di Tatiana Bertolini
Gli scrittori e
S. Pietroburgo (Prima Parte)
Biblioteca
nazionale russa a S. Pietroburgo
Anche la letteratura russa ha un debito con Pietro il Grande.
Oltre
ad aver introdotto le cifre arabe, più pratiche del macchinoso sistema di
numerazione slavo, lo zar semplificò l’alfabeto cirillico introducendo lettere
greche e latine, e anche questo sicuramente giovò allo sviluppo della
letteratura. L’antico cirillico rimase in uso solo per i testi ecclesiastici
mentre dal 1710 tutti gli altri scritti dovevano utilizzare questo nuovo
alfabeto.
Anche
se le accademie e le scuole da lui fondate furono in prevalenza dedicate allo
studio di materie scientifiche, come la Scuola
di matematica e scienze marittime di Mosca, dove si studiavano aritmetica,
geometria, trigonometria, astronomia e geografia e la Scuola di medicina fondata sempre a Mosca nel 1706, a partire dal
1716 Pietro I aprì le prime 12 scuole elementari in centri urbani di provincia,
che nel 1723 erano diventate 45. Queste scuole furono il primo fondamentale
passo per un’alfabetizzazione della popolazione, non più limitata alla classe
ecclesiastica (lo zar considerava i monaci dei perdigiorno). Del resto, a quel
tempo, anche tra i nobili vi erano vaste sacche di analfabetismo.
Sempre a Pietroburgo lo zar fondò
la prima biblioteca generale della
Russia.
Sono giunti a noi i titoli dei primi 600 libri pubblicati in questo periodo, tra il 1725 e il 1775 si stima che siano stati pubblicati altri 2000 titoli, che salirono a 7500 nell’ultimo quarto di secolo.
Sotto Caterina II iniziarono i lavori per l’edificazione della Biblioteca Nazionale russa sul Prospect Moskovskij, in essa sono raccolte in un’apposita sezione le opere di Voltarie con cui la zarina tenne una corrispondenza.
Caterina II con un editto del 1783 autorizzò la creazione di case editrici private.
Iniziava così la grande avventura della letteratura russa moderna
Tra
la fine del 1700 e l’inizio del 1800 si ebbe un fortissimo inurbamento della
città: i ministeri erano stati ormai tutti trasferiti a S. Pietroburgo. Questo
comportò ovviamente l’arrivo in grande numero di impiegati ministeriali,
artigiani, commercianti e proletari, in specie lavoratori edili. La città fino
ad allora progettata e costruita secondo disegni astratti che da un lato si
dovevano adattare alla morfologia del fiume ma dall’altro dovevano rispondere
ad esigenze di fasto imperiale (ad esempio il disegno e il progetto del Prospect
Nevskij) fu in un certo senso stravolta e riscritta da un insieme di nuovi
edifici, spesso collegati tra loro da cortili interni, simili ad alveari, dove
vivevano in precarie condizioni igieniche, scarsa illuminazione e areazione,
famiglie numerose che in alcuni casi subaffittavano stanze o parti di stanze a
studenti o impiegati. Per tutto l’ottocento quello dell’affitto delle camere
ammobiliate fu una delle principali attività commerciali della città.
Pietroburgo
però rimase estranea al concetto, ancor presente nel paese, della Santa Russia con
una funzione messianica da adempiere. Da quando, alla fine del XVI secolo, a
Mosca era stato nominato un Patriarca (il più alto grado nella chiesa
Ortodossa) essa era divenuta la terza città santa dopo Gerusalemme e Roma,
superando di importanza la stessa Bisanzio caduta nel frattempo in mano ai
turchi. Le riforme di Pietro e delle zarine a lui succedute non erano ancora
state accettate, anche se attuate, dalla gran parte del popolo russo.
San
Pietroburgo nasce con un mito duplice e controverso: realizzazione della
perfezione e finestra sull’Europa.
“E’ una disgrazia abitare a San Pietroburgo
la città più astratta e premeditata del mondo” dirà Dostoevskij nelle Memorie
del sottosuolo.
Sospesa
tra un passato che non ha e un futuro che potrebbe non avere, diviene atta a
creare visioni, è equiparata ad un’illusione ottica, ad un miraggio. I due
aggettivi usata per identificarlo sono “Trasparente” e “spettrale” ovvero luogo
dove, a dispetto della sua razionalità, il fantasmagorico e il sovrannaturale
fanno le loro improvvise apparizioni e lei stessa appare a volte come un
incubo.
