Di Alessia Ghisi Migliari
In occasione del 427°
anniversario della nascita di Artemisia Gentileschi (8 luglio) vogliamo ripubblicare il saggio di Alessia Ghisi Migliari
Suo padre era un ottimo rappresentante della pittura
in stile Caravaggio.
E, si dice, tale padre tale figlia. Ma lei, Artemisia, fece di più: sviluppò uno stile proprio, fervente, teatrale, quasi disperato – e vi riuscì perché fu la sua vita a essere così (prima ancora della sua arte).
E, si dice, tale padre tale figlia. Ma lei, Artemisia, fece di più: sviluppò uno stile proprio, fervente, teatrale, quasi disperato – e vi riuscì perché fu la sua vita a essere così (prima ancora della sua arte).
Nata a Roma nel 1593, cresciuta ovviamente tra
pennelli e tele nella bottega paterna, mai luogo fu più appropriato per svelare
il talento – e il talento si mostrò da subito, inesorabile. Certo, non te lo
saresti aspettato, allora, da una donna.
O, per lo meno, da una leggiadra creatura ti saresti atteso tocchi di colore fatti con armonia, non con una vitalità quasi carnale. E sarà la carnalità, a segnare Artemisia.
Agostino Tassi è un compositore di magnifici paesaggi
e marine e collabora col Gentileschi a un progetto ambizioso: è un libertino e,
quando inizia a istruire la giovane Artemisia ai segreti del dipingere, è anche
altro cui punta.
La violenza sessuale avviene che la ragazza ha appena diciotto anni: dal processo dell’epoca – protratto in termini inquisitori e crudeli – ci sono rimasti particolari precisi su quanto avvenne. Stuprata, spaventata, tranquillizzata solo dalla promessa del Tassi di “riparare” col matrimonio, avviene fra i due, per mesi, una sorta di relazione: può iniziare nella fanciulla un reale interesse per qualcuno che l’ha così profondamente segnata? O è la soluzione in attesa di nozze che sono a quel punto necessarie?
Piccola difficoltà: Agostino è già sposato. A questo punto, Orazio Gentileschi, venuto a sapere il tutto, per difendere l’onore della famiglia porta in tribunale il suo collega, trascinando quindi anche la dignità della figlia che, visti i tempi, viene visitata, sondata, umiliata e studiata (anche torturata, per saggiare la sincerità delle sue dichiarazioni) come fosse uno strano e indegno esemplare: era davvero vergine o aveva avuto altri? Nulla viene taciuto, alla presenza dell’aula gremita.
La ferra volontà viene premiata: il Tassi viene rinchiuso in carcere, ma la pittrice deve trovare il modo di uscire “onorevolmente” dalla vicenda: prende per marito un certo (e non caratterialmente riposante) Stiattesi e parte con lui alla volta di Firenze, per ricostruirsi in ogni senso. La coppia ha diversi figli, ma la loro convivenza non è serena.
La violenza sessuale avviene che la ragazza ha appena diciotto anni: dal processo dell’epoca – protratto in termini inquisitori e crudeli – ci sono rimasti particolari precisi su quanto avvenne. Stuprata, spaventata, tranquillizzata solo dalla promessa del Tassi di “riparare” col matrimonio, avviene fra i due, per mesi, una sorta di relazione: può iniziare nella fanciulla un reale interesse per qualcuno che l’ha così profondamente segnata? O è la soluzione in attesa di nozze che sono a quel punto necessarie?
Piccola difficoltà: Agostino è già sposato. A questo punto, Orazio Gentileschi, venuto a sapere il tutto, per difendere l’onore della famiglia porta in tribunale il suo collega, trascinando quindi anche la dignità della figlia che, visti i tempi, viene visitata, sondata, umiliata e studiata (anche torturata, per saggiare la sincerità delle sue dichiarazioni) come fosse uno strano e indegno esemplare: era davvero vergine o aveva avuto altri? Nulla viene taciuto, alla presenza dell’aula gremita.
La ferra volontà viene premiata: il Tassi viene rinchiuso in carcere, ma la pittrice deve trovare il modo di uscire “onorevolmente” dalla vicenda: prende per marito un certo (e non caratterialmente riposante) Stiattesi e parte con lui alla volta di Firenze, per ricostruirsi in ogni senso. La coppia ha diversi figli, ma la loro convivenza non è serena.
In Toscana ha un certo successo: Cristina de’ Medici
l’apprezza molto, i suoi lavori sono noti e richiesti – ma i debiti aumentano
senza sosta.
Gli spostamenti, nella vita di Artemisia, si fanno costanti: torna a Roma, dove riesce a mantenere una certa fama per le sue capacità, ma dove, anche, non le viene commissionato quel qualcosa di “grandioso” di cui la sua carriera avrebbe realmente avuto bisogno. Si sposta dunque verso il 1630 a Venezia per poi passare a Napoli.
Gli spostamenti, nella vita di Artemisia, si fanno costanti: torna a Roma, dove riesce a mantenere una certa fama per le sue capacità, ma dove, anche, non le viene commissionato quel qualcosa di “grandioso” di cui la sua carriera avrebbe realmente avuto bisogno. Si sposta dunque verso il 1630 a Venezia per poi passare a Napoli.
