(di Giovanna Rotondo)
Gli piaceva andare a pescare, non per prendere
i pesci, ma per starsene in riva al lago a guardare l’acqua e le montagne
intorno: “Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno” come scriveva
Manzoni. Uno splendore di bellezza!
Vestire i panni del pescatore era un pretesto
per non essere disturbato, per sentirsi più a suo agio e non avere occhi
curiosi che si chiedessero che cosa stesse meditando o guardando quello strano
tipo, così a lungo. Aveva persino preso la licenza di pesca per dilettanti, gli
sembrava giusto essere in regola.
Intorno a lui uno scenario unico “che mutava
luce e colore con il passare delle ore” uno spettacolo ininterrotto e
affascinante, sempre uguale e mutevole.
Alternava il mattino presto o il tardo pomeriggio, compatibilmente con i suoi impegni di lavoro. Si era trovato un angolo protetto, non lontano dal centro della cittadina, una piccola falce di terra tra il lago e la foce del fiume e se ne stava ore a pescare dei pesci che non voleva abboccassero mai. Quell’angolo di terra, che si apriva su lago e monti, gli sembrava un mondo incantato nel quale si sentiva protagonista.
Un pomeriggio, sul finire dell’estate, un
airone cenerino, un uccello acquatico con un buffo ciuffo nero sulla testa e
sul collo, planò sullo specchio d’acqua a pochi metri da lui, appoggiando le
sue grandi zampe sul fondo del lago, che in quel punto era basso, e si mise a
fissare l'acqua. Arrivò anche nei giorni seguenti, fermandosi sempre in quel
punto.
Di tanto in tanto il pescatore gli parlava, ma
l’airone sembrava non dargli retta e
rimaneva immobile nella stessa posizione:
“Ciao, Cenerino, ma riesci a pescare qualcosa
con quel lungo becco?” gli chiedeva scherzoso “sono ore che te ne stai lì,
fermo come un trampoliere, stai meditando o aspetti di vedere il pranzo
passare? Non pensi che sia ora di prendere qualcosa?”.
Un giorno il pescatore prese un pesce e, invece
di rimetterlo in acqua come faceva di solito, pensò di offrirlo all’airone:
“Senti, Cenere, lo mangeresti un boccone? Vieni
a prenderlo tu o te lo devo lanciare?” l’airone non si mosse, il pescatore
continuò a parlargli, ondeggiando il pesce, ormai si conoscevano da un po’ di
tempo e la sua voce doveva essergli familiare. Alla fine glielo lanciò e lui lo
prese al volo.
Fu l’inizio di un insolito sodalizio tra
l’airone e il pescatore, il quale si vedeva costretto, suo malgrado, a pescare
per davvero… teneva famiglia, ormai:
“Ma non pensare che io possa sempre fornirti la
colazione o il pranzo, devi anche darti da fare” gli diceva ogni tanto “Ma come
farai quando metterai su casa? La morosa ce l’hai? ti vedo sempre solo,
soletto”.
Spesso venivano a fargli visita coppie di cigni
o famiglie di anatre, si avvicinavano attenti a non invadere il loro territorio
e starnazzavano giocosi: si era formato un un bel gruppo!
I due passarono l’autunno a pochi passi l’uno
dall’altro, il pescatore guardava quella bella creatura immobile e silenziosa,
che sembrava meditasse, e gli parlava.
Aveva preso l’abitudine di lanciare all’airone
i pesci che pescava e lui li afferrava con il suo lungo becco appuntito.
E pian piano si trovarono in pieno inverno, un
inverno mite, per la verità. Ma non sempre prendeva pesci, un giorno che non
aveva preso nulla, prima di andar via, gli disse:
“Oggi non ho pescato niente, saranno contenti i
pesci ma dovrai pensare tu alla cena. Vedrai, domani andrà meglio” e si avviò
facendogli un cenno di saluto con la mano. Dopo qualche minuto di cammino, se
lo vide volare davanti, e lui, esterrefatto, si fermò a guardarlo:
“Ma dove vai Cenere, sciò sciò, sei un uccello
non un viandante”. Si sentiva a disagio, ma anche divertito e un po’ commosso
per quella manifestazione di simpatia, che, anche se alquanto interessata, era
pur sempre affettuosa.
Da quel giorno, quando il tempo era brutto o
ventoso, passava in pescheria a chiedere se avessero qualche avanzo di pesce,
oppure lo comprava: sapeva che Cenere lo aspettava ed era contento di portargli
qualcosa:
“Lo so, ti sto viziando troppo!” commentava
allegramente. La sua casa non era molto lontana dal lago, poco più di trecento
metri in linea d’aria e non ci voleva molto per arrivarci.
Si era all’inizio di febbraio e si parlava
insistentemente di un’epidemia da coronavirus che, al momento, si pensava fosse
circoscritta in Cina e a qualche paese come la Corea del Sud, per quella del
Nord, non era dato sapere. Un’epidemia che avrebbe potuto trasformarsi in
pandemia e colpire tutte le popolazioni della terra.
Lui non ci aveva fatto molto caso per la
verità, di epidemie, ormai, si sentiva parlare spesso: “La terra, prima o poi,
si riprenderà tutto ciò di cui è stata depredata” si diceva, riflettendo sugli
esseri umani che erano, senza ombra di dubbio, i predatori più voraci tra
quelli che avevano popolato o che popolavano la terra.
