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domenica 18 luglio 2021

Nivangio Siovara: la scrittura serve per dire l’indicibile

Scritto da Heiko H. Caimi

 

Nivangio Siovara (foto di Gloria Mezzadri)


Nivangio Siovara è un autore insolito nell’attuale panorama letterario italiano: si aggira nei meandri del fantastico più puro, con una continua produzione di oscuri scritti, come dice la sua biografia. Finora ha pubblicato due romanzi (L’onestà del Moloch, 2017, e In Albis, 2018) e una raccolta (Di vento. Tre storie di resurrezione metropolitana, 2019), tutti con Prospero Editore, più una lunga lista di racconti in antologie e sul web.


 Riferendoci alla tua biografia in quarta di copertina, pare che Nivangio Siovara non esista: perché non esiste?

Non esiste perché è una parte di me che tendo a non presentare: è quella che si chiude in casa, scrive e pensa. È la mia parte critica e vagamente rabbiosa, sicuramente la più oscura e asociale.

 

Quindi fondamentalmente fai da portavoce a questo lato oscuro?

Sicuramente sì, e lavoro per mantenerlo. Sono il suo mecenate, diciamo!

 

Hai esordito nel 2017 con L’onestà del Moloch che, a proposito di scrittori che non esistono, ha come sottotitolo: Ovvero della beata nientitudine. Sulla quarta di copertina di questo romanzo è riportata una frase: Essere in un posto che non è quello che sembra. Dicono: se n’è andato. Ma uno, se va, da qualche parte arriva. È quindi una questione di frontiere?

Esatto: L’onestà del Moloch è interamente ambientato in una frontiera, una frontiera esistenziale mai chiarita. Può essere quella dell’incoscienza o della malattia, ma anche del post-mortem, quindi di un nulla che si riempie di vissuto; un vissuto che si riesce a ricostruire.

 

Un mondo molto nebbioso.

Tutti i ricordi del protagonista si ambientano in un mondo in cui nulla è come sembra. Bisogna andare molto vicino alle cose per riconoscerle per quello che sono, compreso il proprio corpo; è tutto immerso in una nebbia fittissima, e ciò affiora da questa nebbia è quello che cerchiamo, che vogliamo vedere.

 

Fra cui un pastore seguito da agnelli.

Sì, c’è questo pastore che è l’officiante del rito del Moloch.

 

È un rito cananeo, ma non solo, anche assiro, fenicio, che prevede un sacrificio.

È come il Moloch del film Metropolis. Non so se vi ricordate: gli operai muoiono su una enorme macchina per tenerla in vita. È il sacrificio delle persone stesse a mantenere in vita la divinità. L’idea del sacrificio è abbastanza centrale nel romanzo. Il sacrificio delle persone per salvare ciò che di bello hanno nella vita.

 

A volte anche per distruggere ciò che pensano di avere di bello. Ci troviamo in un mondo dove la scienza, tra cui la medicina, ha fatto passi da gigante attraverso la clonazione, quindi possiamo avere nel giardino agnellini bellissimi tutti uguali e interscambiabili, tant’è che un particolare agnello viene scambiato due volte. Eppure ma non si è ancora trovata una cura per il cervello. Di conseguenza, possiamo rimanere in salute fino a quando il nostro cervello regge, dopo di che l’Alzheimer, la demenza, sopravvengono comunque. Ci sono quattro amici, Akbar, Imix, Ik e Kan, che vivono in questo luogo nebbioso e fanno un patto. Nessuno di loro vuole finire con la nebbia nel cervello, e per di più nella loro civiltà è previsto un rito: chi finisce con la mente annebbiata viene mandato al largo e abbandonato. I quattro amici non vogliono né fare questa fine né vivere da dementi, quindi stipulano un patto di sangue come quelli che facevano da bambini e si promettono che, quando il primo di loro finirà in quelle condizioni, gli altri tre faranno un’estrazione a sorte per decidere chi di loro lo ucciderà. Poi ne rimarranno tre, e il sorteggio sarà tra due; poi ne rimarranno due, e chi rimarrà lucido ucciderà l’altro. L’ultimo si dovrà arrangiare.

Quest’ultimo sostanzialmente è la voce narrante.

