Il Gerenzone (foto dal web) |
IL GERENZONE.
L'acqua è sempre
stata, per me, come una calamita dalla quale era difficile staccarmi.
Spesse volte, ancora
piccolo - frequentavo l'asilo delle Suore di Castello - mi fermavo sul
ponte di via Seminario e, rivolto verso
il monte Due Mani, guardavo le acque del
fiume Gerenzone, in particolare i mulinelli che si formavano e poi
sparivano e osservavo il movimento dell'acqua, in corrispondenza delle briglie
che erano allora costruite coll’antico sistema dei pali e traverse in castano.
Allora, i soci del
Consorzio del Gerenzone tenevano in ordine le briglie, perché in
corrispondenza di esse traevano la giusta portata per il tempo convenuto. Per
loro, l'acqua era energia mediante la quale, con l'inventiva e la testardaggine
caratteristiche dei nostri padri e dei nostri nonni, trasformavano il filo di ferro, ma anche
altri metalli, in ricchezza (danéé).
Guardando le acque in
movimento del Gerenzone, mi capitava di entrare in uno stato di ipnosi, come
succede a chi sta di fronte ad un grande
falò, o è seduto davanti al fuoco scoppiettante di un
caminetto.
Pertanto, il mio
rapporto con l'acqua fu sempre di amore e rispetto e la conobbi per la prima
volta, (a parte il battesimo), quando
tentando di diventare il capo-branco - ai tempi delle elementari frequentate
alla "Giosuè Carducci" di Castello - dovetti camminare sul muretto
spondale della fiumicella di via Galandra per circa 50 metri. Tutto andò bene,
fino a quando, al posto del muretto mi trovai a camminare su delle lastre di
granito inclinate verso la fiumicella, poste dal Comune per dare la possibilità alle
donne della zona di lavare i panni. Purtroppo, misi un piede su del sapone
abbandonato da una lavandaia smemorata e scivolai nella fiumicella, dove
scorreva acqua rossa, rilasciata da una trafileria appena a monte, a seguito
della fase di decapaggio del filo di ferro. Saltai fuori e, coi vestiti
rossicci, di corsa andai a casa dove mia madre mi asciugò a forza di bastonate.
Comunque il giorno dopo, verso le cinque del pomeriggio, sul ponticello di via
Gerenzone, fui riconosciuto come il capo-branco di tutti gli alunni di via
Seminario che frequentavano la “Carducci”.
Questo semplice
racconto, oltre a riportami indietro di quasi
70 primavere, dimostra come intorno agli anni cinquanta del secolo
scorso, i ragazzi si divertivano con poco: bastava il cerchione di una ruota
senza raggi di una bicicletta e un tondino sagomato ad una estremità ad
U per passare interi pomeriggi portando a spasso il cerchione; l'abilità stava
nel non farlo cadere per terra percorrendo
strade in macadam, in ciottoli,
piane o ripide. Spesse volte, quando si passava sul ponticello, che
esiste ancora in via Gerenzone, il cerchione finiva nel fiume e allora il
recupero giustificava, d'estate, lo stare dentro e fuori dal fiume per un
pomeriggio intero.
Erano i tempi dei “tirabagia.”
Erano i primi anni
Cinquanta del secolo scorso, cioè circa 70 anni fa, quando, un lunedì, andando
in Valsassina mi capitò di vedere la piana di Balisio sommersa da un lago
d'acqua. In quella occasione, non era possibile girare sul nuovo lago con una barca, ma la visione di
una massa così notevole d'acqua mi
impressionò a tal punto che ancora oggi mi sembra di averla davanti agli
occhi.
Dopo qualche giorno,
passai di nuovo dalla piana di Balisio, ma con mia grande sorpresa notai che il
lago d'acqua era sparito. Poiché ero ancora un
bambino, pensai che, come i maghi fanno
sparire i coniglietti
bianchi nel cappello a cilindro, cosi sono in grado di far comparire e
scomparire un lago. Però non ero convinto.
Durante gli anni
delle elementari e delle medie, le
vacanze estive le passavo sempre in
montagna, e, precisamente, su all'alpe
Foppa sopra la località turistica
di Maggio, in Valsassina.
Pertanto, mi capitava
spesso di fermarmi nel canyon della
piana di Balisio, guardare prima in direzione della Grigna Meridionale e poi
verso il monte Due Mani.