Questa
molto in sintesi la vita dello scrittore considerato colui che ha rinnovato la
letteratura russa; in molti ritengono che dai suoi libri abbia origine la
letteratura russa moderna.
Come
si è visto nel frammento riportato dal Cavaliere di bronzo, Puškin amava S.
Pietroburgo, ma più la città in sé che alcuni suoi abitanti, infatti egli non
risparmia frecciate verso l’aristocrazia che spreca nelle vacuità il suo tempo.
Puškin figlio di un aristocratico e della nipote di un principe abissino donato
come servo a Pietro il Grande, frequenta soprattutto i salotti e il mondo
aristocratico di cui sa cogliere i difetti, i vizi e gli atteggiamenti
snobistici. Come Tatiana, un suo personaggio, che rimpiange la vita e il mondo
in cui aveva vissuto in provincia a confronto della realtà che ha trovato a
corte.
Pietroburgo
nei suoi testi appare spesso come trasfigurata e narrata nella sua
monumentalità
Sempre
nel Cavaliere
di Bronzo egli narra Pietro il Grande che, sulla riva del mare, si
immagina come sarà la città che si appresta a fondare e racconta poi come essa
sia sorta. Di seguito alcune strofe dell’inizio dl poema:
“E pensava egli:
/ di qui minacceremo lo svedese./Di qui una città sarà fondata/ del superbo
vicino in onta e danno./Qui da natura fu per noi disposto/di aprire una
finestra sull’Europa,/ di porre un fermo piede sul mare./E qui per onde a loro
nuove, verranno ospiti a noi tutti i vessilli,/ e in piena libertà faremo
festa.
Passarono
cent’anni: la giovane città…. Dal buio delle selve, dall’acqua dei paduli,
sorse pomposa, altera; dove prima il pescatore finno, ….. gettava in acque
ignote/l’antica rete, adesso/ sulle animate sponde si stringono le moli ben formate/
di palazzi e di torri;…La Neva s’è vestita di granito: ponti si son curvati
sopra le acque, di verdicupi giardini/ le sue isole si sono coperte,/ ed alla capitale più
giovane davanti/ la vecchia Mosca s’è oscurata, / come davanti a nuova
imperatrice / vedova porporata.”
Da
un altro celebre poema, Eugenio Onegin, la città è narrata
al suo risveglio mentre il protagonista torna a casa dopo una notte di balli:
“Mezzo
addormentato dal ballo va a letto: e l’irrequieta Pietroburgo è già svegliata
dal tamburo. Si alza il mercante, va il merciaiolo, si trascina il cocchiere al
suo posto, la popolana di Ochta s’affretta con la brocca e sotto di lei
scricchiola la neve mattutina. Si sveglia il piacevole rumore del giorno. Le
imposte sono aperte; il fumo dei camini sale come una colonna bluastra; e il
fornaio, un tedesco molto preciso, col suo berretto di carta, già più di una
volta ha aperto il suo sportellino”
Oppure
fa da sfondo, nelle sere d’estate, ai ricordi dell’autore o alle meditazioni
del protagonista:
“Come sovente ci
inebriavamo, nel tempo d’estate, quando il cielo notturno sulla Neva, era
trasparente e luminoso, e il vetro gioioso delle acqua non rifletteva il volto
di Diana. Con l’anima colma di
rimpianti, e appoggiandosi al granito, Eugenio stava pensieroso, proprio come
si è dipinto il vate. Tutto era calmo, solo le sentinelle notturne si davan la
voce, e lo strepito lontano di carrozze echeggiava improvviso dalla
Mil’jonnaja; solo una barca agitando i remi navigava sul fiume insonnolito;”
Amico
di Puškin che recensì assai favorevolmente le sue Veglie nella fattoria di Dikanka,
scrisse anche un lavoro a carattere storico Tara’s Bulba ispirato da La figlia del capitano di Puškin. Morì a
soli 41 anni in uno stato di alienazione mentale.
La
sua Pietroburgo se da una parte appare rutilante dall’altra ci mostra la
miseria e la tristezza della vita dei più poveri tenuti ai margini, o il
grigiore degli impiegati, costretti a copiare all’infinito documenti e
scartoffie e che paiono lontanissimi dalle magnificenze della città.