 

Però anche la voce narrante è stata raggiunta dalla malattia, tant’è che
nelle prime pagine è un po’ difficile capire che cosa ci stia raccontando; poi si inizia a capire, specialmente perché i ricordi lontani sono ancora piuttosto nitidi; mentre quelli vicini sono parziali,  confusi… nebbiosi, appunto. L’onestà del Moloch è peraltro un romanzo filosofico, intriso di filosofia orientale, ed è un romanzo che sfida il lettore fino alle ultime pagine.

Durante una delle prime presentazioni, l’intervistatore disse che nel mio romanzo c’era un forte impatto per il lettore, ed effettivamente la situazione raccontata è completamente spiazzante; dico sempre che si tratta di un libro che si può leggere aprendolo a caso – è un libro circolare, si ripete, tutto viene rivisto, non c’è una cronologia.

 

Tant’è che, quando finalmente si comprende in che mondo ci si trovi e si immagina che la narrazione si farà più lineare, finisce la prima parte e ci si ritrova nuovamente in una situazione di confusione. È un continuo ribaltamento di prospettive.

Ogni capitolo vuole essere la voce di un personaggio, meno quella di Ik, che appare in tre capitoli parabolari: è la voce dissidente della vicenda, e sostiene che non importa diventare così, perché diventiamo tutti i giorni qualcosa. Quando saremo in quel mondo di malattia e confusione, saremo diventati quello, comunque una parte, un lato della vita che non va trascurato. Faccio da molti anni volontariato in una casa di riposo e sono continuamente a contatto con malattie come l’Alzheimer continuamente; sento sempre dire ai parenti Piuttosto che ridurmi così, fatemi fuori! Ma, vivendo con questi anziani, mi accorgo della ricchezza che c’è in quel loro mondo, e mi sembra ingiusto che una persona si privi anche di quello. È qualcosa che noi nemmeno conosciamo, e non capisco perché dovremmo privarcene. Ik interpreta questo pensiero.

 

L’onestà del Moloch è un romanzo denso di considerazioni esistenziali e filosofiche, che partono dal quotidiano fino ad arrivare ai massimi sistemi, anche teologici. Ci sono momenti in cui ci sembra di trovare soluzione a questioni su cui quasi tutti ci interroghiamo, anche le più banali, come quella posta da Erich Fromm in Avere o essere? Leggo la citazione: Essere è una condizione indispensabile sia per avere che per non avere. Quindi a chi si chiede se sia meglio essere o avere, suggerisco di essere prima di tutto. Sono questioni apparentemente semplici, nelle quali ci dibattiamo senza vedere la questione con la chiarezza necessaria.

Sì, in realtà è un romanzo carico di ironia, stranamente leggendolo si ridacchia, qualche volta!

 A tratti si procede con fatica, poi si aprono sprazzi improvvisi, che illuminano a volte storie nelle storie.

A me è sempre piaciuta la narrazione concentrica, che raccoglie più informazioni, portando spesso e volentieri sempre più lontano dall’origine. Però alla fine si ricollegano sempre al punto iniziale.

 Faccio un altro esempio di qualcosa che spesso non consideriamo. Cito: Non paghi tu le tasse al tuo Stato per avere ciò che ti spetta? Ma ti spetta perché paghi, non perché esiste. È così, ma non ci pensiamo mai, evitiamo di pensarci.

Quando l’editore ha deciso di pubblicarlo mi ha chiesto: “È un romanzo o un testo di filosofia?” e ho risposto: “No, definiamolo romanzo”. Non è così impegnativo da poter essere considerato un trattato. È un flusso di coscienza.

 O d’incoscienza. Ma passiamo al tuo secondo romanzo,
In albis.

“In albis” è la domenica che si festeggia la settimana dopo Pasqua, in cui si usava vestirsi di bianco e c’era una sorta di cerimonia. È la giornata in cui la famiglia tradizionalmente si ritrova a mangiare fuori, è un momento di libertà.

 Qui scopriamo che la verità è quella cosa che quando la vedi muore, tant’è che in questo romanzo scardini uno dei pilastri della nostra società, cioè proprio la famiglia. Basta un elemento che tolga equilibrio al nucleo familiare, che questo collassa e si scatena l’inferno. Nel senso che in queste pagine viviamo tutto il veleno dell’essere adulti, del perbenismo e dell’educativamente corretto, e diventa chiaro quanti danni facciamo con l’educativamente corretto. È un veleno secreto dal demone della famiglia, perché l’abbiamo mitizzata, questa istituzione, l’abbiamo tradizionalizzata, ipocritizzata a tal punto che non sappiamo più che cosa significhi. Però abbiamo questa vaga idea cui appigliarci e cerchiamo di resistere con tutte le nostre forze per preservarla, senza accorgerci che, nel momento in cui dobbiamo fare tutto questo sforzo per tenerla unita, abbiamo già piantato i semi della sua distruzione.

