ik interpreta questo pensiero.
L’onestà
del Moloch è un romanzo denso di considerazioni esistenziali e filosofiche, che
partono dal quotidiano fino ad arrivare ai massimi sistemi, anche teologici. Ci
sono momenti in cui ci sembra di trovare soluzione a questioni su cui quasi
tutti ci interroghiamo, anche le più banali, come quella posta da Erich Fromm
in Avere o essere? Leggo la citazione: Essere è una condizione indispensabile
sia per avere che per non avere. Quindi a chi si chiede se sia meglio essere o
avere, suggerisco di essere prima di tutto. Sono questioni apparentemente
semplici, nelle quali ci dibattiamo senza vedere la questione con la chiarezza
necessaria.
Sì, in realtà è un romanzo
carico di ironia, stranamente leggendolo si ridacchia, qualche volta!
A me è sempre piaciuta la
narrazione concentrica, che raccoglie più informazioni, portando spesso e
volentieri sempre più lontano dall’origine. Però alla fine si ricollegano
sempre al punto iniziale.
Quando l’editore ha deciso
di pubblicarlo mi ha chiesto: “È un romanzo o un testo di filosofia?” e ho
risposto: “No, definiamolo romanzo”. Non è così impegnativo da poter essere
considerato un trattato. È un flusso di coscienza.
In albis.
“In albis” è la domenica che
si festeggia la settimana dopo Pasqua, in cui si usava vestirsi di bianco e
c’era una sorta di cerimonia. È la giornata in cui la famiglia tradizionalmente
si ritrova a mangiare fuori, è un momento di libertà.
La morte viene a scardinare
tutto questo, ed è inevitabile quando sei abituato a costruire tutta la tua
vita sulla menzogna e sulla falsità, sul dovere, senza scegliere nulla. I
protagonisti procedono su binari imposti, quindi la morte scardina tutto perché
è irragionevole, senza senso; perché, per esempio, i bambini non devono sapere
che è morto il gatto – è l’elemento che toglierà equilibrio alla famiglia del
romanzo –, e allora si comincia a costruire un altro mondo di menzogne,
compresa quella, inventata dalla madre per non traumatizzare i figli, che
questo gatto se n’è andato in un’accademia felina da dove scrive ai piccoli. Si
arriverà a una soluzione macabra.
La
premessa è che insieme al padre, all’inizio del romanzo, entra un uomo vestito
di bianco che fa la parte dell’angelo ma anche dell’uomo nero: è invisibile
proprio perché i protagonisti vedono le cose solo se montate su castelli di
menzogne, non vedono la verità. Solo il bambino la intuisce, e il gatto che
troverà la morte. Di fronte a loro, che spesso si definiscono come eroi
borghesi, l’uomo vestito di bianco è l’eroe di una volta, che li vuole
liberare: porta la verità, ed essa non può essere positiva proprio perché hanno
costruito la loro vita sul falso e sulla menzogna.
Anche
perché la morte del gatto costringe la madre a perdere il ruolo tradizionale
femminile all’interno della famiglia, imponendo al marito di ricoprirlo. Questo
crea un altro dissidio, i ruoli si invertono e non funziona proprio nulla. Lei
torna a sentire quello che provava una volta, quando viveva al di fuori di
questo sistema, e il contrasto è troppo forte: crea inevitabilmente una
rottura, fino a vere e proprie follie.
C’è anche un personaggio secondario che a un certo punto acquisisce un certo rilievo, quello del dottore.
Anche
lui è indicato, dall’autore, come possibile fautore del disastro. Rappresenta
la voce razionale di fronte alla donna che ormai non è più razionale: cerca di
ricondurla nel mondo di appartenenza e al quale appartiene anche lui, però lei
è tornata in qualche modo ragazza, quindi è tornata a credere nei fantasmi. C’è
una parte in cui dice che da piccola vedeva delle cose senza riuscire ad
identificarle e le spiegavano che si chiamavano fantasmi, poi le hanno detto
che i fantasmi non esistono e lei si è trovata a non riuscire a dare un nome a
queste entità. Quando poi questo ricordo le torna in mente, con la spiegazione
che i fantasmi non esistono, la sua mente non riesce più a stare in equilibrio
come prima, è costretta a ripensare a tutto, e il personaggio del dottore cerca
di ricondurla sulla strada della razionalità.
Senso
di colpa, paura, dovere, amare i figli perché sono i tuoi figli: tutte cose su
cui i protagonisti non si interrogano mai: tutto è dato per scontato perché ci
viene insegnato, ci si dimentica persino la strada per arrivare a questa
imposizione. Quando ogni tanto ti torna in mente è un disastro: muori in questo
senso, la tua vita va ribaltata.
Questi veti esistono ma non
si vedono, le cose sono in un certo modo perché si è sempre fatto così, non c’è
un ragionamento dietro.
Le
cose non si sentono, si sanno senza elaborarle.
Anche qui la tradizione fa una brutta fine, come in tutte le tue storie, fondamentalmente.
