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martedì 10 marzo 2020

Lecco e i suoi fiumi: Il Gerenzone e il Caldone

Il Gerenzone (foto dal web)

  di Peppo Rota


IL GERENZONE.

L'acqua è sempre stata, per me, come una calamita dalla quale era difficile staccarmi.
Spesse volte, ancora piccolo - frequentavo l'asilo delle Suore di Castello - mi fermavo sul ponte  di via Seminario e, rivolto verso il monte Due Mani, guardavo le acque del  fiume Gerenzone, in particolare i mulinelli che si formavano e poi sparivano e osservavo il movimento dell'acqua, in corrispondenza delle briglie che erano allora costruite coll’antico sistema dei pali e traverse in castano.
Allora, i soci del Consorzio del Gerenzone tenevano in ordine le briglie, perché in corrispondenza di esse traevano la giusta portata per il tempo convenuto. Per loro, l'acqua era energia mediante la quale, con l'inventiva e la testardaggine caratteristiche dei nostri padri e dei nostri nonni,  trasformavano il filo di ferro, ma anche altri metalli, in ricchezza (danéé).


Guardando le acque in movimento del Gerenzone, mi capitava di entrare in uno stato di ipnosi, come succede  a chi sta di fronte ad un grande falò, o è seduto davanti al fuoco scoppiettante di un caminetto.
Pertanto, il mio rapporto con l'acqua fu sempre di amore e rispetto e la conobbi per la prima volta, (a parte il battesimo),  quando tentando di diventare il capo-branco - ai tempi delle elementari frequentate alla "Giosuè Carducci" di Castello - dovetti camminare sul muretto spondale della fiumicella di via Galandra per circa 50 metri. Tutto andò bene, fino a quando, al posto del muretto mi trovai a camminare su delle lastre di granito inclinate verso la fiumicella, poste dal Comune per dare la possibilità alle donne della zona di lavare i panni. Purtroppo, misi un piede su del sapone abbandonato da una lavandaia smemorata e scivolai nella fiumicella, dove scorreva acqua rossa, rilasciata da una trafileria appena a monte, a seguito della fase di decapaggio del filo di ferro. Saltai fuori e, coi vestiti rossicci, di corsa andai a casa dove mia madre mi asciugò a forza di bastonate. Comunque il giorno dopo, verso le cinque del pomeriggio, sul ponticello di via Gerenzone, fui riconosciuto come il capo-branco di tutti gli alunni di via Seminario che frequentavano la “Carducci”.
Questo semplice racconto, oltre a riportami indietro di quasi  70 primavere, dimostra come intorno agli anni cinquanta del secolo scorso, i ragazzi si divertivano con poco: bastava il cerchione di una ruota senza raggi di una bicicletta e un tondino sagomato ad una estremità ad U per passare interi pomeriggi portando a spasso il cerchione; l'abilità stava nel non farlo cadere per terra percorrendo  strade in macadam, in ciottoli,  piane o ripide. Spesse volte, quando si passava sul ponticello, che esiste ancora in via Gerenzone, il cerchione finiva nel fiume e allora il recupero giustificava, d'estate, lo stare dentro e fuori dal fiume per un pomeriggio intero.
Erano i tempi dei “tirabagia.
Erano i primi anni Cinquanta del secolo scorso, cioè circa 70 anni fa, quando, un lunedì, andando in Valsassina mi capitò di vedere la piana di Balisio sommersa da un lago d'acqua. In quella occasione, non era possibile girare sul  nuovo lago con una barca, ma la visione di una massa  così notevole d'acqua mi impressionò a tal punto che ancora oggi mi sembra di averla davanti agli occhi. 
Dopo qualche giorno, passai di nuovo dalla piana di Balisio, ma con mia grande sorpresa notai che il lago d'acqua era sparito. Poiché ero ancora un bambino, pensai che, come i maghi fanno
sparire i coniglietti bianchi nel cappello a cilindro, cosi sono in grado di far comparire e scomparire un lago. Però non ero convinto.
