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mercoledì 9 dicembre 2020

Storia di San Pietrogurgo - Parte Sesta

 di Tatiana Bertolini


Gli scrittori e S. Pietroburgo (Prima Parte)





 

 

 

 


Biblioteca nazionale russa a S. Pietroburgo

Anche la letteratura russa ha un debito con Pietro il Grande.

Oltre ad aver introdotto le cifre arabe, più pratiche del macchinoso sistema di numerazione slavo, lo zar semplificò l’alfabeto cirillico introducendo lettere greche e latine, e anche questo sicuramente giovò allo sviluppo della letteratura. L’antico cirillico rimase in uso solo per i testi ecclesiastici mentre dal 1710 tutti gli altri scritti dovevano utilizzare questo nuovo alfabeto.


Anche se le accademie e le scuole da lui fondate furono in prevalenza dedicate allo studio di materie scientifiche, come la Scuola di matematica e scienze marittime di Mosca, dove si studiavano aritmetica, geometria, trigono­metria, astronomia e geografia e la Scuola di medicina fondata sempre a Mosca nel 1706, a partire dal 1716 Pietro I aprì le prime 12 scuole elementari in centri urbani di provincia, che nel 1723 erano diventate 45. Queste scuole furono il primo fondamentale passo per un’alfabetizzazione della popolazione, non più limitata alla classe ecclesiastica (lo zar considerava i monaci dei perdigiorno). Del resto, a quel tempo, anche tra i nobili vi erano vaste sacche di analfabetismo.

Sempre a Pietroburgo lo zar fondò la prima biblioteca generale della Russia.

Sono giunti a noi i titoli dei primi 600 libri pubblicati in questo periodo, tra il 1725 e il 1775 si stima che siano stati pubblicati altri 2000 titoli, che salirono a 7500 nell’ultimo quarto di secolo. 


                                 Biblioteca Nazionale  russa: sala di lettura   

                

Sotto Caterina II iniziarono i lavori per l’edificazione della Biblioteca Nazionale russa sul Prospect Moskovskij, in essa sono raccolte in un’apposita sezione le opere di Voltarie con cui la zarina tenne una corrispondenza.       

Caterina II con un editto del 1783 autorizzò la creazione di case editrici private.                                                                                          

Iniziava così la grande avventura della  letteratura russa moderna                    

                                                      Sala dedicata a Voltaire


 S. Pietroburgo nell’immaginario della letteratura russa

Tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800 si ebbe un fortissimo inurbamento della città: i ministeri erano stati ormai tutti trasferiti a S. Pietroburgo. Questo comportò ovviamente l’arrivo in grande numero di impiegati ministeriali, artigiani, commercianti e proletari, in specie lavoratori edili. La città fino ad allora progettata e costruita secondo disegni astratti che da un lato si dovevano adattare alla morfologia del fiume ma dall’altro dovevano rispondere ad esigenze di fasto imperiale (ad esempio il disegno e il progetto del Prospect Nevskij) fu in un certo senso stravolta e riscritta da un insieme di nuovi edifici, spesso collegati tra loro da cortili interni, simili ad alveari, dove vivevano in precarie condizioni igieniche, scarsa illuminazione e areazione, famiglie numerose che in alcuni casi subaffittavano stanze o parti di stanze a studenti o impiegati. Per tutto l’ottocento quello dell’affitto delle camere ammobiliate fu una delle principali attività commerciali della città.

Pietroburgo però rimase estranea al concetto, ancor presente nel paese, della Santa Russia con una funzione messianica da adempiere. Da quando, alla fine del XVI secolo, a Mosca era stato nominato un Patriarca (il più alto grado nella chiesa Ortodossa) essa era divenuta la terza città santa dopo Gerusalemme e Roma, superando di importanza la stessa Bisanzio caduta nel frattempo in mano ai turchi. Le riforme di Pietro e delle zarine a lui succedute non erano ancora state accettate, anche se attuate, dalla gran parte del popolo russo.

San Pietroburgo nasce con un mito duplice e controverso: realizzazione della perfezione e finestra sull’Europa.

E’ una disgrazia abitare a San Pietroburgo la città più astratta e premeditata del mondo” dirà Dostoevskij nelle Memorie del sottosuolo.

Sospesa tra un passato che non ha e un futuro che potrebbe non avere, diviene atta a creare visioni, è equiparata ad un’illusione ottica, ad un miraggio. I due aggettivi usata per identificarlo sono “Trasparente” e “spettrale” ovvero luogo dove, a dispetto della sua razionalità, il fantasmagorico e il sovrannaturale fanno le loro improvvise apparizioni e lei stessa appare a volte come un incubo.