Dai
suoi Racconti
di Pietroburgo proponiamo un altro brano da La Prospettiva
Nevskij:
“tutto fonde sulla Prospettiva Nevskij il potere della
forza e il potere della debolezza. Quale veloce fantasmagoria si svolge qui nel
corso d'una giornata! Quanti mutamenti in sole ventiquattr'ore! Cominceremo dal
primissimo mattino, quando tutta Pietroburgo odora di panini ancor caldi,
appena sfornati, ed è invasa da vecchie in abiti e pellicciotti laceri che
compiono le loro incursioni nelle chiese e contro i passanti pietosi. Allora la
Prospettiva Nevskij è vuota: i solidi proprietari dei negozi e i loro commessi
dormono ancora nelle loro camicie di tela d'Olanda oppure insaponano le loro
nobili guance e bevono il caffè; i mendicanti si radunano davanti alle porte
delle pasticcerie, dove un garzone sonnolento, che il giorno prima svolazzava
come una mosca servendo la cioccolata, adesso esce furtivo, senza cravatta,
con una scopa in mano, e butta loro dei pasticcini raffermi e altri avanzi di
cibo. Per le vie si trascina gente povera; talvolta passano anche dei contadini
russi che s'affrettano al lavoro con stivali così inzaccherati di fango
che nemmeno il Canale Ekaterìnskij, pur celebre per la sua pulizia, riuscirebbe
a lavare. A quest'ora di solito non sta bene che le signore escano di casa,
perché il popolo russo ama esprimersi con termini così violenti che di certo
non si odono nemmeno a teatro….
Si può dire senz'altro che a quest'ora, ossia fino
alle dodici, la Prospettiva Nevskij per nessuno rappresenta uno scopo ma serve
soltanto come mezzo: a poco a poco essa si riempie di persone che hanno le loro
occupazioni, le loro preoccupazioni, i loro fastidi, ma non pensano per nulla
alla strada….”
Questa strada è descritta come un
caleidoscopio, dove a seconda dell’ora vi passano i diversi ceti e le varie
classi sociali del suo tempo: istitutori, bambinaie, impiegati, giovani
apprendisti, soldati o donne a passeggio.
Ancora più realistica la vicenda del
protagonista de Il Cappotto, uno dei racconti più celebri e significativi della
produzione letteraria non solo di questo autore, tanto che fece dire a Dostoevkij “siamo tutti usciti dal cappotto di Gogol”.
In questo brano un oscuro scrivano si priva persino della luce della candela
alla sera a casa per rimediare i soldi per un cappotto nuovo onde resistere al
freddo pietroburghese. E quando alla fine riesce ad indossarlo:
“Akàkij Akakièviè camminava in gaia disposizione di spirito e una volta
si mise persino, chissà perché, a correre dietro a una dama che gli passò
accanto in un lampo, muovendosi in tutto il corpo in
modo singolare. Si arrestò però subito e si rimise a camminare come prima,
piano piano, meravigliandosi di quella corsa a cui era stato spinto chissà da
cosa. Ben
presto davanti a lui si allungarono quelle viuzze
deserte che già poco allegre di giorno, di notte sono ancora più remote e
solitarie: i lampioni accesi erano rari, perché probabilmente qui si
distribuiva meno olio; cominciarono le case di legno, le palizzate, non
un'anima viva; solo la neve scintillava sulle strade, e basse stamberghe
addormentate nereggiavano tristemente con le imposte chiuse. Egli s'avvicinava
al punto dove la via sfociava in una piazza sconfinata, simile a un pauroso
deserto, con le sue case appena visibili all'altra estremità.
Lontano, Dio sa dove, baluginava il lumicino d'una
garrita che pareva in capo al mondo. A questo punto la gaiezza di Akàkij
Akakièviè diminuì notevolmente. Egli s'inoltrò nella piazza non
senza un certo involontario timore, proprio come se il suo cuore presentisse
qualcosa di spiacevole. Si guardò indietro e ai lati: intorno a lui c'era come
un mare. «No, meglio non guardare,» pensò e continuò a camminare con gli occhi
chiusi; quando li riaprì per sapere se fosse vicina la fine della piazza, vide
di colpo davanti a sé, quasi a un palmo dal suo naso, alcuni uomini con i
baffi, come fossero quei baffi non poteva dirlo. Gli occhi gli si confusero e
sentì una fitta al petto. «Ma questo cappotto è mio!» disse uno di quelli con
voce tonante, afferrandolo per il colletto. Akàkij Akakièviè avrebbe voluto gridare
«aiuto!», ma l'altro gli mostrò sotto la bocca un pugno grosso come la testa
d'un funzionario dicendo:
«Prova un po' a gridare!»