Durante gli anni delle elementari e delle  medie, le vacanze estive le  passavo sempre in montagna,  e, precisamente, su all'alpe Foppa  sopra la località turistica di Maggio, in  Valsassina.
Pertanto, mi capitava spesso di fermarmi  nel canyon della piana di Balisio, guardare prima in direzione della Grigna Meridionale e poi verso il monte Due Mani.
Dai versanti di  queste due montagne scendevano diverse vallette che, in occasione di temporali,  convogliavano nella fossa di Balisio una notevole quantità d'acqua e talvolta anche ghiaia e materiale lapideo di varia pezzatura, bloccando addirittura il traffico da e per la Valsassina.
Mi resi conto, avendo sempre visto l'acqua scendere dall'alto verso il basso e mai viceversa, che l'acqua, per me ormai “famosa” del laghetto di Balisio, non poteva che filtrare nel terreno ed effettivamente, nel giro di due o tre giorni, spariva lasciando sull'erba dei prati una specie di limo che funzionava da concime naturale.
Il problema, almeno per me, era risolto solo a metà, perché non sapevo dove l'acqua del laghetto di Balisio andasse a finire, o, meglio,  dove sarebbe tornata alla luce del sole.
Le ipotesi  più attendibili, a mio modesto parere, erano tre: o ricompariva nella valle del Pioverna, direzione Pasturo, o nella valle del torrente Grigna per immettersi nel fiume Caldone o nella valle del Gerenzone.
Arrivarono gli anni del Liceo e poiché mi sentivo attratto,  come la maggior parte dei Lecchesi, più dalle montagne che dal lago, incominciai, per essere vicino all'acqua, sostanza magica per me, a risalire i fiumi: il Pioverna, il Grigna ed il Gerenzone, non dimenticando la val Boazzo che, pur non  avendo alcun legame con l'acqua “famosa” del lago di Balisio, era tuttavia la meta preferita per passare le giornate torride e afose dell'agosto lecchese.  Si montava la tenda tra le baite di Boazzo a pochi metri
dall'alveo del torrente che, in quel tratto alquanto piano, formava diversi laghetti  dove,  immergendoci, noi ragazzi ci rinfrescavamo.
Ora, ritornando al Pioverna, la risalita dalla località “Fola” (bivio  tra  Pasturo e Barzio), fino alla sorgente principale (alla sinistra per chi sale da Balisio al Pialeral), fu abbastanza impegnativa anche se, alla fine, arrivai alla conclusione che nel bacino imbrivero del Pioverna difficilmente arrivava l'acqua “famosa” della fossa di Balisio.
Molto più semplice fu risalire il fiume Grigna dalla località Soneda, posta a monte del rione della Bonacina, fino a dove sotto passa la strada provinciale Ballabio-Morterone, e anche in questo caso non vennero rilevate risorgive  con portate rilevanti.
Più complesse e meticolose  furono le uscite nella valle del Gerenzone, prima dal ponte della Gallina risalendo lungo la val Calolden, che non era stata coperta ancora,  poi da via Guggiarolo, su per la val Pozza  fino ad arrivare sotto il ponte della  vecchia  Lecco- Ballabio ora S.P. 62.
Lungo la parte iniziale della  val Calolden si potevano individuare, sul versante destro, a valle del primo tratto di via Paolo VI, alcune sorgenti  con portate basse di proprietà della  Famiglia Gerosa, ben nota nel rione di Laorca. Anche sul  versante sinistro, a monte del ponticello, tuttora esistente, che collega la frazione di Pomedo al rione di Laorca, erano ben visibili venute d' acqua sorgive anch'esse di lieve entità
Ebbene, la situazione invece diventò molto interessante  quando, dal ponte della Gallina,  scesi per una trentina di metri e arrivai nel punto dove le acque della val Calolden si uniscono a quelle della val Pozza per dar origine al fiume Gerenzone che, come già detto pomposamente da altri, ebbe per i Lecchesi la stessa valenza del Nilo per gli Egiziani.
Con  mia grande meraviglia, notai subito, la prima volta e poi in quelle successive, che la portata  in arrivo dalla Val Pozza era sicuramente almeno 50 volte quella della val Calolden. Inoltre le acque della Val Pozza si presentavano  chiare, trasparenti e al tatto freschissime, mentre quelle della Val Calolden si presentavano limacciose come se fossero state interessate  da acque chiarificate provenienti dalle fosse  biologiche della frazione di Pomedo.