La morte viene a scardinare tutto questo, ed è inevitabile quando sei abituato a costruire tutta la tua vita sulla menzogna e sulla falsità, sul dovere, senza scegliere nulla. I protagonisti procedono su binari imposti, quindi la morte scardina tutto perché è irragionevole, senza senso; perché, per esempio, i bambini non devono sapere che è morto il gatto – è l’elemento che toglierà equilibrio alla famiglia del romanzo –, e allora si comincia a costruire un altro mondo di menzogne, compresa quella, inventata dalla madre per non traumatizzare i figli, che questo gatto se n’è andato in un’accademia felina da dove scrive ai piccoli. Si arriverà a una soluzione macabra.

La premessa è che insieme al padre, all’inizio del romanzo, entra un uomo vestito di bianco che fa la parte dell’angelo ma anche dell’uomo nero: è invisibile proprio perché i protagonisti vedono le cose solo se montate su castelli di menzogne, non vedono la verità. Solo il bambino la intuisce, e il gatto che troverà la morte. Di fronte a loro, che spesso si definiscono come eroi borghesi, l’uomo vestito di bianco è l’eroe di una volta, che li vuole liberare: porta la verità, ed essa non può essere positiva proprio perché hanno costruito la loro vita sul falso e sulla menzogna.

 Infatti il loro mondo crolla clamorosamente e i protagonisti incominciano a scambiarsi menzogne su menzogne, sia con l’alibi di proteggere i bambini, sia per proteggere se stessi.

Anche perché la morte del gatto costringe la madre a perdere il ruolo tradizionale femminile all’interno della famiglia, imponendo al marito di ricoprirlo. Questo crea un altro dissidio, i ruoli si invertono e non funziona proprio nulla. Lei torna a sentire quello che provava una volta, quando viveva al di fuori di questo sistema, e il contrasto è troppo forte: crea inevitabilmente una rottura, fino a vere e proprie follie.

C’è anche un personaggio secondario che a un certo punto acquisisce un certo rilievo, quello del dottore.

Anche lui è indicato, dall’autore, come possibile fautore del disastro. Rappresenta la voce razionale di fronte alla donna che ormai non è più razionale: cerca di ricondurla nel mondo di appartenenza e al quale appartiene anche lui, però lei è tornata in qualche modo ragazza, quindi è tornata a credere nei fantasmi. C’è una parte in cui dice che da piccola vedeva delle cose senza riuscire ad identificarle e le spiegavano che si chiamavano fantasmi, poi le hanno detto che i fantasmi non esistono e lei si è trovata a non riuscire a dare un nome a queste entità. Quando poi questo ricordo le torna in mente, con la spiegazione che i fantasmi non esistono, la sua mente non riesce più a stare in equilibrio come prima, è costretta a ripensare a tutto, e il personaggio del dottore cerca di ricondurla sulla strada della razionalità.

 Leggo qualche riga: La puntualità e il rispetto, la precisione, persino l’affetto sono tutte cose che m’appartengono, e tutte cose che si possono raccogliere sotto la grave insegna di una sola parola: paura.

Senso di colpa, paura, dovere, amare i figli perché sono i tuoi figli: tutte cose su cui i protagonisti non si interrogano mai: tutto è dato per scontato perché ci viene insegnato, ci si dimentica persino la strada per arrivare a questa imposizione. Quando ogni tanto ti torna in mente è un disastro: muori in questo senso, la tua vita va ribaltata.

 

Questi veti esistono ma non si vedono, le cose sono in un certo modo perché si è sempre fatto così, non c’è un ragionamento dietro.

Le cose non si sentono, si sanno senza elaborarle.

Anche qui la tradizione fa una brutta fine, come in tutte le tue storie, fondamentalmente.

Sì, sono abbastanza distruttivo, non amo molto la società e i suoi ritmi.

 Metti in discussione moltissime delle nostre convinzioni e le nostre convenzioni. È un testo che ci scorre nella coscienza, che lentamente si intrufola, ci costringe a pensare, a riflettere e a confrontarci con noi stessi. Poi si dipana fino ad un finale esplosivo e inaspettato, anche perché è un’escalation, una specie di Shining metafisico.