Akàkij Akakièviè si accorse soltanto che gli toglievano di dosso il
cappotto e gli davano una spinta di dietro con il ginocchio; egli cadde bocconi
nella neve e non capì più nulla. Dopo alcuni minuti ritornò in sé e si rialzò
in piedi, ma ormai non c'era più nessuno. Sentì che lì faceva freddo e che il
cappotto non c'era più, fece per gridare, ma pareva che la sua voce non potesse
giungere fino all'altro capo della piazza. Disperato, seguitando a gridare, si
mise a correre attraverso la piazza, dritto verso la garitta accanto alla quale
stava una guardia appoggiata alla sua alabarda e che guardava con curiosità,
chiedendosi che razza di demonio stesse correndo verso di lui da lontano
gridando in quel modo. Akàkij Akakièviè arrivò fino a lui di corsa e con voce affannata
cominciò a urlargli che dormiva e non badava a nulla, non vedeva neppure che
stavano rapinando una persona. La guardia rispose che non aveva visto nulla;
aveva, sì, visto che l'avevano fermato, in mezzo alla piazza due uomini, ma
aveva pensato che fossero suoi amici; e che invece di imprecare inutilmente
avrebbe fatto meglio ad andare l'indomani dal commissario e il commissario
avrebbe fatto ricerche per trovare chi gli aveva preso il cappotto.”
Purtroppo le autorità non lo prendono
sul serio e alla fine egli muore di crepacuore. “E Pietroburgo rimase senza Akàkij Akakièviè, come se mai fosse
esistito. Scomparve e si dileguò un essere che nessuno aveva difeso, che a
nessuno era stato caro, per nessuno interessante, che non aveva attirato su di
sé nemmeno l'attenzione del naturalista, il quale pure non disdegna di infilare
su uno spillo una comunissima mosca e di osservarla al microscopio, un essere
che aveva sopportato docilmente tutte le irrisioni del suo ufficio ed era sceso
nella tomba senza aver compiuto alcuna straordinaria impresa; però, verso la
fine della vita, a questo essere era apparso un ospite luminoso sotto forma
d'un cappotto, un cappotto che per un istante aveva ravvivato la sua povera
esistenza, ma sul quale poi s'era abbattuta implacabile la sciagura, così come
si abbatte sugli imperatori e i sovrani del mondo”
A questo punto il racconto prende
una piega fantastica, tipica della narrativa di Gogol e di molta narrativa
russa a venire:
“Per Pietroburgo si sparsero a un tratto delle voci, che
al Ponte Kalinkìn e anche molto più lontano aveva cominciato ad apparire un
morto dall'aspetto d'un impiegato che cercava un cappotto rubato e, con il
pretesto del cappotto rubato, strappava da tutte le spalle, senza badare a grado
o titolo, ogni sorta di soprabiti: con collo di gatto, di castoro, imbottiti,
pellicce di procione, di volpe, d'orso; insomma, pelli e peli d'ogni genere che
gli uomini hanno inventato per coprirsi. Uno dei funzionari del ministero vide
il morto con i suoi occhi e vi riconobbe immediatamente Akàkij Akakièviè; ciò gli procurò un
tale terrore che si buttò a correre a gambe levate e perciò non poté
distinguerlo bene, vide soltanto che da lontano il morto lo minacciava con un
dito. Da tutte le parti cominciarono ad arrivare lamentele, che le schiene e le
spalle, non soltanto dei consiglieri titolari, ma persino dei consiglieri
segreti, erano minacciate di terribili infreddature a causa di quella notturna asportazione di soprabiti. Alla polizia venne data disposizione
di catturare il morto a qualunque costo, e di punirlo nella maniera più feroce perché
servisse da esempio agli altri; e si deve dire che quasi vi riuscì.