Sì,
sono abbastanza distruttivo, non amo molto la società e i suoi ritmi.
Benché
nell’incipit si dica molto, se uno sta attento alcuni segnali sono presenti.
Però ci sono momenti distensivi che fanno propendere per un bel finale
positivo.
È
anche un momento di distensione e consapevolezza. Alla fine in tutti e tre i
miei libri il tema di fondo è ritrovare un se stesso perduto, in maniera spesso
diretta.
C’è
anche un ritrovare, c’è un richiamo. In uno dei racconti c’è un finale molto
spiazzante, secondo me.
Sì.
Premetto che questo racconto parla di un balcone pieno di fiori bello come
nessun altro al mondo. C’è un momento in cui la proprietaria muore e nessuno
può più curarlo, ed è una persona molto strana, questa donna. È strana perché
quel balcone è fin troppo bello, e secondo i suoi vicini ci deve essere
sicuramente dietro qualcosa. C’è un unico vicino che collabora con lei e che
vorrebbe fare qualcosa per quel balcone.
Ma ci sono delle leggi che lo impediscono, perché nel mondo in cui vivono i protagonisti ci sono divieti precisi.
Qui
addirittura è vietato invadere la proprietà privata in uno spazio aereo, per
esempio infilare la mano dentro a un finestrino aperto di una macchina senza
prendere nulla, quindi nessuno può fare niente per le piante, ma il
protagonista se ne frega. Quello che conta qui è capire che quelle piante erano
così belle perché c’era qualcuno che le amava e si curava di loro, questa è la
magia. Per questo il finale è spiazzante: l’amore e la cura sono la vera
rivoluzione.
Sì,
lui è uno che vive su un binario fisso che va dalla casa al lavoro. In cui non
fa nulla di diverso dall’andare al lavoro e tornare a casa, una casa che non
conosce nemmeno come la casa non conosce lui. I vicini sanno che c’è, ma non lo
conoscono.
Il
problema è che lui non aveva mai guardato a quella finestra: per un colpo di
vento è costretto ad alzare lo sguardo. Lui, che non si è mai interrogato su
nulla della sua vita, è costretto a chiedersi che cosa quella donna abbia visto
di lui, che cosa quella donna saprà di lui. Quindi è un continuo interrogarsi
sulla propria natura che porta ad una vera metamorfosi e, senza dire tropp,o
egli diventa un vero e proprio animale. Ce lo ritroviamo per la città che
continua a vivere come un animale. C’è una mutazione, quindi la sua vita viene
completamente stravolta, arriva a fare cose grottesche, pazzesche, solo perché
questa donna lo ha osservato.
Effettivamente
sì, c’è un finale spettacolare dove scopre ciò che è diventato ed è libero di
esserlo.
Continua a chiamare la polizia e ogni giorno parti dell’appartamento vengono distrutte, un giorno dopo l’altro.
Uno dei due poliziotti, quello più basso in grado, si affeziona alla protagonista e cerca di darle ua mano, ma lei, a mano a mano che penetra nell’irrealtà, cerca di evitare di essere aiutata. Tant’è che si chiede a che cosa serva quel taccuino e decide di scriverci una cosa. Da qui inizierà una comunicazione con ciò che troverà nel taccuino di volta in volta. E a mano a mano il suo appartamento si decomporrà, bombardato da quel qualcosa che le lascia il taccuino.
Questa è una forza
inintellegibile. È la storia di un rimosso, del riemergere di un rimosso, del
suo passato collegato a un’esperienza recente che lo risveglia. È liberatorio perché
dietro l’angoscia che c’è nell’animazione di un rimosso c’è il riscatto, almeno
caso della protagonista.
Trova il modo per uscire. La
casa è il simbolo della sua clausura e della sua incapacità di capire ciò che
c’è fuori. Per lei il tempo si è fermato lì.
Infatti volevo mostrare tre
scritture diverse, tre toni diversi. Può darsi che poi si vada perdere
l’identificazione con un certo tipo di voce dell’autore.
Quando ero piccolo tante
persone mi dicevano che avevo una grande fantasia, io non gli credevo perché mi
sembravano fantasie banali, allora mi sforzavo e scavavo ulteriormente. Forse
con l’esercizio è venuto fuori qualcosa di migliore.
Per nulla: li ho mollati
subito. Ho fatto il liceo classico perché avevo in mente che nella vita avrei
solo letto e scritto, poi sono andato a lavorare con mio padre e da lì ho solo
letto e scritto.
Spesso non hanno neppure un
nome, perché rappresentano, in effetti, qualcosa di molto preciso, e non c’è
neanche bisogno di connotarli. Sono personaggi piuttosto universali: il loro
bello è che si possono prestare ad inclinazioni inattese.