Benché nell’incipit si dica molto, se uno sta attento alcuni segnali sono presenti. Però ci sono momenti distensivi che fanno propendere per un bel finale positivo.

 Anche perché la famiglia cercherà di guarire il tutto in albis.

È anche un momento di distensione e consapevolezza. Alla fine in tutti e tre i miei libri il tema di fondo è ritrovare un se stesso perduto, in maniera spesso diretta.

 Però in Di Vento. Tre storie di resurrezione metropolitana, tre racconti lunghi, le storie non finiscono male, anzi o finiscono bene o restano in una sorta di sospensione. C’è una resurrezione, o comunque un ritrovare ciò che più ci appartiene.

C’è anche un ritrovare, c’è un richiamo. In uno dei racconti c’è un finale molto spiazzante, secondo me.

 Un finale semi-aperto, però il protagonista ci si trova benissimo.

Sì. Premetto che questo racconto parla di un balcone pieno di fiori bello come nessun altro al mondo. C’è un momento in cui la proprietaria muore e nessuno può più curarlo, ed è una persona molto strana, questa donna. È strana perché quel balcone è fin troppo bello, e secondo i suoi vicini ci deve essere sicuramente dietro qualcosa. C’è un unico vicino che collabora con lei e che vorrebbe fare qualcosa per quel balcone.

Ma ci sono delle leggi che lo impediscono, perché nel mondo in cui vivono i protagonisti ci sono divieti precisi.

Qui addirittura è vietato invadere la proprietà privata in uno spazio aereo, per esempio infilare la mano dentro a un finestrino aperto di una macchina senza prendere nulla, quindi nessuno può fare niente per le piante, ma il protagonista se ne frega. Quello che conta qui è capire che quelle piante erano così belle perché c’era qualcuno che le amava e si curava di loro, questa è la magia. Per questo il finale è spiazzante: l’amore e la cura sono la vera rivoluzione.

 Il secondo racconto si intitola “H” ed è a cavallo tra Pirandello e Kafka. Le considerazioni del protagonista sono molto pirandelliane, c’è anche una comicità tipicamente pirandelliana, quel genere di umorismo che non fa sganasciare ma fa ridacchiare intimamente, però non in maniera allegra. È un umorismo che ci mostra le cose che stridono fra di loro. Il nostro protagonista è anche abbastanza paranoico.

Sì, lui è uno che vive su un binario fisso che va dalla casa al lavoro. In cui non fa nulla di diverso dall’andare al lavoro e tornare a casa, una casa che non conosce nemmeno come la casa non conosce lui. I vicini sanno che c’è, ma non lo conoscono.

 C’è una donna, che si presume essere sua moglie, della quale il protagonista ad un certo punto non ricorda neppure il nome. Gli prepara i pasti ma nulla più. Quello che a lui piace della vita è il tragitto da casa al lavoro e viceversa, per cui ciò che c’è a casa e al lavoro o non gli piace o non gli interessa. Ad un certo punto questo tragitto viene turbato da una consapevolezza che acquisisce involontariamente: leva lo sguardo e nota una signora che lo sta fissando insistentemente; lui si muove ed è convinto che quello sguardo continui ad essere lì, puntato su di lui, e si chiede da quanto tempo ciò avvenga, cercando una soluzione per ripararsi da quello sguardo.

Il problema è che lui non aveva mai guardato a quella finestra: per un colpo di vento è costretto ad alzare lo sguardo. Lui, che non si è mai interrogato su nulla della sua vita, è costretto a chiedersi che cosa quella donna abbia visto di lui, che cosa quella donna saprà di lui. Quindi è un continuo interrogarsi sulla propria natura che porta ad una vera metamorfosi e, senza dire tropp,o egli diventa un vero e proprio animale. Ce lo ritroviamo per la città che continua a vivere come un animale. C’è una mutazione, quindi la sua vita viene completamente stravolta, arriva a fare cose grottesche, pazzesche, solo perché questa donna lo ha osservato.

 Sembra una rinascita attraverso una rivincita.

Effettivamente sì, c’è un finale spettacolare dove scopre ciò che è diventato ed è libero di esserlo.