Proprio così. La guardia di non so quale quartiere
riuscì, nel vicolo Kirjùškin, ad agguantare il morto per il bavero, proprio sul
fatto, mentre tentava di strappare un cappotto di panno di frisia a un certo
musicista a riposo che a suo tempo suonava il flauto. Afferratolo
per il bavero, chiamò gridando due o tre colleghi ai quali l'affidò affinché lo tenessero, mentre lui solo per un istante infilò una
mano in uno stivale per tirarne fuori la tabacchiera e ristorarsi il naso che
gli si era già congelato sei volte nella sua vita; ma di certo il tabacco era
d'una qualità che nemmeno un morto poteva sopportare. Chiusa con il dito la
narice destra, la guardia non fece in tempo ad aspirare una mezza presa con la
sinistra, che il morto starnutì così forte da spruzzare completamente gli occhi
a tutti e tre. Mentre essi alzavano le mani per asciugarsi, il morto si dileguò
e di lui scomparve ogni traccia. Nessuno dei tre avrebbe saputo dire con
precisione se l'avesse avuto veramente fra le mani. Da quel giorno le guardie
si presero una tal paura dei morti che temevano persino d'agguantare i vivi e
si limitavano a gridare da lontano: «Ehi, tu, va per la tua strada!», e il
morto-funzionario cominciò a farsi vedere anche oltre il Ponte Kalinkìn,
incutendo non poco terrore in tutta la gente pavida. Ma noi abbiamo
completamente abbandonato quel personaggio importante, che in realtà era forse stato la causa della piega
fantastica assunta da questa storia peraltro assolutamente veridica. Prima di
tutto un dovere di giustizia esige che si dica che quel personaggio
importante, subito dopo che il
povero e strapazzato Akàkij Akakièviè se ne era andato, aveva provato qualcosa di simile
alla compassione. La compassione non gli era estranea; il suo cuore era
accessibile a molti buoni impulsi sebbene il grado troppo spesso impedisse
loro di manifestarsi. Non appena fu uscito dal suo gabinetto l'amico di
passaggio, egli si mise a pensare al povero Akàkij Akakièviè. E da quel momento
quasi ogni giorno cominciò ad apparirgli il povero Akàkij Akakièviè che non aveva saputo
resistere alla strapazzata del superiore. Questo pensiero l'agitava a tal punto
che una settimana dopo egli addirittura decise di mandare un impiegato per
sapere come stesse e che cosa facesse e se non lo si potesse aiutare in qualche
modo; e, quando gli riferirono che Akàkij Akakièviè era morto
prematuramente di febbre, rimase sbigottito, senti i rimorsi della coscienza e
per tutta la giornata non fu più lui. ………..
Così l'importante personaggio scese le scale, montò su
una slitta e disse al cocchiere: «Da Karolìna Ivànovna», mentre da parte sua,
avvolto assai confortevolmente in un caldo cappotto, restava in quella
piacevole disposizione d'animo, migliore della quale, per un russo, non si può
immaginare, e cioè quando non si pensa a nulla e i pensieri ti frullano da soli
in testa, uno più gradevole dell'altro, senza neppure la fatica di inseguirli e
cercarli. D'ottimo umore, egli andava ricordando i momenti simpatici della
serata appena trascorsa; Di tanto in tanto, tuttavia, gli dava noia il vento
impetuoso che, levandosi improvvisamente da chissà dove e chissà per quale
motivo, gli tagliava la faccia, gli gettava addosso folate di neve, gonfiando
come una vela il bavero del cappotto, o rovesciandoglielo di colpo, con forza innaturale, sulla testa, costringendolo così a
fare continui sforzi per rimetterlo a posto. A un tratto l'importante
personaggio sentì che qualcuno l'aveva afferrato vigorosamente per il bavero.
Voltandosi, vide un uomo di piccola statura con una vecchia uniforme consunta
e, non senza terrore, riconobbe in lui Akàkij Akakièviè. La faccia dell'impiegato
era bianca come la neve e sembrava proprio la faccia d'un morto. Ma il terrore
dell'importante personaggio superò tutti i limiti quando vide che la bocca del
morto si storceva e, alitandogli addosso un orribile lezzo di tomba,
pronunciava queste parole:
«Ah! Sei tu finalmente! Finalmente, ecco, t'ho
raggiunto! È il tuo cappotto che mi serve! Non ti preoccupasti del mio, anzi mi
maltrattasti, e adesso dammi il tuo!» Il povero personaggio
importante per poco non defunse.
Sebbene in ufficio e in genere di fronte agli inferiori fosse un uomo di
carattere, e di certo chiunque, vedendo il suo volto e la sua figura virile
avrebbe detto: «Ah, che uomo!» qui, come accade a molti che hanno un aspetto da
eroi, sentì un tal terrore che non senza ragione cominciò a temere che gli
pigliasse un colpo. Si tolse egli stesso frettolosamente il cappotto dalle
spalle e gridò al cocchiere con voce che non era più la sua:
«Di corsa a casa!» Il cocchiere, udito quel grido,
ch'era di quelli che si emettono nei momenti decisivi e s'accompagnano anche
con qualcosa di più convincente, ritirò per ogni evenienza la testa nelle
spalle, agitò la frusta e partì come una freccia. Pallido, spaventato, anziché
da Karolìna Ivànovna, egli arrivò a casa sua, si trascinò come poté fino alla
sua stanza e passò la notte in modo assai agitato, tanto che il giorno dopo, al
tè del mattino, la figlia gli disse con franchezza: «Oggi sei molto pallido,
papà.»
