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giovedì 26 dicembre 2024

L’ultimo viaggio di Walter , di Heiko H. Caimi

 



Walter Mac Mazzieri sedeva davanti alla grande finestra del suo studio, un bicchiere di vino rosso abbandonato accanto ai tubetti di colore aperti. L’odore denso di trementina riempiva l’aria, unito al profumo umido della notte che s’infilava dalla finestra socchiusa. Era una serata di primavera, e il suo ultimo lavoro, una grande tela dai toni accesi e inquietanti, riposava sul cavalletto, asciugandosi lentamente.

Negli ultimi mesi, qualcosa stava cambiando. L’epoca della fame ormai non era più che un’ombra nei suoi ricordi, ma ogni tanto gli tornavano in mente gli odori e i colori della terra aspra e contadina in cui era cresciuto. Aveva conosciuto fin da giovane le mani ruvide del lavoro e il peso delle parole di chi gli era più vicino. «L’arte non porta pane, Walter, porta solo altra fame», diceva suo padre, scettico di fronte ai primi schizzi che il ragazzo si ostinava a disegnare su pezzi di carta scovati chissà dove. «Solo col lavoro si crea qualcosa». «E non è lavoro, questo?», obiettava. «No, non è lavoro quello che si fa con la schiena diritta» sentenziava il genitore. Come un epitaffio.


Eppure, a quindici anni, Walter era riuscito a organizzare la sua prima mostra. I quadri, intrisi di un rustico realismo, raccontavano la vita semplice ma dura della provincia. Lontani dai voli surreali che avrebbero caratterizzato la sua maturità, quei primi lavori rivelavano già un occhio attento e una mano capace di immortalare l’anima delle cose. E, nonostante lo scetticismo della famiglia, Walter aveva continuato a dipingere, autodidatta, inseguendo con ostinazione una strada che solo lui poteva vedere.

Dopo anni di mostre quasi deserte, di recensioni tiepide e di dubbi tormentosi, Walter aveva cominciato a ricevere inviti da gallerie più prestigiose. La sua personalità artistica era esplosa sul finire degli anni Sessanta, trovando finalmente la sua voce piena e riconoscibile. Si era sentito finalmente libero, le catene della necessità si erano sciolte, rimaneva solo la necessità, anzi l’impellenza dell’arte. Critici noti avevano scritto di lui, lodando la sua capacità di trasformare il paesaggio interiore in visioni oniriche e surreali. Non era ancora la fama che sognava, ma era un riconoscimento, finalmente.

Il 1968 aveva segnato un cambiamento: il mondo intorno a lui ribolliva di rivoluzioni e speranze, e anche Walter sentiva crescere dentro un’urgenza nuova. Nel 1971, una mostra a Milano gli aveva portato un riconoscimento ampio, suscitando interesse tra critici e pubblico. Coronato dalla famosa copertina per il complesso rock delle Orme, “Uomo di pezza”, cui ne sarebbero seguite altre.

Era stato l’inizio di un periodo intenso, in cui aveva lavorato con tenacia, senza mai smettere di viaggiare. L’Europa e l’Africa erano diventati i suoi spazi di ricerca: visitava musei, città, villaggi e terre arse, cercando nei dettagli di ogni cultura e paesaggio ispirazione per la sua arte.

Negli anni successivi, le sue personali in Italia e all’estero avevano consolidato la sua carriera, ma il successo non era mai stato una vertigine tale da fargli perdere la singolare profondità artistica e la sua dedizione totale. Nel suo studio, Walter non smetteva mai d’interrogarsi. Era un esploratore, di mondi reali e immaginari, nella sua mente sempre soprapposti, intersecanti. Ed era estremamente appagato di come riusciva a stendere su tela i voli pindarici della sua immaginazione.

Quella sera, però, la soddisfazione era mescolata a un’irrequietezza che non riusciva a placare. Guardava il cielo scuro attraverso il vetro, cercando un segno. Sentiva che era giunto il momento di compiere un passo nuovo, ma non sapeva ancora quale.

Sulla scrivania, accanto a una pila di schizzi, c’era una copia logora dell’Odissea. Walter la sfogliò, distrattamente, fino a una pagina che conosceva quasi a memoria. Si soffermò sul passo in cui Odisseo, naufrago, si sveglia sulla riva dell’isola dei Feaci. Le parole di Omero sembravano sussurrargli qualcosa di personale, come se gli parlassero direttamente.

“Mi sento come Odisseo”, pensò, un sorriso amaro sulle labbra. “Sempre in viaggio, sempre perso tra tempeste e illusioni”.

L’idea gli colpì la mente come un fulmine. Odisseo non era solo un eroe mitico, era un simbolo dell’artista: costretto a viaggiare tra sogno e realtà, a sfidare sirene e mostri, a sopravvivere alle intemperie della creazione per trovare un senso, una verità.

Si alzò di scatto, e si mise a frugare tra i suoi schizzi e i suoi appunti. L’idea di una serie di opere ispirate all’Odissea gli parve inevitabile. Le immagini cominciarono a formarsi nella sua mente: una tela in cui le sirene non erano creature sensuali, ma distorsioni del desiderio umano; un’altra dove il ciclope Polifemo era un’enorme figura disumanizzata, un simbolo della cecità del potere.

Le mani sporche di colore tremavano per l’emozione mentre tracciava i primi segni su un foglio bianco. Le immagini fluirono rapide, una dopo l’altra. Odisseo alla deriva, i suoi occhi pieni di stanchezza e di speranza; Penelope che tesse la tela, il suo viso solcato da rughe che raccontavano anni d’attesa; l’albero della nave come un arco, l’imbarcazione come una freccia diretta verso l’infinito.

Ogni figura che Walter immaginava gli sembrava una parte di sé, una sfida affrontata o una battaglia ancora da combattere. L’Odissea, si rese conto, non era solo un racconto epico: era il racconto di ogni viaggio umano, di ogni ricerca disperata di senso.

Quella notte non dormì. Quando l’alba filtrò attraverso le tende, il suo studio era invaso da schizzi e appunti, fogli sparsi e macchie di colore ovunque. Walter si accasciò su una sedia, esausto ma soddisfatto.

La serie su Odisseo sarebbe stato il suo progetto più ambizioso, quello che avrebbe consolidato il suo nome nel panorama artistico. Ma, per lui, non era solo una serie di quadri. Era la mappa di un viaggio personale, un percorso in cui lui, come il re di Itaca, avrebbe cercato di ritrovare se stesso. Lavorò frenetico finché le forze glielo permisero, ignorando che la morte lo attendeva alle soglie del suo viaggio verso l’orizzonte di Ulisse, che non si sarebbe mai compiuto.

 

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