In meno di un mese arrivarono le consegne a
casa per tutta la popolazione. Si poteva uscire solo per fare la spesa o una
passeggiata di duecento metri per esercizio fisico, non di più. Era vietato
qualsiasi assembramento e c’erano anche sanzioni pesanti per chi fosse
inadempiente o si fosse trovato a circolare oltre la sua zona di residenza,
senza avere dei motivi gravissimi. Come avrebbe fatto con Cenere? Non avrebbe
potuto vederlo per un paio di settimane, almeno. Andò a salutarlo per dirgli
che non sapeva quando sarebbe ritornato a trovarlo, e gli portò delle leccornie
che pensava gli piacessero:
“Mi dispiace, Cenere, ma non potrò venire per
qualche giorno, sai? per via dell’epidemia” e aggiunse, “io verrei a trovarti
ma sembra che non possa arrivare fin qui. Sono oltre trecento metri da dove
abito e non posso superare i duecento metri, cosa che mi è incomprensibile. Se
uno cammina un poco di più, può solo fargli bene alla salute e non cambia
nulla. Ma le regole le fanno quelli che hanno studiato e io devo rispettarle,
anche se non sono d’accordo” gli spiegò triste. “Voglio ritrovarti qui, quando
torno, abbi cura di te” si raccomandò.
Cenere se ne stava lì, issato sulle sue gambe
da trampoliere, il lungo collo leggermente incurvato a esse, e ascoltava.
Era tempo di cova, forse aveva una compagna che
stava covando o preparando il nido da qualche parte, anche lui sarebbe stato
indaffarato ad aiutarla, chissà.
Il pescatore aveva sempre pensato che fosse un
maschio, per la sua taglia piuttosto grande. Le femmine erano più piccole. “Mi
mancherai” gli sussurrò, salutandolo più volte con la mano, senza perderlo di
vista fino alla svolta della strada, dove sostò per qualche tempo a guardarlo
prima che scomparisse dai suoi occhi: non avrebbe mai dimenticato la sua
immagine immobile contro il cielo. Avevano vissuto momenti belli, insieme.
Erano due solitari, il pescatore amava il contatto con la natura e in
quell’angolo di mondo c’era tutto ciò che desiderava: l’acqua e il cielo, gli
animali e il verde dei boschi sulle montagne vicine. A volte, guardandosi
intorno, aveva tentato di individuare quale fosse l’albero su cui Cenere si
appollaiava per dormire la notte, più per passatempo che per la curiosità di
saperlo.
Aveva pensato di chiedere al Sindaco del paese
un lasciapassare per arrivare fino al lago, ma che cosa gli avrebbe detto? “Sa,
c’è un amico che mi aspetta ogni giorno… un pennuto”. In un momento terribile, in cui la gente si
ammalava, e alcuni molto gravemente, a causa del virus, non gli sembrava
possibile una richiesta di quel tipo.
E incominciò il periodo di isolamento per tutta
la popolazione. Il pescatore viveva solo, suo figlio lavorava troppo lontano
per tornare a casa la sera, ma si vedevano e si sentivano di frequente. Era un
buon figlio. Sua moglie si era trasferita nella città vicina a curare la madre
inferma. La solitudine non gli pesava. Da quando era in pensione, si occupava
facendo il giardiniere a tempo perso per amici e conoscenti.
Il tempo era bello in quei giorni, una
primavera anticipata, mentre piantumava il suo orto, pensava a Cenere: “Chissà se si è fermato
nello stesso luogo o ha cambiato” e si chiedeva spesso se stesse preparando il
nido. C’era sempre la probabilità che lui e la sua compagna avessero costruito
un nido nelle vicinanze, se così fosse, l’airone non si sarebbe allontanato per
i prossimi mesi. Almeno fino alla nascita dei piccoli.
Camminava avanti e indietro per i duecento
metri che gli era concesso percorrere, su e giù lungo la strada che portava a
casa sua, parlando a distanza con le persone che incontrava. Portava la
mascherina sotto il mente, camminando in salita gli mancava l’aria. Ma se vedeva qualcuno avvicinarsi, si copriva naso
e bocca.
Una mattina, dopo una decina di giorni di
arresti domiciliari, si accorse di aver bisogno di alcuni generi di prima
necessità e decise, controvoglia, che era tempo di fare la spesa. Al negozio,
tra le varie cose, lui che non lo
mangiava, si trovò a comprare del pesce come quello che prendeva per Cenere,
l’aveva messo nel carrello senza neanche rendersi conto di averlo fatto.
Al ritorno, entrando nel cortile, ebbe la
sensazione di essere osservato, si guardò intorno ma non vide nessuno: “Devo
essere stanco, più di una settimana in casa, camminando su e giù, deve avermi
debilitato”, rimuginò fra sé e sé. Tuttavia, la sensazione che avvertiva
diventava sempre più intensa. Si fermò, appoggio le borse per terra e si guardò
intorno con attenzione: “Devo avere le traveggole” mormorò. “portare la
mascherina troppo a lungo mi sta causando delle allucinazioni”, aveva dovuto
stare in coda quasi un’ora e non si era sentito bene per niente.
Vedeva la figura di Cenere davanti ai suoi
occhi e non capiva se fosse il ricordo di quando si erano salutati o l’airone,
non vedendolo, era venuto a cercarlo. Lo esaminò da capo a piedi,
stropicciandosi gli occhi e allungando la mano quasi a volerlo toccare, alla
fine dovette ammettere che sì, era proprio lui, le sue grandi zampe non erano
immerse nell’acqua, poggiavano sulla terra:
“Ma allora sei proprio tu, Cenere? Ma come hai
fatto a scoprire che questa era la mia casa?” esclamò con tono sorpreso e
gioioso insieme. “Capisco, adesso, perché questa mattina ho comprato il pesce.
Sei venuto a salutarmi o ti mancava il pranzo?” e aggiunse, commosso “sai, sono proprio felice di
vederti”.
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