Ma il papà tacque e non fece parola ad alcuno di ciò
che gli era accaduto e dove era andato e dove aveva avuto intenzione di andare.
Ma ancor più sintomatico è il fatto che da quel giorno cessarono le apparizioni
dell'impiegato morto: evidentemente il cappotto generalizio gli era andato a
pennello; perlomeno non si sentì più parlare di cappotti strappati.”
Nacque
a Mosca l’11 novembre del 1821 e frequentò la scuola militare di ingegneria di
S. Pietroburgo. Al termine degli studi però preferì dedicarsi alla scrittura e
già il suo primo romanzo Povera gente,
accolse i favori della critica. Ad esso seguirono altri lavori tra cui, Le notti bianche e Il sosia. Quando lo scrittore aveva 18 anni, nel 1839, suo padre fu
ucciso da un gruppo di contadini esasperati dalla sua crudeltà. Nel ricevere la
notizia Dostoevkij fu colpito un violento attacco di epilessia che lo lasciò
senza sensi. Esso fu il primo di una serie di crisi che lo accompagnarono lungo
tutta la sua esistenza.
Per
aver frequentato un circolo di socialisti utopistici e aver letto in pubblico
una critica a Gogol nel 1849 fu arrestato e condannato a morte. Era già sul
patibolo quando gli fu comunicato che la pena capitale era stata commutata a
quattro anni di lavori forzati in Siberia. Questa vicenda creò inevitabilmente
una cesura profonda nella vita dello scrittore. Durante la prigionia egli entrò
in contatto con un’umanità che si era coperta di crimini ma che presentava
caratteri complessi e si prestava ad uno studio psicologico che egli non si
lasciò sfuggire. Nello stesso tempo si accentuò la sua attenzione verso una
visione mistica della vita, dove predominava il concetto di espiazione. In
seguito fu inviato come soldato di prima linea in un governatorato siberiano
vicino al confine cinese e poté rientrare dapprima a Tver e poi a Pietroburgo
solo nel 1859. Questi dieci anni lo avevano isolato da quello che era stato lo
sviluppo della letteratura russa. Quando egli tornò nella
capitale e riprese a scrivere la sua narrativa era altro rispetto a quella corrente, il suo realismo aveva caratteri
più legati allo studio psicologico che alla critica sociale, egli era attirato
dalla profondità dello animo umano, non a caso è stato definito come lo scrittore dell’inconscio, se non anche “talento crudele”. Memorie del sottosuolo è il libro che aprì questa seconda fase
narrativa, dove il sottosuolo è appunto l’inconscio dell’uomo. A questa fase
appartengono i suoi lavori più celebri: Umiliati
e offesi, Delitto e Castigo, L’idiota, I Demòni, Il giocatore, I Fratelli
Karamzov. E tranne i primi due scritti gli altri non sono ambientati nella
capitale. Nel 1861 fondò col fratello Michail una rivista letteraria Vremya (Tempo) sulla quale furono
pubblicati a puntate alcuni suoi lavori. Dostoevskij non amava Pietroburgo, la
sentiva una città artificiosa, astratta. E di Pietroburgo, fin dai suoi primi
lavori, ne descrisse soprattutto le miserie, le condizioni di povertà della
maggior parte dei suoi abitanti.
Il
primo brano scelto è tratto da Le notti
bianche, il protagonista narra in prima persona e descrive la città
semivuota al principio dell’estate
“Soltanto questa mattina compresi di che si
trattava, la ragione della mia inquietudine: sono scappati tutti in campagna… Perdonatemi la parola impropria, ma
io non sono abituato a scrivere in bello stile. Sì, tutta Pietroburgo se n’è
andata in campagna.
…E subito ogni distinto gentiluomo che passava in
vettura si mutava, a’ miei occhi, in uno stimato padre di famiglia che si reca
a trascorrere giorni allegri, dopo le abituali occupazioni in città, presso i
familiari, in una casina di campagna. Tutti i passanti, dopo tre giorni avevan
cambiato d’andatura, ed ognuno pareva dicesse chiaramente: «Io non sono qui che
di passaggio; tra due ore sarò anch’io partito.»