Alexandr S. Puškin (1799 – 1737)

 Nacque a Mosca ma trascorse l’infanzia e la giovinezza a Zarskoe Selo dove frequentò il liceo ospitato nel palazzo di Caterina. Iniziò da giovane a comporre versi, anche se nella sua produzione troviamo lavori di vario genere dai racconti in prosa ai drammi teatrali. Frequentò circoli letterali e una società La lampada verde, a carattere progressista. Alcune sue poesie però suscitarono l’ira di Alessandro I che lo avrebbe voluto confinare in Siberia, se la cavò con un confino nel Caucaso. Essendo stato amico di alcuni decabristi al fallimento della loro rivolta temette una perquisizione e bruciò alcuni suoi scritti. In seguito Nicola I lo perdonò e diventò il suo personale censore. Morì il 29 gennaio 1737 per le ferite riportate due giorni prima durante un duello combattuto contro un nobile che lo aveva pubblicamene offeso rinfacciandogli la condotta “leggera” della moglie.

Questa molto in sintesi la vita dello scrittore considerato colui che ha rin­novato la letteratura russa; in molti ritengono che dai suoi libri abbia origine la letteratura russa moderna.

Come si è visto nel frammento riportato dal Cavaliere di bronzo, Puškin amava S. Pietroburgo, ma più la città in sé che alcuni suoi abitanti, infatti egli non risparmia frecciate verso l’aristocrazia che spreca nelle vacuità il suo tempo. Puškin figlio di un aristocratico e della nipote di un principe abissino donato come servo a Pietro il Grande, frequenta soprattutto i salotti e il mondo aristocratico di cui sa cogliere i difetti, i vizi e gli atteg­giamenti snobistici. Come Tatiana, un suo personaggio, che rimpiange la vita e il mondo in cui aveva vissuto in provincia a confronto della realtà che ha trovato a corte.

Pietroburgo nei suoi testi appare spesso come trasfigurata e narrata nella sua monumentalità

Sempre nel Cavaliere di Bronzo egli narra Pietro il Grande che, sulla riva del mare, si immagina come sarà la città che si appresta a fondare e racconta poi come essa sia sorta. Di seguito alcune strofe dell’inizio dl poema:

E pensava egli: / di qui minacceremo lo svedese./Di qui una città sarà fondata/ del superbo vicino in onta e danno./Qui da natura fu per noi disposto/di aprire una finestra sull’Europa,/ di porre un fermo piede sul mare./E qui per onde a loro nuove, verranno ospiti a noi tutti i vessilli,/ e in piena libertà faremo festa.

Passarono cent’anni: la giovane città…. Dal buio delle selve, dall’acqua dei paduli, sorse pomposa, altera; dove prima il pescatore finno, ….. gettava in acque ignote/l’antica rete, adesso/ sulle animate sponde si stringono le moli ben formate/ di palazzi e di torri;…La Neva s’è vestita di granito: ponti si son curvati sopra le acque, di verdicupi giardini/ le sue isole si sono coperte,/ ed alla capitale più giovane davanti/ la vecchia Mosca s’è oscurata, / come davanti a nuova imperatrice / vedova porporata.”

Da un altro celebre poema, Eugenio Onegin, la città è narrata al suo risveglio mentre il protagonista torna a casa dopo una notte di balli:

Mezzo addormentato dal ballo va a letto: e l’irrequieta Pietroburgo è già svegliata dal tamburo. Si alza il mercante, va il merciaiolo, si trascina il cocchiere al suo posto, la popolana di Ochta s’affretta con la brocca e sotto di lei scricchiola la neve mattutina. Si sveglia il piacevole rumore del giorno. Le imposte sono aperte; il fumo dei camini sale come una colonna bluastra; e il fornaio, un tedesco molto preciso, col suo berretto di carta, già più di una volta ha aperto il suo sportellino

Oppure fa da sfondo, nelle sere d’estate, ai ricordi dell’autore o alle meditazioni del protagonista:

Come sovente ci inebriavamo, nel tempo d’estate, quando il cielo notturno sulla Neva, era trasparente e luminoso, e il vetro gioioso delle acqua non rifletteva il volto di Diana.      Con l’anima colma di rimpianti, e appoggiandosi al granito, Eugenio stava pensieroso, proprio come si è dipinto il vate. Tutto era calmo, solo le sentinelle notturne si davan la voce, e lo strepito lontano di carrozze echeggiava improvviso dalla Mil’jonnaja; solo una barca agitando i remi navigava sul fiume insonnolito;

 

Nicolaj V. Gogol  (1809-1852)   

 Di tutto altro genere il legame esistente tra Gogol e la nuova capitale russa. Di origine ucraina Gogol nacque a Veliky Soročinij; scrittore e drammaturgo, si ritiene uno degli iniziatori del realismo russo. La sua narrazione, priva del lirismo che caratterizza l’opera di Puškin, tende piuttosto al satirico, al sarcastico e al surreale. Ma un surreale con risvolti drammatici. Celebre la sua commedia L’ispettore generale, mentre il suo principale romanzo Le anime morte fu dallo stesso bruciato nell’ultima parte quando ormai l’autore aveva iniziato a perdere lucidità mentale.

