di Giovanna Rotondo
Ho conosciuto Padre Francis sei o
sette di anni fa: veniva dal Sudan dove era partito giovane, poco più che
ventenne, con grande amore cristiano e speranza.
Si sarebbe fermato in Italia un paio di mesi, era un lungo
viaggio e lui non era più giovane, aveva bisogno di riposo. Quella prima estate non ebbi molti scambi con lui, lo incontravo di tanto in tanto sulla strada
che porta alla mia casa e lui a quella dei suoi nipoti, a fianco alla mia, dov’era
ospite. Ci scambiavamo dei saluti e dei commenti sul tempo. Da allora è
ritornato ogni due anni e sempre per un paio di mesi. Nel corso delle sue visite ci siamo frequentati, spesso andavo a trovare i miei amici e, se
c’era, parlavamo
dell’Africa, del Sudan e del Sud Sudan.
Abbiamo avuto il piacere di ospitarlo
a cena una sera, avrei voluto che
accadesse ancora ma padre Francis s’impegnava molto con la parrocchia e
quando era libero lui, non c’eravamo noi!
Da allora è tornato in Italia ogni due anni, per diversi anni, l’ultima volta non è più ripartito, è
stato trattenuto per problemi di salute e di età. Era una decisione che temeva e
aspettava, ed era inevitabile: era più vicino ai novanta che agli ottanta. Una
bella vitalità! Quando gli è stata comunicata la
notizia che non sarebbe più andato in Africa, ma in una casa di riposo
come il Pime, deve
aver fatto fatica ad accettarla, perché la sua casa non è più qui, tuttavia non si è lamentato: “Laggiù, con il tempo, potrei essere di peso”, aveva detto.
Era il 2011, l’anno della proclamazione d’indipendenza del
Sud Sudan. Padre Francis mostrava molto interesse per l’evento e ne parlava spesso. I Padri Comboniani avevano
dedicato la loro vita all’Africa
e ai poveri nel mondo. Erano
presenti in Sudan e credo anche in Sud
Sudan. Padre Francis vi aveva vissuto la maggior
parte della sua vita, ben oltre il mezzo secolo.
Qualche tempo dopo mi disse, con una
certa preoccupazione, che non erano
stati definiti i confini della nuova nazione e questo avrebbe potuto dar luogo
a tensioni nei rapporti tra il Sudan e
il Sud Sudan. Non ha mai smesso di seguire le sorti di quel paese: l’aveva nel cuore.
Mi raccontava del periodo della
guerra in cui la gente del sud si era rifugiata a nord, ma poi molti erano tornati nella loro terra. Gli avevo chiesto se ci fosse un Islam
moderato, visto che aveva operato tanti anni
in Sudan, a Karthoum, dove la
religione islamica, presumo, sia
maggioritaria, mi rispose che non
esiste un Islam moderato:
“Le persone sono brave come
possono esserlo qui, più o meno, ma l’Islam è militante. Esistono i
musulmani moderati, non esiste un Islam moderato”.
Avrei
voluto chiedergli se avesse preferito che anche i Cristiani fossero più militanti, ma non l’avevo fatto,
lui era un cristiano militante, era andato a portare la parola di Dio per il
mondo, e questo era il modo cristiano di esserlo. Quasi a rispondere alle mie parole,
aveva aggiunto:
“Nessuno delle
persone che ho avvicinato in tanti anni si è mai convertita al cristianesimo,
che io sappia, ma forse qualcosa è nato nel loro cuore”.
In questi anni ho imparato a
conoscere
padre Francis: ho scoperto che per arrivare qui e tornare alla
sua casa in Africa, doveva fare dei
viaggi interminabili, con disagi e notti
insonni, non prendeva aerei o treni veloci, aspettava coincidenze scomode
e lente e badava, soprattutto, a non pesare e a non costare sulla comunità, tutto questo
come se fosse assolutamente normale. In un mondo in cui un aereo ci porta
lontano in poche ore, lui doveva viaggiare per giorni e usare i mezzi meno
costosi. Una
capacità di sopportare il disagio che non ci appartiene più! Non sapevo che un padre missionario doveva viaggiare con i mezzi più
economici possibili, anche se ha ottantacinque anni e potrebbe essere molto faticoso per lui. Ma è quello che fanno tutti i padri
comboniani. Immaginavo un anziano come lui dormire seduto per diverse notti, con il
suo bagaglio appresso, sperando che qualcuno durante il viaggio l’aiutasse e
qualche volta gli cedesse il posto.
Padre Francis parlava spesso dei suoi ragazzi:
ci teneva che fossero bravi, che imparassero: “E’ l’unica difesa che hanno”
sosteneva convinto.
Lo immaginavo nella sua Missione
contornato da bambini a cui insegnava la parola di Dio, ma anche a leggere e scrivere, raccontava loro delle belle storie e gli insegnava a essere pazienti e ad
avere fede.
Ero colpita
dalla sua grande semplicità, a quel suo modo di rapportarsi con gli altri
modesto e senza pretese e un giorno mi sono resa conto che pensavo alle cose che mi
diceva.
Quando mi è stato chiesto di scrivere
una storia per un concorso, l’ho
ambientata in Sud Sudan, senza neanche rendermene conto. Mi sono letta tutto ciò che potevo sul quel paese, non credo ci
avrei mai pensato se non
avessi conosciuto Padre Francis.
Spero che il Sud Sudan possa trovare pace e
prosperità, dopo anni e anni di lotte e disperazione, e, chissà, forse grazie anche al lavoro di
tanti missionari riuscirà a trovare la
forza e gli aiuti per diventare uno paese cristiano, nel senso inteso da padre
Francis.
Con lui non mi è mai capitato di
parlare di religione o di Dio, ma la religiosità fa parte del suo essere e
ne trasmette la presenza profondamente.
Padre Francis non parlava mai di sé, di ciò che aveva fatto o vissuto, raccontava solo qualche storia o avventura, come quando, mentre
celebrava la S. Messa, gli era entrato un leoncino in chiesa. O per aver trovato le scorte di cibo mangiucchiate ripetutamente, senza aver mai cercato di sapere chi fosse stato, o
quando, una mattina, guardando fuori dalla finestra aveva notato una folla di
persone fuori e si era preoccupato, ma erano tutte persone venute a iscrivere i
loro figli a scuola, lo raccontava sorridente:
“Non capivamo
perché tutte quelle persone si erano
raggruppate là fuori, poi mi sono fatto coraggio e gli sono andato
incontro. Mi sono sentito sollevato quando ho capito che erano venuti a
iscrivere i loro figli a scuola. Alla nostra scuola, la scuola della missione!
E’ stato un momento bello”.
Avrebbe molte altre storie da raccontare, ne sono
sicura, e mi piacerebbe ascoltarle,
registrarle o scriverle. Ricordo un giorno che siamo andati trovarlo nel suo
ritiro qui in Italia, nei pressi di Como, eravamo seduti nella sala di
ricevimento, di fronte a noi c’erano molti ritratti di missionari giovani e
meno giovani, a una mia domanda su chi fossero, mi aveva risposto: “Missionari
Comboniani uccisi in Africa”.
Persone come lui sono la nostra
memoria. Non dovremmo perderla. Mi sono
ripromessa di dedicargli del tempo. In questi due anni l’ho visto solo un paio di volte,
la vita quotidiana ci assilla e ci fa perdere il senso di quanto facciamo. Voglio sperare, nei prossimi mesi, di poter portare avanti questo piccolo
progetto.
Nessun commento:
Posta un commento