Dai versanti di queste due montagne scendevano diverse
vallette che, in occasione di temporali,
convogliavano nella fossa di Balisio una notevole quantità d'acqua
e talvolta anche ghiaia e materiale lapideo di varia pezzatura, bloccando
addirittura il traffico da e per la Valsassina.
Mi resi conto, avendo
sempre visto l'acqua scendere dall'alto verso il basso e mai viceversa, che
l'acqua, per me ormai “famosa” del laghetto di
Balisio, non poteva che filtrare nel terreno ed effettivamente, nel giro di due
o tre giorni, spariva lasciando sull'erba dei prati una specie di limo che funzionava
da concime naturale.
Il problema, almeno
per me, era risolto solo a metà, perché non
sapevo dove l'acqua del laghetto di Balisio andasse a finire, o, meglio, dove sarebbe tornata alla luce del sole.
Le ipotesi più attendibili, a mio modesto parere, erano
tre: o ricompariva nella valle del Pioverna, direzione Pasturo, o nella valle
del torrente Grigna per immettersi nel fiume Caldone o nella valle del
Gerenzone.
Arrivarono gli anni
del Liceo e poiché mi sentivo
attratto, come la maggior parte dei
Lecchesi, più dalle montagne che dal lago, incominciai, per essere vicino
all'acqua, sostanza magica per me, a risalire i fiumi: il Pioverna, il Grigna
ed il Gerenzone, non dimenticando la val Boazzo che, pur non avendo alcun legame con l'acqua “famosa” del lago di Balisio, era tuttavia la meta
preferita per passare le giornate torride e afose dell'agosto lecchese. Si montava la tenda tra le baite di Boazzo a
pochi metri
dall'alveo del
torrente che, in quel tratto alquanto piano, formava diversi laghetti dove,
immergendoci, noi ragazzi ci rinfrescavamo.
Ora, ritornando al
Pioverna, la risalita dalla località “Fola”
(bivio tra Pasturo e Barzio), fino alla sorgente
principale (alla sinistra per chi sale da Balisio al Pialeral), fu abbastanza
impegnativa anche se, alla fine, arrivai alla conclusione che nel bacino
imbrivero del Pioverna difficilmente arrivava l'acqua “famosa” della fossa di Balisio.
Molto più semplice fu
risalire il fiume Grigna dalla località Soneda,
posta a monte del rione della Bonacina, fino a dove sotto passa la strada
provinciale Ballabio-Morterone, e anche in questo caso non vennero rilevate
risorgive con portate rilevanti.
Più complesse e
meticolose furono le uscite nella valle
del Gerenzone, prima dal ponte della Gallina risalendo lungo la val Calolden,
che non era stata coperta ancora, poi da
via Guggiarolo, su per la val Pozza fino
ad arrivare sotto il ponte della
vecchia Lecco- Ballabio ora S.P.
62.
Lungo la parte
iniziale della val Calolden si potevano
individuare, sul versante destro, a valle del primo tratto di via Paolo VI,
alcune sorgenti con portate basse di
proprietà della Famiglia
Gerosa, ben nota nel rione di Laorca. Anche sul
versante sinistro, a monte del ponticello, tuttora esistente, che
collega la frazione di Pomedo al rione di Laorca, erano ben visibili venute d'
acqua sorgive anch'esse di lieve entità
Ebbene, la situazione
invece diventò molto interessante
quando, dal ponte della Gallina,
scesi per una trentina di metri e arrivai nel punto dove le acque della
val Calolden si uniscono a quelle della val Pozza per dar origine al fiume
Gerenzone che, come già detto pomposamente da
altri, ebbe per i Lecchesi la stessa valenza del Nilo per gli Egiziani.
Con mia grande meraviglia, notai subito, la prima
volta e poi in quelle successive, che la portata in arrivo dalla Val Pozza era sicuramente
almeno 50 volte quella della val Calolden. Inoltre le acque della Val Pozza si
presentavano chiare, trasparenti e al
tatto freschissime, mentre quelle della Val Calolden si presentavano limacciose
come se fossero state interessate da
acque chiarificate provenienti dalle fosse
biologiche della frazione di Pomedo.