Amico di Puškin che recensì assai favorevolmente le sue Veglie nella fattoria di Dikanka, scrisse anche un lavoro a carattere storico Tara’s Bulba ispirato da La figlia del capitano di Puškin. Morì a soli 41 anni in uno stato di alienazione mentale.

La sua Pietroburgo se da una parte appare rutilante dall’altra ci mostra la miseria e la tristezza della vita dei più poveri tenuti ai margini, o il grigiore degli impiegati, costretti a copiare all’infinito documenti e scartoffie e che paiono lontanissimi dalle magnificenze della città.

Dai suoi Racconti di Pietroburgo proponiamo un altro brano da La Prospettiva Nevskij:

tutto fonde sulla Prospettiva Nevskij il potere della forza e il potere della debolezza. Quale veloce fantasmagoria si svolge qui nel corso d'una giornata! Quanti mutamenti in sole ventiquattr'ore! Cominceremo dal primissimo mattino, quando tutta Pietroburgo odora di panini ancor caldi, appena sfornati, ed è invasa da vecchie in abiti e pellicciotti laceri che compiono le loro incursioni nelle chiese e contro i passanti pietosi. Allora la Prospettiva Nevskij è vuota: i solidi proprietari dei negozi e i loro commessi dormono ancora nelle loro camicie di tela d'Olanda oppure insaponano le loro nobili guance e bevono il caffè; i mendicanti si radunano davanti alle porte delle pasticcerie, dove un garzone sonnolento, che il giorno prima svolazzava come una mosca servendo la cioccolata, adesso esce furtivo, senza cravatta, con una scopa in mano, e butta loro dei pasticcini raffermi e altri avanzi di cibo. Per le vie si trascina gente povera; talvolta passano anche dei contadini russi che s'affrettano al lavoro con stivali così inzac­­­­­­cherati di fango che nemmeno il Canale Ekaterìnskij, pur celebre per la sua pulizia, riuscirebbe a lavare. A quest'ora di solito non sta bene che le signore escano di casa, perché il popolo russo ama esprimersi con termini così violenti che di certo non si odono nemmeno a teatro….

Si può dire senz'altro che a quest'ora, ossia fino alle dodici, la Prospettiva Nevskij per nessuno rappresenta uno scopo ma serve soltanto come mezzo: a poco a poco essa si riempie di persone che hanno le loro occupazioni, le loro preoccupazioni, i loro fastidi, ma non pensano per nulla alla strada….”

Questa strada è descritta come un caleidoscopio, dove a seconda dell’ora vi passano i diversi ceti e le varie classi sociali del suo tempo: istitutori, bambinaie, impiegati, giovani apprendisti, soldati o donne a passeggio.

Ancora più realistica la vicenda del protagonista de Il Cappotto, uno dei racconti più celebri e significativi della produzione letteraria non solo di questo autore, tanto che fece dire a Dostoevkijsiamo tutti usciti dal cappotto di Gogol”. In questo brano un oscuro scrivano si priva persino della luce della candela alla sera a casa per rimediare i soldi per un cappotto nuovo onde resistere al freddo pietroburghese. E quando alla fine riesce ad indossarlo:

Akàkij Akakièviè camminava in gaia disposizione di spirito e una volta si mise persino, chissà perché, a correre dietro a una dama che gli passò

accanto in un lampo, muovendosi in tutto il corpo in modo singolare. Si arrestò però subito e si rimise a camminare come prima, piano piano, meravigliandosi di quella corsa a cui era stato spinto chissà da cosa. Ben

presto davanti a lui si allungarono quelle viuzze deserte che già poco allegre di giorno, di notte sono ancora più remote e solitarie: i lampioni accesi erano rari, perché probabilmente qui si distribuiva meno olio; cominciarono le case di legno, le palizzate, non un'anima viva; solo la neve scintillava sulle strade, e basse stamberghe addormentate nereggiavano tristemente con le imposte chiuse. Egli s'avvicinava al punto dove la via sfociava in una piazza sconfinata, simile a un pauroso deserto, con le sue case appena visibili all'altra estremità.