Parto da un’immagine: di
solito sono risvegliato all’improvviso da immagini delle quali non conosco
neanche la sorgente. Poi ho notato che è come camminare in un campo dove noti
una zolla, la scopri e vedi che sotto c’è un pozzo profondissimo; e da lì devi
attingere, c’è tantissima ispirazione. Penso di aver scritto più cose
sull’ispirazione che non dall’ispirazione, perché vivo molto di immagini; per
fortuna mi sfogo nelle poesie, quindi molte cose riesco a renderle lì. Ad
esempio mentre scrivevo In albis stavo camminando avanti e indietro per casa,
al telefono con la mia ragazza quando abitavo lontano, andavo avanti e indietro
nelle stanze con luci alcune volte accese altre volte spente; dietro la porta
del bagno mi sono convinto che ci fosse qualcuno, e quando poi sono tornato ho
acceso la luce e ho controllato, ho visto che non c’era nessuno e ho pensato:
Ok, non c’è nessuno ma non posso negare di aver sentito che c’era, quindi
perché adesso devo dire che non c’è? Da questa considerazione è nata l’immagine
di una persona che entra nella tua casa e che non puoi vedere. Nasce anche
dalla suggestione.
È un metodo abbastanza felliniano.
Sì, è possibile, a volte è
un po’ oscuro. Quando non capisco qualcosa cerco di esagerarne i contenuti per
poi ridurli e riuscire a vedere ciò che non capivo. Mentre altre volte mi vengono
in mente situazioni piuttosto grottesche da cui cerco di capire cosa salta
fuori.
Dipende, in genere con le
stesure trascrivo dal computer a mano e poi di nuovo al computer, per
correggermi e rileggermi.
Personalmente poco: ritengo
che più un autore mette del proprio meglio sia. Posso anche far fatica a
leggere un libro, ma voglio arrivare in fondo per poter dire: adesso quando
vedo una certa cosa posso vederla in tutt’altro modo rispetto a prima.
Senza non sarebbe arte. Può
capitare che non funzioni, ma nelle intenzioni non può mancare l’idea di
smuovere delle coscienze. Se un romanzo, nel suo piccolo, in qualche modo non
mi sconvolge, non mi interessa. Posso benissimo farmi una passeggiata ed è
molto meglio di leggermi un libro.
Secondo te la letteratura può avere ancora un potere rivoluzionario?
Temo di no, l’appiattimento
oggi è straordinario, i best-seller sono veramente tristi; non credo che la
gente voglia essere rivoluzionaria, che vada alla ricerca di qualcosa che la
possa smuovere da una comodità della loro mente.
Spesso si viene sormontati
da ciò che si scrive, ma non è una consapevolezza, accade e basta: il libro ti
supera e non puoi farci niente.
Faccio fatica a portare in
giro il mio libro e presentarlo: quando su un testo ci lavoro otto o nove anni,
ci sono dentro tante di quelle cose che sono al di là della mia capacità di
manipolarle tutte insieme.
Ogni buono scrittore è anche un assiduo lettore; quali sono le letture che ti hanno influenzato maggiormente?
Gli autori che ho
frequentato di più sono stati Mishima, Philip K. Dick e Kerouac, anche se non
lo amo come autore, però mi piace leggerlo. Poi i classici come Tolstoj. I tre
classici che prendo come esempio sono Metamorfosi di Ovidio, Amleto di
Shakespeare e Guerra e Pace di Tolstoj: secondo me in quei tre c’è tutto il
romanzo moderno.
Sì, ma in realtà sono tanti.
Il prossimo che tenterò di pubblicare è una sorta di continuazione di “H”: sono
altri personaggi però c’è qualcosa di simile, è un personaggio che si sveglia
la mattina e si ritrova una inspiegabile ferita in faccia. Si convince che
l’unico modo di ricongiungersi alla sua amata sia quello di distruggere tutto
quello che c’è in mezzo. È un viaggio dal momento in cui esce di casa a quello
in cui si ricongiungerà con lei, è tutto quello che c’è in mezzo, che lui vorrà
distruggere.
Perché scrivi? Perché come canale per esprimerti hai scelto la scrittura?
Non lo so. Mi sono sempre
piaciuti moltissimo i libri, fin da piccolo. Amavo particolarmente i caratteri
stampati, i libri con le “g” stampate nel modo in cui piacevano a me. Poi ho
sempre avuto delle voci che insistevano perché raccontassi delle storie, quindi
la scrittura è diventato un canale naturale, senza che decidessi di farlo.
Mi ha insegnato prima a un
confronto con me stesso e poi a cercare di dargli una forma, che è la cosa più
difficile. Posso anche avere molte sensazioni dentro di me, ma poi le parole
della nostra lingua non rappresentano perfettamente le nostre sensazioni,
quindi bisogna costruire dei sistemi, delle strutture che, escludendo delle
immagini, permettono di rappresentare ciò che senti. Bisogna costruire qualcosa
attorno a quello che provi per dare un’idea di quello che provi.
In poesia si riesce a creare
un’immagine con poche parole. La scrittura serve per dire l’indicibile, in
qualche modo, per approssimazione.
Trascrizione di Riccardo
Crippa
(pubblicato con l'autorizzazione di www.inkroci.it)
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