Risalii, dall'inizio
del Gerenzone, lungo l'alveo della Valpozza, scavalcai via Guggiarolo e, dopo
aver percorso circa 400/500 metri, sempre nell'alveo, mi trovai all' altezza di
una fattoria che lo scorso anno mi sembrava abbandonata. Incominciai, salendo nella valle piena di alberi, a vedere
risorgive di notevole portata e man mano
che salivo ne individuavo altre. Questo spettacolo interessò un tratto di circa
100 metri. Poi, a circa 200 metri dal
ponte della vecchia Lecco-Ballabio,
ora S.P. 62, l'alveo diventò
completamente asciutto.
Successivamente, in
tempi diversi, verificai
qualitativamente che la portata
delle risorgive di Val Pozza era legata
alla quantità d'acqua della piana
di Balisio e il tempo che impiegava a filtrare attraverso quell' enorme
spessore di ghiaia e sabbia, che univa la fossa di Balisio con la Val Pozza,
aveva una durata di qualche giorno.
Solo con la
frequentazione del Politecnico di Milano e ovviamente la scelta dell'indirizzo
di Ingegneria idraulica, con specializzazione Ambientale, ebbi modo con la
Geologia applicata di avere conferme sull'andamento delle acque sotterranee
che, dalla piana di Balisio, arrivavano a riemergere non solo in val Pozza ma
lungo l'alveo del Gerenzone nel tratto
che dal ponte della Gallina scende fino
alla località Svizzera posta nella
parte bassa di Laorca e in sponda sinistra idraulica del nostro fiume
Gerenzone.
Al quinto anno di
università (1968) dovendo redarre una tesina per l'esame di Impianti
idraulici speciali, presi come argomento l'acquedotto del comune di Lecco. Fu
allora che incominciai a frequentare l'ufficio acquedotto e fognature del
Comune, il cui capoufficio, geometra
Arzani, mi mise, letteralmente, a disposizione l'intero ufficio. Conobbi
allora, l'esistenza delle più vecchie sorgenti della valle del Gerenzone poste
a monte del ponte della Gallina cioè: Calolden, Gallina, Pomedo e Gallastria e poi
scendendo verso la località Svizzera: Campovai,
Ramello I, Ramello II , Jsepott, Barone e Baruffaldi.
In modo particolare
le sorgenti che presentavano portate alte e costanti erano posizionate tra via
Campovai e via Luigi Da Porto. Lungo questo tratto di fiume dalla Gallina alla
Svizzera c'erano industrie famose quali: Rigamonti, Redaelli, Mambretti,
Melesi, Pozzi, Airoldi, e Baruffaldi.
Fu proprio subito a
valle della ditta Melesi dove il
Gerenzone presenta una cascata di circa tre metri che mentre si stava
realizzando la fognatura nera lungo il
fiume, il capo-cantiere Antonio Pigazzini da Carenno ebbe la brillante idea di
deviare, verso le ore 11 di un mattino, tutte le acque del Gerenzone in una
grande pozza da dove l'acqua esondava a
lama ma le trote rimanevano prigioniere. Dalle 4 alle 5 del pomeriggio venne
fatta la pesca delle trote con un secchio da muratore e tutti gli operai, per
la maggior parte bergamaschi di Bonate Sopra, si portarono a casa qualche chilo
di trote del fiume Gerenzone.
Non ho mai
approfondito perché quel
gruppo di case, servite da via Ramello e poste in sponda sinistra, si chiami
Svizzera, forse perché l'accesso era
costituito solo da un ponticello, comunque sia,
è dalla Svizzera che si sale alla Selva Grande ben nota ai Laorchesi.
Scendendo lungo
l'asta del Gerenzone fino al ponte di Malavedo si possono vedere le ex
fabbriche Fumagalli, Wilhem, Wiesmann con di fronte il primo aghificio italiano
dei Penci, i Piazza delle morse, persone laboriose e aperti ai bisogni della
comunità, Gerosa, Stoppa, la famosa Falck e, per ultimo, le trafilerie di Malavedo
dei Gianola, l'unica ditta che oggi usa l'acqua del Gerenzone per la
produzione di energia elettrica.
Il Caldone
Il fiume Caldone nasce dalla confluenza, in
località Soneda a monte del rione della Bonacina, del torrente Grigna e della
Val Boazzo.
L’asta principale del torrente Grigna, parte
dal canalone Porta della Grigna Meridionale (Grignetta), scende tenendo sulla destra il Nibbio, tutta
la strada a tornanti che porta ai Piani Resinelli e alle ville di Ballabio
Superiore. Chi sale in montagna solo con l’auto, lo può vedere 50 mt prima
della vecchia casa cantoniera, dove una volta bisognava fermarsi per pagare il
pedaggio della strada consortile per i Resinelli.