Risalii, dall'inizio del Gerenzone, lungo l'alveo della Valpozza, scavalcai via Guggiarolo e, dopo aver percorso circa 400/500 metri, sempre nell'alveo, mi trovai all' altezza di una fattoria che lo scorso anno mi sembrava abbandonata. Incominciai,  salendo nella valle piena di alberi, a vedere risorgive  di notevole portata e man mano che salivo ne individuavo altre. Questo spettacolo interessò un tratto di circa 100 metri. Poi,  a circa 200 metri dal ponte  della vecchia Lecco-Ballabio, ora  S.P. 62, l'alveo diventò completamente asciutto.
Successivamente, in tempi diversi, verificai  qualitativamente che  la portata delle risorgive di Val Pozza  era legata alla quantità d'acqua della piana di Balisio e il tempo che impiegava a filtrare attraverso quell' enorme spessore di ghiaia e sabbia, che univa la fossa di Balisio con la Val Pozza, aveva una durata di qualche giorno.
Solo con la frequentazione del Politecnico di Milano e ovviamente la scelta dell'indirizzo di Ingegneria idraulica, con specializzazione Ambientale, ebbi modo con la Geologia applicata di avere conferme sull'andamento delle acque sotterranee che, dalla piana di Balisio, arrivavano a riemergere non solo in val Pozza ma lungo l'alveo del Gerenzone  nel tratto che dal ponte della Gallina scende  fino alla località Svizzera posta nella parte bassa di Laorca e in sponda sinistra idraulica del nostro fiume Gerenzone.
Al quinto anno di università (1968) dovendo redarre una tesina per l'esame di Impianti idraulici speciali, presi come argomento l'acquedotto del comune di Lecco. Fu allora che incominciai a frequentare l'ufficio acquedotto e fognature del Comune, il cui capoufficio,  geometra Arzani, mi mise, letteralmente, a disposizione l'intero ufficio. Conobbi allora, l'esistenza delle più vecchie sorgenti della valle del Gerenzone poste a monte del ponte della Gallina cioè:  Calolden, Gallina, Pomedo e Gallastria e poi scendendo verso la località Svizzera: Campovai, Ramello I, Ramello II , Jsepott, Barone e Baruffaldi.
In modo particolare le sorgenti che presentavano portate alte e costanti erano posizionate tra via Campovai e via Luigi Da Porto. Lungo questo tratto di fiume dalla Gallina alla Svizzera c'erano industrie famose quali: Rigamonti, Redaelli, Mambretti, Melesi, Pozzi,  Airoldi, e Baruffaldi.
Fu proprio subito a valle della  ditta Melesi dove il Gerenzone presenta una cascata di circa tre metri che mentre si stava realizzando la fognatura nera   lungo il fiume, il capo-cantiere Antonio Pigazzini da Carenno ebbe la brillante idea di deviare, verso le ore 11 di un mattino, tutte le acque del Gerenzone in una grande pozza  da dove l'acqua esondava a lama ma le trote rimanevano prigioniere. Dalle 4 alle 5 del pomeriggio venne fatta la pesca delle trote con un secchio da muratore e tutti gli operai, per la maggior parte bergamaschi di Bonate Sopra, si portarono a casa qualche chilo di trote del fiume Gerenzone.
Non ho mai approfondito  perché quel gruppo di case, servite da via Ramello e poste in sponda sinistra, si chiami Svizzera, forse perché l'accesso era costituito solo da un ponticello, comunque sia,  è dalla Svizzera che si sale alla Selva Grande ben nota ai Laorchesi.
Scendendo lungo l'asta del Gerenzone fino al ponte di Malavedo si possono vedere le ex fabbriche Fumagalli, Wilhem, Wiesmann con di fronte il primo aghificio italiano dei Penci, i Piazza delle morse, persone laboriose e aperti ai bisogni della comunità, Gerosa, Stoppa, la famosa Falck  e, per ultimo, le trafilerie di Malavedo dei  Gianola, l'unica ditta  che oggi usa l'acqua del Gerenzone per la produzione di energia elettrica.