Lontano, Dio sa dove, baluginava il lumicino d'una garrita che pareva in capo al mondo. A questo punto la gaiezza di Akàkij Akakièviè diminuì notevolmen­te. Egli s'inoltrò nella piazza non senza un certo involontario timore, proprio come se il suo cuore presentisse qualcosa di spiacevole. Si guardò indietro e ai lati: intorno a lui c'era come un mare. «No, meglio non guardare,» pensò e continuò a camminare con gli occhi chiusi; quando li riaprì per sapere se fosse vicina la fine della piazza, vide di colpo davanti a sé, quasi a un palmo dal suo naso, alcuni uomini con i baffi, come fossero quei baffi non poteva dirlo. Gli occhi gli si confusero e sentì una fitta al petto. «Ma questo cappotto è mio!» disse uno di quelli con voce tonante, afferrandolo per il colletto. Akàkij Akakièviè avrebbe voluto gridare «aiuto!», ma l'altro gli mostrò sotto la bocca un pugno grosso come la testa d'un funzionario dicendo: «Prova un po' a gridare!»

Akàkij Akakièviè si accorse soltanto che gli toglievano di dosso il cappotto e gli davano una spinta di dietro con il ginocchio; egli cadde bocconi nella neve e non capì più nulla. Dopo alcuni minuti ritornò in sé e si rialzò in piedi, ma ormai non c'era più nessuno. Sentì che lì faceva freddo e che il cappotto non c'era più, fece per gridare, ma pareva che la sua voce non potesse giungere fino all'altro capo della piazza. Disperato, seguitando a gridare, si mise a correre attraverso la piazza, dritto verso la garitta accanto alla quale stava una guardia appoggiata alla sua alabarda e che guardava con curiosità, chiedendosi che razza di demonio stesse correndo verso di lui da lontano gridando in quel modo. Akàkij Akakièviè arrivò fino a lui di corsa e con voce affannata cominciò a urlargli che dormiva e non badava a nulla, non vedeva neppure che stavano rapinando una persona. La guardia rispose che non aveva visto nulla; aveva, sì, visto che l'avevano fermato, in mezzo alla piazza due uomini, ma aveva pensato che fossero suoi amici; e che invece di imprecare inutilmente avrebbe fatto meglio ad andare l'indomani dal commissario e il commissario avrebbe fatto ricerche per trovare chi gli aveva preso il cappotto.”

Purtroppo le autorità non lo prendono sul serio e alla fine egli muore di crepacuore. “E Pietroburgo rimase senza Akàkij Akakièviè, come se mai fosse esistito. Scomparve e si dileguò un essere che nessuno aveva difeso, che a nessuno era stato caro, per nessuno interessante, che non aveva attirato su di sé nemmeno l'attenzione del naturalista, il quale pure non disdegna di infilare su uno spillo una comunissima mosca e di osservarla al microscopio, un essere che aveva sopportato docilmente tutte le irrisioni del suo ufficio ed era sceso nella tomba senza aver compiuto alcuna straordinaria impresa; però, verso la fine della vita, a questo essere era apparso un ospite luminoso sotto forma d'un cappotto, un cappotto che per un istante aveva ravvivato la sua povera esistenza, ma sul quale poi s'era abbattuta implacabile la sciagura, così come si abbatte sugli imperatori e i sovrani del mondo

A questo punto il racconto prende una piega fantastica, tipica della narrativa di Gogol e di molta narrativa russa a venire:

Per Pietroburgo si sparsero a un tratto delle voci, che al Ponte Kalinkìn e anche molto più lontano aveva cominciato ad apparire un morto dall'aspet­to d'un impiegato che cercava un cappotto rubato e, con il pretesto del cappotto rubato, strappava da tutte le spalle, senza badare a grado o titolo, ogni sorta di soprabiti: con collo di gatto, di castoro, imbottiti, pellicce di procione, di volpe, d'orso; insomma, pelli e peli d'ogni genere che gli uomini hanno inventato per coprirsi. Uno dei funzionari del ministero vide il morto con i suoi occhi e vi riconobbe immediatamente Akàkij Akakièviè; ciò gli procurò un tale terrore che si buttò a correre a gambe levate e perciò non poté distinguerlo bene, vide soltanto che da lontano il morto lo minacciava con un dito. Da tutte le parti cominciarono ad arrivare lamentele, che le schiene e le spalle, non soltanto dei consiglieri titolari, ma persino dei consiglieri segreti, erano minacciate di terribili infreddature a causa di quella notturna asportazione di soprabiti. Alla polizia venne data disposizione di catturare il morto a qualun­que costo, e di punirlo nella maniera più feroce perché servisse da esempio agli altri; e si deve dire che quasi vi riuscì.