Se una finestra
si apriva sulla mia strada, una finestra sul cui davanzale avevano tamburinato
poco prima piccole dita bianche come lo zucchero, e vi si affacciava una
leggiadra testolina di gentil fanciulla per chiamare il venditore ambulante di
fiori, supponevo che la giovinetta, con quei fiori, volesse far primavera nel
suo appartamento in cui si soffocava dal caldo. Invece tutto ciò significava
che anch’essa, tra pochi giorni, sarebbe andata in campagna e avrebbe portati
con sé i fiori or ora comprati.
Aggiungo inoltre, poiché ho fatto progressi nella mia
nuova scoperta, che io so, dall’aspetto esteriore di una tale o tal altra
persona, in quale sito di villeggiatura vada a dimorare, abitualmente o
eccezionalmente.
Gli abitanti di Kamenvy, delle isole Aptekarsky o
della strada di Peterhov, si distinguono per le maniere ricercate, per
l’eleganza delle toilettes estive che indossano e per le belle vetture che
posseggono. Gli abitanti di Pergolov hanno una nota particolare di bontà e di
saggezza; quelli delle Isole Krestovsky sono dotati di una inimitabile gaiezza.
Incontravo processioni di carrettieri che andavano
pigramente, briglie alla mano, davanti ai carri carichi di mobilia, di tavole,
di seggiole, di divani turchi e non turchi, di utensili da cucina: il tutto
seguito assai spesso da
una cuoca, la quale, seduta su montagne di fagotti,
covava i beni dei suoi padroni… Osservavo scivolar via sulla Neva battelli
anche essi carichi di masserizie… E carretti e battelli si moltiplicavano a’
miei occhi… Mi sembrava che tutta l’immensa città se n’andasse e, tra breve,
ogni strada sarebbe rimasta deserta.
Avevo camminato lungamente e per molto tempo, sì che
finii per ritrovarmi oltre la cinta daziaria. Immediatamente la gioia m’invase:
avanzavo nei campi senza fatica, come se un pesante fardello mi fosse caduto
all’istante
dall’anima.
Tutti coloro che passavano in carrozza mi guardavano
con simpatia, tanto che mi avrebbero quasi salutato. Erano tutti contenti: non
so perché. Fumavano buoni sigari; io ero felice come non mai. Mi credevo tutt’a
un
tratto in Italia, tanto era sorprendente la natura
d’intorno. Sorprendente per me, povero cittadino mezz’ammalato, mezzo
attossicato dall’atmosfera avvelenata della città.
C’è qualcosa d’ineffabilmente commovente nella
campagna pietroburghese. Rientrai in città assai tardi. Suonavano le dieci. La
via costeggiava il fiume. Un lungo deserto, a quell’ora…
Sì, io abito un quartiere assai remoto.
Camminavo canticchiando. Quando sono felice (o credo
d’esserlo) canticchio sempre. È, penso, l’abitudine degli uomini fugacemente
felici, i quali, non avendo né amici né camerati, non sanno con chi condividere
quell’attimo di gioia.
Quella sera mi riservava un’avventura.
Appoggiata al parapetto del fiume scorsi, ad un
tratto, una donna. Essa sembrava esaminare attentamente il corso dell’acqua
torbida. Portava in testa un grazioso cappellino adorno di fiori gialli e, sul
dorso, una mantellina civettuola. «È una ragazza certamente bruna», pensai. Essa
sembrò non accorgersi del rumore de’ miei passi e non si mosse affatto quando
le passai accanto trattenendo il respiro mentre il cuore mi batteva a colpi
accelerati.
«È strano, pensai, ma questa ragazza dev’essere assai
preoccupata». E tutt’a un tratto mi fermai. Mi sembrò d’aver inteso dei
singhiozzi mal repressi. «Non
m’inganno: essa piange».”
La ragazza attende un uomo di cui è
innamorata, grazie al protagonista è messa in salvo da un malintenzionato e per
alcune sere essi si danno appuntamento per conversare, fin quando non
arriverà l’uomo di cui è innamorata, ricambiata, e al protagonista non rimarrà
altro che il ricordo di questa giovanea della quale si era a sua volta
invaghito.