 Nell’ultimo racconto, Sopravvento, accade un fatto banale: una donna, tornando a casa, trova una finestra rotta, ma nel suo appartamento non manca nulla, anzi, chiama la polizia e nel frattempo si rende conto che c’è una cosa in più: un block notes su cui non c’è scritto niente. La polizia fa i suoi rilievi, il più alto in grado dice all’altro di riparare la finestra meglio che può e suggerisce alla protagonista di chiamare il vetraio, ma di fatto non è stato rubato nulla. Lei chiede che venga esaminato il block notes, ma i poliziotti non la prendono particolarmente sul serio. Fatto sta che il giorno dopo la finestra viene riparata, ma se la ritroverà di nuovo rotta con un altro taccuino abbandonato.

Continua a chiamare la polizia e ogni giorno parti dell’appartamento vengono distrutte, un giorno dopo l’altro.

Uno dei due poliziotti, quello più basso in grado, si affeziona alla protagonista e cerca di darle ua mano, ma lei, a mano a mano che penetra nell’irrealtà, cerca di evitare di essere aiutata. Tant’è che si chiede a che cosa serva quel taccuino e decide di scriverci una cosa. Da qui inizierà una comunicazione con ciò che troverà nel taccuino di volta in volta. E a mano a mano il suo appartamento si decomporrà, bombardato da quel qualcosa che le lascia il taccuino.

Questa è una forza inintellegibile. È la storia di un rimosso, del riemergere di un rimosso, del suo passato collegato a un’esperienza recente che lo risveglia. È liberatorio perché dietro l’angoscia che c’è nell’animazione di un rimosso c’è il riscatto, almeno caso della protagonista.

 È anche questa una storia di resurrezione: alla fine la protagonista dell’ultimo racconto trova forse se stessa, anche se non dove pensava di potersi trovare, o quantomeno trova qualcuno a cui dire Io sono qui.

Trova il modo per uscire. La casa è il simbolo della sua clausura e della sua incapacità di capire ciò che c’è fuori. Per lei il tempo si è fermato lì.

 Nei due romanzi abbiamo vicende angoscianti che si risolvono nel peggio, mentre qui leggiamo tre storie che si aprono alla speranza, quindi con un carattere diverso, pur avendo elementi in comune. E anche lo stile cambia, facendosi via via più sciolto e immediato.

Infatti volevo mostrare tre scritture diverse, tre toni diversi. Può darsi che poi si vada perdere l’identificazione con un certo tipo di voce dell’autore.

 Hai un’immaginazione sfrenata e spesso apocalittica.

Quando ero piccolo tante persone mi dicevano che avevo una grande fantasia, io non gli credevo perché mi sembravano fantasie banali, allora mi sforzavo e scavavo ulteriormente. Forse con l’esercizio è venuto fuori qualcosa di migliore.

 I tuoi studi come ti hanno aiutato?

Per nulla: li ho mollati subito. Ho fatto il liceo classico perché avevo in mente che nella vita avrei solo letto e scritto, poi sono andato a lavorare con mio padre e da lì ho solo letto e scritto.

 I tuoi protagonisti rappresentano sempre qualcosa di preciso.

Spesso non hanno neppure un nome, perché rappresentano, in effetti, qualcosa di molto preciso, e non c’è neanche bisogno di connotarli. Sono personaggi piuttosto universali: il loro bello è che si possono prestare ad inclinazioni inattese.

 Quando incominci a scrivere una storia parti dalla trama o dai personaggi?

Parto da un’immagine: di solito sono risvegliato all’improvviso da immagini delle quali non conosco neanche la sorgente. Poi ho notato che è come camminare in un campo dove noti una zolla, la scopri e vedi che sotto c’è un pozzo profondissimo; e da lì devi attingere, c’è tantissima ispirazione. Penso di aver scritto più cose sull’ispirazione che non dall’ispirazione, perché vivo molto di immagini; per fortuna mi sfogo nelle poesie, quindi molte cose riesco a renderle lì. Ad esempio mentre scrivevo In albis stavo camminando avanti e indietro per casa, al telefono con la mia ragazza quando abitavo lontano, andavo avanti e indietro nelle stanze con luci alcune volte accese altre volte spente; dietro la porta del bagno mi sono convinto che ci fosse qualcuno, e quando poi sono tornato ho acceso la luce e ho controllato, ho visto che non c’era nessuno e ho pensato: Ok, non c’è nessuno ma non posso negare di aver sentito che c’era, quindi perché adesso devo dire che non c’è? Da questa considerazione è nata l’immagine di una persona che entra nella tua casa e che non puoi vedere. Nasce anche dalla suggestione.

È un metodo abbastanza felliniano.