Proprio così. La guardia di non so quale quartiere riuscì, nel vicolo Kirjùškin, ad agguantare il morto per il bavero, proprio sul fatto, mentre tentava di strappare un cappotto di panno di frisia a un certo musicista a riposo che a suo tempo suonava il flauto. Afferratolo per il bavero, chiamò gridando due o tre colleghi ai quali l'affidò affinché lo tenessero, mentre lui solo per un istante infilò una mano in uno stivale per tirarne fuori la tabacchiera e ristorarsi il naso che gli si era già congelato sei volte nella sua vita; ma di certo il tabacco era d'una qualità che nemmeno un morto poteva sopportare. Chiusa con il dito la narice destra, la guardia non fece in tempo ad aspirare una mezza presa con la sinistra, che il morto starnutì così forte da spruzzare completamente gli occhi a tutti e tre. Mentre essi alzavano le mani per asciugarsi, il morto si dileguò e di lui scomparve ogni traccia. Nessuno dei tre avrebbe saputo dire con precisione se l'avesse avuto veramente fra le mani. Da quel giorno le guardie si presero una tal paura dei morti che temevano persino d'agguantare i vivi e si limitavano a gridare da lontano: «Ehi, tu, va per la tua strada!», e il morto-funzionario cominciò a farsi vedere anche oltre il Ponte Kalinkìn, incutendo non poco terrore in tutta la gente pavida. Ma noi abbiamo completamente abbandonato quel personaggio importante, che in realtà era forse stato la causa della piega fantastica assunta da questa storia peraltro assolutamente veridica. Prima di tutto un dovere di giustizia esige che si dica che quel personaggio importante, subito dopo che il povero e strapazzato Akàkij Akakièviè se ne era andato, aveva provato qualcosa di simile alla compassione. La compassione non gli era estranea; il suo cuore era accessibile a molti buoni impulsi sebbene il grado troppo spesso impe­disse loro di manifestarsi. Non appena fu uscito dal suo gabinetto l'amico di passaggio, egli si mise a pensare al povero Akàkij Akakièviè. E da quel momento quasi ogni giorno cominciò ad apparirgli il povero Akàkij Akakièviè che non aveva saputo resistere alla strapazzata del superiore. Questo pensiero l'agitava a tal punto che una settimana dopo egli addirittura decise di mandare un impiegato per sapere come stesse e che cosa facesse e se non lo si potesse aiutare in qualche modo; e, quando gli riferirono che Akàkij Akakièviè era morto prematuramente di febbre, rimase sbigottito, senti i rimorsi della coscienza e per tutta la giornata non fu più lui.  ………..

Così l'importante personaggio scese le scale, montò su una slitta e disse al cocchiere: «Da Karolìna Ivànovna», mentre da parte sua, avvolto assai confortevolmente in un caldo cappotto, restava in quella piacevole disposizione d'animo, migliore della quale, per un russo, non si può immaginare, e cioè quando non si pensa a nulla e i pensieri ti frullano da soli in testa, uno più gradevole dell'altro, senza neppure la fatica di inseguirli e cercarli. D'ottimo umore, egli andava ricordando i momenti simpatici della serata appena trascorsa; Di tanto in tanto, tuttavia, gli dava noia il vento impetuoso che, levandosi improvvisamente da chissà dove e chissà per quale motivo, gli tagliava la faccia, gli gettava addosso folate di neve, gonfiando come una vela il bavero del cappotto, o rovesciandoglielo di colpo, con forza innaturale, sulla testa, costringendolo così a fare continui sforzi per rimetterlo a posto. A un tratto l'importante personaggio sentì che qualcuno l'aveva afferrato vigorosamente per il bavero. Voltandosi, vide un uomo di piccola statura con una vecchia uniforme consunta e, non senza terrore, riconobbe in lui Akàkij Akakièviè. La faccia dell'impiegato era bianca come la neve e sembrava proprio la faccia d'un morto. Ma il terrore dell'importante personaggio superò tutti i limiti quando vide che la bocca del morto si storceva e, alitandogli addosso un orribile lezzo di tomba, pronunciava queste parole:

«Ah! Sei tu finalmente! Finalmente, ecco, t'ho raggiunto! È il tuo cappotto che mi serve! Non ti preoccupasti del mio, anzi mi maltrattasti, e adesso dammi il tuo!» Il povero personaggio importante per poco non defunse. Sebbene in ufficio e in genere di fronte agli inferiori fosse un uomo di carattere, e di certo chiunque, vedendo il suo volto e la sua figura virile avrebbe detto: «Ah, che uomo!» qui, come accade a molti che hanno un aspetto da eroi, sentì un tal terrore che non senza ragione cominciò a temere che gli pigliasse un colpo. Si tolse egli stesso frettolosamente il cappotto dalle spalle e gridò al cocchiere con voce che non era più la sua:

«Di corsa a casa!» Il cocchiere, udito quel grido, ch'era di quelli che si emettono nei momenti decisivi e s'accompagnano anche con qualcosa di più convincente, ritirò per ogni evenienza la testa nelle spalle, agitò la frusta e partì come una freccia. Pallido, spaventato, anziché da Karolìna Ivànovna, egli arrivò a casa sua, si trascinò come poté fino alla sua stanza e passò la notte in modo assai agitato, tanto che il giorno dopo, al tè del mattino, la figlia gli disse con franchezza: «Oggi sei molto pallido, papà.»

Ma il papà tacque e non fece parola ad alcuno di ciò che gli era accaduto e dove era andato e dove aveva avuto intenzione di andare. Ma ancor più sintomatico è il fatto che da quel giorno cessarono le apparizioni dell'impiegato morto: evidentemente il cappotto generalizio gli era andato a pennello; perlomeno non si sentì più parlare di cappotti strappati.”

 

Fëdor M. Dostoevskij (1821 – 1861)


Nacque a Mosca l’11 novembre del 1821 e frequentò la scuola militare di ingegneria di S. Pietroburgo. Al termine degli studi però preferì dedicarsi alla scrittura e già il suo primo romanzo Povera gente, accolse i favori della critica. Ad esso seguirono altri lavori tra cui, Le notti bianche e Il sosia. Quando lo scrittore aveva 18 anni, nel 1839, suo padre fu ucciso da un gruppo di contadini esasperati dalla sua crudeltà. Nel ricevere la notizia Dostoevkij fu colpito un violento attacco di epilessia che lo lasciò senza sensi. Esso fu il primo di una serie di crisi che lo accompagnarono lungo tutta la sua esistenza.

Per aver frequentato un circolo di socialisti utopistici e aver letto in pubblico una critica a Gogol nel 1849 fu arrestato e condannato a morte. Era già sul patibolo quando gli fu comunicato che la pena capitale era stata commu­tata a quattro anni di lavori forzati in Siberia. Questa vicenda creò inevitabilmente una cesura profonda nella vita dello scrittore. Durante la prigionia egli entrò in contat­to con un’umanità che si era coperta di crimini ma che presentava caratteri complessi e si prestava ad uno studio psicologico che egli non si lasciò sfuggire. Nello stesso tempo si accentuò la sua attenzione verso una visione mistica della vita, dove predominava il concetto di espiazione. In seguito fu inviato come soldato di prima linea in un governatorato siberiano vicino al confine cinese e poté rientrare dap­prima a Tver e poi a Pietroburgo solo nel 1859. Questi dieci anni lo avevano isolato da quello che era stato lo svilup­­­­­­­­­­­­po­­ della letteratura russa. Quando egli tornò nella capitale e riprese a scrivere la sua narrativa era altro rispetto a quella corrente, il suo realismo aveva caratteri più legati allo studio psicologico che alla critica sociale, egli era attirato dalla profondità dello animo umano, non a caso è stato definito come lo scrittore dell’inconscio, se non anche “talento crudele”. Memorie del sottosuolo è il libro che aprì questa seconda fase narrativa, dove il sottosuolo è appunto l’inconscio dell’uomo. A questa fase appartengono i suoi lavori più celebri: Umiliati e offesi, Delitto e Castigo, L’idiota, I Demòni, Il giocatore, I Fratelli Karamzov. E tranne i primi due scritti gli altri non sono ambientati nella capitale. Nel 1861 fondò col fratello Michail una rivista letteraria Vremya (Tempo) sulla quale furono pubblicati a puntate alcuni suoi lavori. Dostoevskij non amava Pietroburgo, la sentiva una città artificiosa, astratta. E di Pietroburgo, fin dai suoi primi lavori, ne descrisse soprattutto le miserie, le condizioni di povertà della maggior parte dei suoi abitanti.

Il primo brano scelto è tratto da Le notti bianche, il protagonista narra in prima persona e descrive la città semivuota al principio dell’estate

 

Soltanto questa mattina compresi di che si trattava, la ragione della mia inquietudine: sono scappati tutti in campagna… Perdonatemi la parola impropria, ma io non sono abituato a scrivere in bello stile. Sì, tutta Pietroburgo se n’è andata in campagna.