La visione di
una città apparentemente serena, vuota per le vacanze e luminosa nelle sue
notti lascerà il posto ad una città soffocata dall’afa estiva, abitata da
malintenzionati, prostitute e farabutti, che si presentano come persone
rispettabili, dove è facile perdersi nell’intrico delle sue vie e commettere
anche dei crimini.
Questa è la
Pietroburgo di Delitto e Castigo,
una città i cui miseri abitanti trascorrono il tempo ad ubriacarsi nelle
bettole pur di non dover rimanere in case-alveari in cui manca l’aria e, a
volte, anche il cibo.
La casa di Rakol’nikov con altorilievo raffigurante
lo scrittore
“Al principio di
luglio, in una giornata caldissima, verso sera, un giovane uscì dalla stanzetta
che aveva in subaffitto nel vicolo S., scese per strada e a passi lenti, come
se fosse indeciso, si diresse verso il ponte K. …
Nella strada il caldo era terribile, e
per di più c’era un’afa, una ressa, e dappertutto calcina, impalcature,
mattoni, polvere, e quel puzzo speciale
ben noto d’estate a tutti i
pietroburghesi che non hanno la possibilità di prendere una casa in campagna;
tutto ciò scosse spiacevolmente i nervi del giovanotto, già abbastanza eccitati
anche prima. Il puzzo insopportabile delle bettole, che in quella zona della
città sono particolarmente numerose, e gli ubriachi che gli capitavano davanti
di continuo nonostante fosse giorno feriale, completavano il tono triste e
odioso del quadro. Un senso di profondo disgusto balenò per un attimo sul volto
del giovanotto. …. Era vestito così male che un altro, anche essendoci
abituato, si sarebbe vergognato a uscire di giorno di strada con simili stracci
addosso. D’altra parte in quel rione era difficile che qualcuno badasse al suo
modo di vestire. La vicinanza del Mercato del fieno, l’abbondanza di certi
locali chiusi, e soprattutto la popolazione di operai e artigiani ammassata in
quelle vie e in quei vicoli del centro di Pietroburgo, rendevano il panorama
così variopinto che nessuno poteva meravigliarsi se incontrava certi tipi.”
Raskol’nikov, il
protagonista del romanzo, ha ormai commesso il suo duplice omicidio, e ora
percorre le vie della sua città che gli ha sempre suscitato pensieri quasi
angosciosi.
“Strinse la
moneta nella mano, fece una decina di passi e si girò con il viso verso la
Nevà, in direzione del Palazzo d’Inverno. Il cielo era sereno, senza la più
piccola nuvola, e l’acqua quasi azzurra, cosa che nella Nevà si vede di rado.
La cupola della cattedrale che da nessun altro punto risalta così bene come a
guardarla di lì, dal ponte, a venti passi di distanza dalla cappella, splendeva
tutta, e in quell’aria limpida si distingueva nettamente ogni suo fregio. Un
pensiero angoscioso e non del tutto chiaro occupava ora la sua mente in modo
esclusivo. Rimase lì a lungo, a guardar lontano, con gli occhi fissi, conosceva
bene quel luogo. Quando frequentava l’università gli capitava spesso,
soprattutto nel tornare a casa – forse gli era capitato un centinaio di volte –
di fermarsi proprio in quello stesso punto, di fissare attentamente quel
panorama davvero splendido e di meravigliarsi quasi sempre per una confusa e
indefinibile impressione. Quello splendido panorama gli dava uno strano senso
di gelo; per lui quel quadro fastoso era pieno di malinconia e di desolazione…
Si meravigliava sempre di quella sua impressione tetra e inesplicabile, e non
fidandosi di se stesso, ne rimandava la spiegazione al futuro. Ora si ricordò
bruscamente di quei suoi dubbi e problemi di un tempo, egli sembrò che quel
ricordo non fosse un caso”.
Delitto e
Castigo è un romanzo tutto immerso in questa atmosfera quasi surreale ben
lontana dall’immagine monumentale di una città imperiale. Ugualmente la città
ha assorbito in sé la vicenda qui narrata. Ancora oggi una delle prime cose che
le guide mostrano ai turisti nel giro in pullman è proprio la Casa dell’usuraia, la vecchia uccisa dal
Rodion Raskol’nikov.
La casa abitata da Dostoevskij al tempo in cui scrisse Delitto e Castigo nel quartiere dove colloca l’abitazione dell’usuraia
Dettaglio della lapide commemorativa
“In questa casa,
negli anni 1864-1867 visse Fëdor Michailovic Dostoevskij, qui scrisse il
romanzo Delitto e castigo”
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