Napoli diviene casa sua. Si trova bene, è valutata
col giusto merito e se ne allontana solo per un periodo, per raggiungere il
padre a Londra: di nuovo si ritrovano vicini, nella vita e nel lavoro, fino
alla morte di lui. Il rientro nella città partenopea è naturale e felice: e qui
resta, senza mai smettere di dipingere, fino alla propria morte, nel 1652 (o
1653, a seconda delle fonti).
Figura inusuale, quella di Artemisia. Dal
momento della violenza in poi, i suoi quadri acquisiscono una forza che è vera
e propria violenza: la sua risposta a quanto è accaduto è palese nello
stravolgente “Giuditta che decapita Oloferne”, dove si palesa una rabbia
implacabile, una volontà di vendetta che si realizza nella faccia feroce e
decisa di Giuditta – le interpretazioni psicologiche si sono sprecate, su
questa opera, e
non a torto.
In una luce da Caravaggio, la protagonista afferra
una spada con foga, con foga la passa sul collo di Oloferne. Una protagonista
dalle curve morbide, tonde, abbondanti – perché spesso, in maniera più nascosta
di quanto facesse Frida Kahlo, è se stessa, che Artemisia rappresenta
fisicamente: è il suo volto, la sua sagoma, le sue braccia corpose. Un continuo
mettersi in scena, come per esorcizzare la tempesta che ha dentro, il suo
passato, un’intensità di sentimenti che non trova spazio nel quotidiano.
Un continuo mettersi in scena per guarirsi, per ricreare di sì un’immagine intera, integra e non violata nell’identità di persona e donna da quanto le è successo, dalla disapprovazione verso di lei, pittrice e femmina e forse dissoluta.
La bellezza della sua arte si perde nella ferita che non guarisce, nel frantumarsi del proprio Io, difficile da ricomporre: i nomi biblici diventano, sotto il suo pennello, quasi feroci, ben poco spirituali – un’angoscia neanche tanto sottile che rende riconoscibilissimo il suo tratto. Anche nel proprio autoritratto si mostra di profilo, con la testa inclinata, tutta intenta a carpire il soggetto. Non mostra il viso, così ripreso altrove, ma solo se stessa nella posizione adatta a vedere, forse vedersi, una mano pronta a imprimere sulla tela probabilmente il viso che è il suo.
Un’idea innovativa: non ripropone sé, ma se stessa mentre è intenta a scorgere o scorgersi.
Una ricerca senza sosta – ci ha lasciato un’Artemisia tutta presa dall’osservazione, tesa nel tentativo di catturare un’essenza. E il titolo: Autoritratto come allegoria della pittura.
Un continuo mettersi in scena per guarirsi, per ricreare di sì un’immagine intera, integra e non violata nell’identità di persona e donna da quanto le è successo, dalla disapprovazione verso di lei, pittrice e femmina e forse dissoluta.
La bellezza della sua arte si perde nella ferita che non guarisce, nel frantumarsi del proprio Io, difficile da ricomporre: i nomi biblici diventano, sotto il suo pennello, quasi feroci, ben poco spirituali – un’angoscia neanche tanto sottile che rende riconoscibilissimo il suo tratto. Anche nel proprio autoritratto si mostra di profilo, con la testa inclinata, tutta intenta a carpire il soggetto. Non mostra il viso, così ripreso altrove, ma solo se stessa nella posizione adatta a vedere, forse vedersi, una mano pronta a imprimere sulla tela probabilmente il viso che è il suo.
Un’idea innovativa: non ripropone sé, ma se stessa mentre è intenta a scorgere o scorgersi.
Una ricerca senza sosta – ci ha lasciato un’Artemisia tutta presa dall’osservazione, tesa nel tentativo di catturare un’essenza. E il titolo: Autoritratto come allegoria della pittura.
Ed è lei la
pittura: ecco dunque che si compie, il tentativo di ricostituire un’integrità,
un’identità per sopravvivere. Lei è la pittura – e così può superare ciò che è
stato dramma.
L’arte che non è più estasi, ma bisogno, che non è più altrove ma diventa un nome e un corpo: Artemisia. E’ forse in questo dipinto, che si mostra la volizione: io sono la Pittura, nessuno lo può negare, ciò io sono, e non lo si può togliere – nessuna onta può farlo.
L’arte che non è più estasi, ma bisogno, che non è più altrove ma diventa un nome e un corpo: Artemisia. E’ forse in questo dipinto, che si mostra la volizione: io sono la Pittura, nessuno lo può negare, ciò io sono, e non lo si può togliere – nessuna onta può farlo.
E si ha quindi un altro esempio di come le doti
artistiche possano essere processo per risanarsi, nell’espressione e
liberazione di quanto interiorizzato male e con dolore.
E da qui emerge dunque un immane talento, riconosciutissimo all’estero e meno da noi.
E da qui emerge dunque un immane talento, riconosciutissimo all’estero e meno da noi.
(pubblicato
con l'autorizzazione dell'autrice e di Psicolab.net)
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