Sì, è possibile, a volte è un po’ oscuro. Quando non capisco qualcosa cerco di esagerarne i contenuti per poi ridurli e riuscire a vedere ciò che non capivo. Mentre altre volte mi vengono in mente situazioni piuttosto grottesche da cui cerco di capire cosa salta fuori.

 La prima stesura la fai a mano, a macchina o direttamente al computer?

Dipende, in genere con le stesure trascrivo dal computer a mano e poi di nuovo al computer, per correggermi e rileggermi.

 Questa è una domanda provocatoria, nel tuo caso: quanto ritieni che sia importante la leggibilità in un’opera letteraria?

Personalmente poco: ritengo che più un autore mette del proprio meglio sia. Posso anche far fatica a leggere un libro, ma voglio arrivare in fondo per poter dire: adesso quando vedo una certa cosa posso vederla in tutt’altro modo rispetto a prima.

 Secondo te l’arte, nello specifico la letteratura e la narrativa, può e deve produrre coscienza nel lettore?

Senza non sarebbe arte. Può capitare che non funzioni, ma nelle intenzioni non può mancare l’idea di smuovere delle coscienze. Se un romanzo, nel suo piccolo, in qualche modo non mi sconvolge, non mi interessa. Posso benissimo farmi una passeggiata ed è molto meglio di leggermi un libro.

Secondo te la letteratura può avere ancora un potere rivoluzionario?

Temo di no, l’appiattimento oggi è straordinario, i best-seller sono veramente tristi; non credo che la gente voglia essere rivoluzionaria, che vada alla ricerca di qualcosa che la possa smuovere da una comodità della loro mente.

 Erri De Luca ha detto: “Lo scrittore deve essere più piccolo della materia che racconta”; sei d’accordo?

Spesso si viene sormontati da ciò che si scrive, ma non è una consapevolezza, accade e basta: il libro ti supera e non puoi farci niente.

Faccio fatica a portare in giro il mio libro e presentarlo: quando su un testo ci lavoro otto o nove anni, ci sono dentro tante di quelle cose che sono al di là della mia capacità di manipolarle tutte insieme.

Ogni buono scrittore è anche un assiduo lettore; quali sono le letture che ti hanno influenzato maggiormente?

Gli autori che ho frequentato di più sono stati Mishima, Philip K. Dick e Kerouac, anche se non lo amo come autore, però mi piace leggerlo. Poi i classici come Tolstoj. I tre classici che prendo come esempio sono Metamorfosi di Ovidio, Amleto di Shakespeare e Guerra e Pace di Tolstoj: secondo me in quei tre c’è tutto il romanzo moderno.

 Stai lavorando ad un nuovo libro?

Sì, ma in realtà sono tanti. Il prossimo che tenterò di pubblicare è una sorta di continuazione di “H”: sono altri personaggi però c’è qualcosa di simile, è un personaggio che si sveglia la mattina e si ritrova una inspiegabile ferita in faccia. Si convince che l’unico modo di ricongiungersi alla sua amata sia quello di distruggere tutto quello che c’è in mezzo. È un viaggio dal momento in cui esce di casa a quello in cui si ricongiungerà con lei, è tutto quello che c’è in mezzo, che lui vorrà distruggere.

Perché scrivi? Perché come canale per esprimerti hai scelto la scrittura?

Non lo so. Mi sono sempre piaciuti moltissimo i libri, fin da piccolo. Amavo particolarmente i caratteri stampati, i libri con le “g” stampate nel modo in cui piacevano a me. Poi ho sempre avuto delle voci che insistevano perché raccontassi delle storie, quindi la scrittura è diventato un canale naturale, senza che decidessi di farlo.

 Essere uno scrittore che cosa ti ha insegnato?

Mi ha insegnato prima a un confronto con me stesso e poi a cercare di dargli una forma, che è la cosa più difficile. Posso anche avere molte sensazioni dentro di me, ma poi le parole della nostra lingua non rappresentano perfettamente le nostre sensazioni, quindi bisogna costruire dei sistemi, delle strutture che, escludendo delle immagini, permettono di rappresentare ciò che senti. Bisogna costruire qualcosa attorno a quello che provi per dare un’idea di quello che provi.

 Per questo frequenti anche la poesia?

In poesia si riesce a creare un’immagine con poche parole. La scrittura serve per dire l’indicibile, in qualche modo, per approssimazione.

 

Trascrizione di Riccardo Crippa

(pubblicato con l'autorizzazione di www.inkroci.it)

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