Il Grigna attraversa poi Ballabio Superiore
ed inferiore per sottopassare la provinciale che porta a Morterone lasciando
poi, sempre sulla destra, l’impianto di depurazione di Ballabio e scende, con
diversi salti e saltarelli, verso Soneda, dove si unisce alle acque pure che
vengono dal Passo del Lupo.
La Val Boazzo, invece, comincia sotto
Morterone prende le acque di un versante del Monte Due Mani e le acque dei
Piani d’Erna (Resegone), passa attraverso le poche cascine, sette o otto, della
località Boazzo dove nei primi anni del ‘900 vivevano tre grandi famiglie: i
“Barbis” (Rota), i “Caem Ross” (Invernizzi) e i “Caem Negher” (sempre
Invernizzi). Da Boazzo al Passo del Lupo l’acqua scorre in un canyon profondo,
formando vasche, vasconi, invasi a forma di marmitte, cascate di vari metri e
cascatelle. Certamente questo è il tratto magico della Val Bazzo dove,
per fortuna, possono accedere solo coloro che hanno dimestichezza con corde,
cordini, imbracature, cioè gente che la montagna la pratica tutti i giorni.
Questo tratto, negli inverni freddi, è meta
degli scalatori delle cascate di ghiaccio.
Le acque limpide della val Boazzo, con
quattro salti, scendono poi dal Passo del Lupo per unirsi in località Soneda
con le acque del torrente Grigna. (Il Passo del Lupo si trova esattamente sulla
verticale del nuovo ponte della Lecco-Valsassina).
Da quel punto ha inizio il fiume Caldone e il
primo tratto, fino al ponte a due arcate della località S. Egidio, è quello più
attraente specialmente quando la portata d’acqua è molto elevata, come negli
inverni senza neve ma con acqua in abbondanza. Inoltre, questo è il tratto
accessibile a piedi a tutte le persone: grandi e piccini, famiglie e coppie,
soprattutto durante i mesi caldi dell’estate. Lungo questo tratto, fino al
vascone di ritenuta dei materiali sito in via S. Egidio, vengono effettuate
gare di pesca alla trota. Il suddetto vascone è ormai diventato l’ambiente
ideale per i Germani reali, ma anche per una coppia di aironi cenerini che si
posso vedere all’alba e anche dopo il tramonto.
Il Caldone lo possiamo vedere passar sotto ai
due ponti nel rione della Bonacina, a via Garabuso e a Viale Montegrappa. Poi
attraversa l’ex area S.A.E., dove si possono ammirare degli interventi
edilizi…, e qui un “mah!” è d’obbligo.
Ritornando al nostro fiume, lo rivediamo
sotto il ponte di Via Alimasco prendere le acque del torrente Volone
(completamente interrato), affluente in sponda destra, passare sotto la
copertura dell’ex proprietà Achille Ponziani, uscire girando attorno all’A.S.L.
di via Tubi per sottopassare le “Meridiane” e di nuovo uscire a cielo libero
nel tratto scoperto di via Carlo Porta (anche per il grande Enzo Piano ci vuole
un “mah!”). Appena sotto il ponte ferroviario il nostro Caldone sparisce per farsi
rivedere presso la Canottieri Lecco e abbracciare il lago.
La vera verità è che attualmente sono
scomparse diverse trafilerie e
galvaniche per cui l’inquinamento del Caldone è dovuto più a sversamenti
saltuari e abusivi o a tombinature che scaricano in continuo acque nere.
Mi fermo qui perché avrei molte altre cose da
dire sul Caldone. (Inquinamento delle sorgenti Termini da cromo tra ed
esavalente/
Ponte vecchio di Acquate demolito nel 1938
per costruire la S.A.E./ Deviazione Bione su Caldone proposta Magnani-Rota./
Deviazione Caldone su Bione,proposta Graziano
Tubi del 1875/
Acque di sub alveo, pozzo Caleotto ecc./
Quota falda freatica legata
all’attraversamento di Lecco/
progetto lungofiume in via Carlo Porta).
Un articolo notevole per la conoscenza è l’amore per il territorio e per i ricordi che evoca. Grande è il dispiacere che si avverte a causa dei danni che l’uomo spesso provoca all'ambiente e alla collettività con le sue azioni. Grazie, Peppo Rota per questa testimonianza. Giovanna Rotondo
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