Walter Mac
Mazzieri sedeva davanti alla grande finestra del suo studio, un bicchiere di
vino rosso abbandonato accanto ai tubetti di colore aperti. L’odore denso di
trementina riempiva l’aria, unito al profumo umido della notte che s’infilava
dalla finestra socchiusa. Era una serata di primavera, e il suo ultimo lavoro,
una grande tela dai toni accesi e inquietanti, riposava sul cavalletto,
asciugandosi lentamente.
Negli ultimi
mesi, qualcosa stava cambiando. L’epoca della fame ormai non era più che un’ombra
nei suoi ricordi, ma ogni tanto gli tornavano in mente gli odori e i colori
della terra aspra e contadina in cui era cresciuto. Aveva conosciuto fin da
giovane le mani ruvide del lavoro e il peso delle parole di chi gli era più
vicino. «L’arte non porta pane, Walter, porta solo altra fame», diceva suo
padre, scettico di fronte ai primi schizzi che il ragazzo si ostinava a
disegnare su pezzi di carta scovati chissà dove. «Solo col lavoro si crea
qualcosa». «E non è lavoro, questo?», obiettava. «No, non è lavoro quello che
si fa con la schiena diritta» sentenziava il genitore. Come un epitaffio.
Eppure, a
quindici anni, Walter era riuscito a organizzare la sua prima mostra. I quadri,
intrisi di un rustico realismo, raccontavano la vita semplice ma dura della
provincia. Lontani dai voli surreali che avrebbero caratterizzato la sua
maturità, quei primi lavori rivelavano già un occhio attento e una mano capace
di immortalare l’anima delle cose. E, nonostante lo scetticismo della famiglia,
Walter aveva continuato a dipingere, autodidatta, inseguendo con ostinazione
una strada che solo lui poteva vedere.
Dopo anni di
mostre quasi deserte, di recensioni tiepide e di dubbi tormentosi, Walter aveva
cominciato a ricevere inviti da gallerie più prestigiose. La sua personalità
artistica era esplosa sul finire degli anni Sessanta, trovando finalmente la
sua voce piena e riconoscibile. Si era sentito finalmente libero, le catene
della necessità si erano sciolte, rimaneva solo la necessità, anzi l’impellenza
dell’arte. Critici noti avevano scritto di lui, lodando la sua capacità di
trasformare il paesaggio interiore in visioni oniriche e surreali. Non era
ancora la fama che sognava, ma era un riconoscimento, finalmente.
Il 1968 aveva
segnato un cambiamento: il mondo intorno a lui ribolliva di rivoluzioni e
speranze, e anche Walter sentiva crescere dentro un’urgenza nuova. Nel 1971,
una mostra a Milano gli aveva portato un riconoscimento ampio, suscitando
interesse tra critici e pubblico. Coronato dalla famosa copertina per il
complesso rock delle Orme, “Uomo di pezza”, cui ne sarebbero seguite altre.
Era stato l’inizio
di un periodo intenso, in cui aveva lavorato con tenacia, senza mai smettere di
viaggiare. L’Europa e l’Africa erano diventati i suoi spazi di ricerca:
visitava musei, città, villaggi e terre arse, cercando nei dettagli di ogni
cultura e paesaggio ispirazione per la sua arte.
Negli anni
successivi, le sue personali in Italia e all’estero avevano consolidato la sua carriera,
ma il successo non era mai stato una vertigine tale da fargli perdere la
singolare profondità artistica e la sua dedizione totale. Nel suo studio,
Walter non smetteva mai d’interrogarsi. Era un esploratore, di mondi reali e
immaginari, nella sua mente sempre soprapposti, intersecanti. Ed era
estremamente appagato di come riusciva a stendere su tela i voli pindarici
della sua immaginazione.
Quella sera,
però, la soddisfazione era mescolata a un’irrequietezza che non riusciva a
placare. Guardava il cielo scuro attraverso il vetro, cercando un segno.
Sentiva che era giunto il momento di compiere un passo nuovo, ma non sapeva
ancora quale.
Sulla
scrivania, accanto a una pila di schizzi, c’era una copia logora dell’Odissea.
Walter la sfogliò, distrattamente, fino a una pagina che conosceva quasi a
memoria. Si soffermò sul passo in cui Odisseo, naufrago, si sveglia sulla riva
dell’isola dei Feaci. Le parole di Omero sembravano sussurrargli qualcosa di
personale, come se gli parlassero direttamente.
“Mi sento come Odisseo”, pensò, un sorriso
amaro sulle labbra. “Sempre in viaggio, sempre perso tra tempeste e illusioni”.
L’idea gli
colpì la mente come un fulmine. Odisseo non era solo un eroe mitico, era un
simbolo dell’artista: costretto a viaggiare tra sogno e realtà, a sfidare
sirene e mostri, a sopravvivere alle intemperie della creazione per trovare un
senso, una verità.
Si alzò di
scatto, e si mise a frugare tra i suoi schizzi e i suoi appunti. L’idea di una
serie di opere ispirate all’Odissea gli parve inevitabile. Le immagini
cominciarono a formarsi nella sua mente: una tela in cui le sirene non erano
creature sensuali, ma distorsioni del desiderio umano; un’altra dove il ciclope
Polifemo era un’enorme figura disumanizzata, un simbolo della cecità del potere.
Le mani
sporche di colore tremavano per l’emozione mentre tracciava i primi segni su un
foglio bianco. Le immagini fluirono rapide, una dopo l’altra. Odisseo alla
deriva, i suoi occhi pieni di stanchezza e di speranza; Penelope che tesse la
tela, il suo viso solcato da rughe che raccontavano anni d’attesa; l’albero della
nave come un arco, l’imbarcazione come una freccia diretta verso l’infinito.
Ogni figura
che Walter immaginava gli sembrava una parte di sé, una sfida affrontata o una
battaglia ancora da combattere. L’Odissea, si rese conto, non era solo
un racconto epico: era il racconto di ogni viaggio umano, di ogni ricerca
disperata di senso.
Quella notte
non dormì. Quando l’alba filtrò attraverso le tende, il suo studio era invaso
da schizzi e appunti, fogli sparsi e macchie di colore ovunque. Walter si
accasciò su una sedia, esausto ma soddisfatto.
La serie su
Odisseo sarebbe stato il suo progetto più ambizioso, quello che avrebbe
consolidato il suo nome nel panorama artistico. Ma, per lui, non era solo una
serie di quadri. Era la mappa di un viaggio personale, un percorso in cui lui,
come il re di Itaca, avrebbe cercato di ritrovare se stesso. Lavorò frenetico
finché le forze glielo permisero, ignorando che la morte lo attendeva alle
soglie del suo viaggio verso l’orizzonte di Ulisse, che non si sarebbe mai
compiuto.
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