Il Caldone

Il fiume Caldone nasce dalla confluenza, in località Soneda a monte del rione della Bonacina, del torrente Grigna e della Val Boazzo.
L’asta principale del torrente Grigna, parte dal canalone Porta della Grigna Meridionale (Grignetta),  scende tenendo sulla destra il Nibbio, tutta la strada a tornanti che porta ai Piani Resinelli e alle ville di Ballabio Superiore. Chi sale in montagna solo con l’auto, lo può vedere 50 mt prima della vecchia casa cantoniera, dove una volta bisognava fermarsi per pagare il pedaggio della strada consortile per i Resinelli.
Il Grigna attraversa poi Ballabio Superiore ed inferiore per sottopassare la provinciale che porta a Morterone lasciando poi, sempre sulla destra, l’impianto di depurazione di Ballabio e scende, con diversi salti e saltarelli, verso Soneda, dove si unisce alle acque pure che vengono dal Passo del Lupo.
La Val Boazzo, invece, comincia sotto Morterone prende le acque di un versante del Monte Due Mani e le acque dei Piani d’Erna (Resegone), passa attraverso le poche cascine, sette o otto, della località Boazzo dove nei primi anni del ‘900 vivevano tre grandi famiglie: i “Barbis” (Rota), i “Caem Ross” (Invernizzi) e i “Caem Negher” (sempre Invernizzi). Da Boazzo al Passo del Lupo l’acqua scorre in un canyon profondo, formando vasche, vasconi, invasi a forma di marmitte, cascate di vari metri e cascatelle. Certamente questo è il tratto magico della Val Bazzo dove, per fortuna, possono accedere solo coloro che hanno dimestichezza con corde, cordini, imbracature, cioè gente che la montagna la pratica tutti i giorni.
Questo tratto, negli inverni freddi, è meta degli scalatori delle cascate di ghiaccio.
Le acque limpide della val Boazzo, con quattro salti, scendono poi dal Passo del Lupo per unirsi in località Soneda con le acque del torrente Grigna. (Il Passo del Lupo si trova esattamente sulla verticale del nuovo ponte della Lecco-Valsassina).
Da quel punto ha inizio il fiume Caldone e il primo tratto, fino al ponte a due arcate della località S. Egidio, è quello più attraente specialmente quando la portata d’acqua è molto elevata, come negli inverni senza neve ma con acqua in abbondanza. Inoltre, questo è il tratto accessibile a piedi a tutte le persone: grandi e piccini, famiglie e coppie, soprattutto durante i mesi caldi dell’estate. Lungo questo tratto, fino al vascone di ritenuta dei materiali sito in via S. Egidio, vengono effettuate gare di pesca alla trota. Il suddetto vascone è ormai diventato l’ambiente ideale per i Germani reali, ma anche per una coppia di aironi cenerini che si posso vedere all’alba e anche dopo il tramonto.
Il Caldone lo possiamo vedere passar sotto ai due ponti nel rione della Bonacina, a via Garabuso e a Viale Montegrappa. Poi attraversa l’ex area S.A.E., dove si possono ammirare degli interventi edilizi…, e qui un  “mah!” è d’obbligo.
Ritornando al nostro fiume, lo rivediamo sotto il ponte di Via Alimasco prendere le acque del torrente Volone (completamente interrato), affluente in sponda destra, passare sotto la copertura dell’ex proprietà Achille Ponziani, uscire girando attorno all’A.S.L. di via Tubi per sottopassare le “Meridiane” e di nuovo uscire a cielo libero nel tratto scoperto di via Carlo Porta (anche per il grande Enzo Piano ci vuole un “mah!”). Appena sotto il ponte ferroviario il nostro Caldone sparisce per farsi rivedere presso la Canottieri Lecco e abbracciare il lago.
La vera verità è che attualmente sono scomparse diverse trafilerie e  galvaniche per cui l’inquinamento del Caldone è dovuto più a sversamenti saltuari e abusivi o a tombinature che scaricano in continuo acque nere.
Mi fermo qui perché avrei molte altre cose da dire sul Caldone. (Inquinamento delle sorgenti Termini da cromo tra ed esavalente/
Ponte vecchio di Acquate demolito nel 1938 per costruire la S.A.E./ Deviazione Bione su Caldone proposta Magnani-Rota./
Deviazione Caldone su Bione,proposta Graziano Tubi del 1875/
Acque di sub alveo, pozzo Caleotto ecc./
Quota falda freatica legata all’attraversamento di Lecco/
progetto lungofiume in via Carlo Porta).

(pubblicato con l'autorizzazione dell'autore) 









1 commento:

  1. Un articolo notevole per la conoscenza è l’amore per il territorio e per i ricordi che evoca. Grande è il dispiacere che si avverte a causa dei danni che l’uomo spesso provoca all'ambiente e alla collettività con le sue azioni. Grazie, Peppo Rota per questa testimonianza. Giovanna Rotondo

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