…E subito ogni distinto gentiluomo che passava in vettura si mutava, a’ miei occhi, in uno stimato padre di famiglia che si reca a trascorrere giorni allegri, dopo le abituali occupazioni in città, presso i familiari, in una casina di campagna. Tutti i passanti, dopo tre giorni avevan cambiato d’andatura, ed ognuno pareva dicesse chiaramente: «Io non sono qui che di passaggio; tra due ore sarò anch’io partito.»

 Se una finestra si apriva sulla mia strada, una finestra sul cui davanzale avevano tamburinato poco prima piccole dita bianche come lo zucchero, e vi si affacciava una leggiadra testolina di gentil fanciulla per chiamare il vendi­tore ambulante di fiori, supponevo che la giovinetta, con quei fiori, volesse far primavera nel suo appartamento in cui si soffocava dal caldo. Invece tutto ciò significava che anch’essa, tra pochi giorni, sarebbe andata in campagna e avrebbe portati con sé i fiori or ora comprati.

Aggiungo inoltre, poiché ho fatto progressi nella mia nuova scoperta, che io so, dall’aspetto esteriore di una tale o tal altra persona, in quale sito di villeggiatura vada a dimorare, abitualmente o eccezionalmente.

Gli abitanti di Kamenvy, delle isole Aptekarsky o della strada di Peterhov, si distinguono per le maniere ricercate, per l’eleganza delle toilettes estive che indossano e per le belle vetture che posseggono. Gli abitanti di Pergolov hanno una nota particolare di bontà e di saggezza; quelli delle Isole Krestovsky sono dotati di una inimitabile gaiezza.

Incontravo processioni di carrettieri che andavano pigramente, briglie alla mano, davanti ai carri carichi di mobilia, di tavole, di seggiole, di divani turchi e non turchi, di utensili da cucina: il tutto seguito assai spesso da

una cuoca, la quale, seduta su montagne di fagotti, covava i beni dei suoi padroni… Osservavo scivolar via sulla Neva battelli anche essi carichi di masserizie… E carretti e battelli si moltiplicavano a’ miei occhi… Mi sembrava che tutta l’immensa città se n’andasse e, tra breve, ogni strada sarebbe rimasta deserta.

Avevo camminato lungamente e per molto tempo, sì che finii per ritrovarmi oltre la cinta daziaria. Immediatamente la gioia m’invase: avanzavo nei campi senza fatica, come se un pesante fardello mi fosse caduto all’istante

dall’anima.

Tutti coloro che passavano in carrozza mi guardavano con simpatia, tanto che mi avrebbero quasi salutato. Erano tutti contenti: non so perché. Fumavano buoni sigari; io ero felice come non mai. Mi credevo tutt’a un

tratto in Italia, tanto era sorprendente la natura d’intorno. Sorprendente per me, povero cittadino mezz’ammalato, mezzo attossicato dall’atmosfera avvelenata della città.

C’è qualcosa d’ineffabilmente commovente nella campagna pietroburghese. Rientrai in città assai tardi. Suonavano le dieci. La via costeggiava il fiume. Un lungo deserto, a quell’ora…

Sì, io abito un quartiere assai remoto.

Camminavo canticchiando. Quando sono felice (o credo d’esserlo) canticchio sempre. È, penso, l’abitudine degli uomini fugacemente felici, i quali, non avendo né amici né camerati, non sanno con chi condividere quell’attimo di gioia.

Quella sera mi riservava un’avventura.

Appoggiata al parapetto del fiume scorsi, ad un tratto, una donna. Essa sembrava esaminare attentamente il corso dell’acqua torbida. Portava in testa un grazioso cappellino adorno di fiori gialli e, sul dorso, una mantellina civettuola. «È una ragazza certamente bruna», pensai. Essa sembrò non accorgersi del rumore de’ miei passi e non si mosse affatto quando le passai accanto trattenendo il respiro mentre il cuore mi batteva a colpi accelerati.

«È strano, pensai, ma questa ragazza dev’essere assai preoccupata». E tutt’a un tratto mi fermai. Mi sembrò d’aver inteso dei singhiozzi mal repressi. «Non

m’inganno: essa piange».”

 

La ragazza attende un uomo di cui è innamorata, grazie al protagonista è messa in salvo da un malintenzionato e per alcune sere essi si danno appuntamento per conversare, fin quando non arriverà l’uomo di cui è innamorata, ricambiata, e al protagonista non rimarrà altro che il ricordo di questa giovanea della quale si era a sua volta invaghito.

                                                                 

La visione di una città apparentemente serena, vuota per le vacanze e luminosa nelle sue notti lascerà il posto ad una città soffocata dall’afa estiva, abitata da malintenzionati, prostitute e farabutti, che si presentano come persone rispettabili, dove è facile perdersi nell’intrico delle sue vie e commettere anche dei crimini.

Questa è la Pietroburgo di Delitto e Castigo, una città i cui miseri abitanti trascorrono il tempo ad ubriacarsi nelle bettole pur di non dover rimanere in case-alveari in cui manca l’aria e, a volte, anche il cibo.

 


 

 

 

La casa di Rakol’nikov con altorilievo raffigurante lo scrittore

 

Al principio di luglio, in una giornata caldissima, verso sera, un giovane uscì dalla stanzetta che aveva in subaffitto nel vicolo S., scese per strada e a passi lenti, come se fosse indeciso, si diresse verso il ponte K. …

Nella strada il caldo era terribile, e per di più c’era un’afa, una ressa, e dappertutto calcina, impalcature, mattoni, polvere, e quel puzzo speciale      

ben noto d’estate a tutti i pietroburghesi che non hanno la possibilità di prendere una casa in campagna; tutto ciò scosse spiacevolmente i nervi del giovanotto, già abbastanza eccitati anche prima. Il puzzo insopportabile delle bettole, che in quella zona della città sono particolarmente numerose, e gli ubriachi che gli capitavano davanti di continuo nonostante fosse giorno feriale, completavano il tono triste e odioso del quadro. Un senso di profondo disgusto balenò per un attimo sul volto del giovanotto. …. Era vestito così male che un altro, anche essendoci abituato, si sarebbe vergognato a uscire di giorno di strada con simili stracci addosso. D’altra parte in quel rione era difficile che qualcuno badasse al suo modo di vestire. La vicinanza del Mercato del fieno, l’abbondanza di certi locali chiusi, e soprattutto la popolazione di operai e artigiani ammassata in quelle vie e in quei vicoli del centro di Pietroburgo, rendevano il panorama così variopinto che nessuno poteva meravigliarsi se incontrava certi tipi.

 

Raskol’nikov, il protagonista del romanzo, ha ormai commesso il suo duplice omicidio, e ora percorre le vie della sua città che gli ha sempre suscitato pensieri quasi angosciosi.

 

Strinse la moneta nella mano, fece una decina di passi e si girò con il viso verso la Nevà, in direzione del Palazzo d’Inverno. Il cielo era sereno, senza la più piccola nuvola, e l’acqua quasi azzurra, cosa che nella Nevà si vede di rado. La cupola della cattedrale che da nessun altro punto risalta così bene come a guardarla di lì, dal ponte, a venti passi di distanza dalla cappella, splendeva tutta, e in quell’aria limpida si distingueva nettamente ogni suo fregio. Un pensiero angoscioso e non del tutto chiaro occupava ora la sua mente in modo esclusivo. Rimase lì a lungo, a guardar lontano, con gli occhi fissi, conosceva bene quel luogo. Quando frequentava l’università gli capitava spesso, soprattutto nel tornare a casa – forse gli era capitato un centinaio di volte – di fermarsi proprio in quello stesso punto, di fissare attentamente quel panorama davvero splendido e di meravigliarsi quasi sempre per una confusa e indefinibile impressione. Quello splendido panorama gli dava uno strano senso di gelo; per lui quel quadro fastoso era pieno di malinconia e di desolazione… Si meravigliava sempre di quella sua impressione tetra e inesplicabile, e non fidandosi di se stesso, ne rimandava la spiegazione al futuro. Ora si ricordò bruscamente di quei suoi dubbi e problemi di un tempo, egli sembrò che quel ricordo non fosse un caso”.

 

Delitto e Castigo è un romanzo tutto immerso in questa atmosfera quasi surreale ben lontana dall’immagine monumentale di una città imperiale. Ugualmente la città ha assorbito in sé la vicenda qui narrata. Ancora oggi una delle prime cose che le guide mostrano ai turisti nel giro in pullman è proprio la Casa dell’usuraia, la vecchia uccisa dal Rodion Raskol’nikov.



 

 

 

 

 

La casa abitata da Dostoevskij al tempo in cui scrisse Delitto e Castigo nel quartiere dove colloca l’abitazione dell’usuraia

 

 

 

 

 

 

 

                

Dettaglio della lapide commemorativa


“In questa casa, negli anni 1864-1867 visse Fëdor Michailovic Dostoevskij, qui scrisse il romanzo Delitto e castigo”

 

(segue) 

 

 

 

 

 

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