Articolo di Alfredo
Somoza pubblicato su HuffingtonPost.it”
(santosha via Getty Images)
Gli indigeni tainos di Quisqueya, l’isola caraibica oggi
divisa tra la Republica Dominicana e Haitì, chiamavano batey lo
spiazzo dei loro villaggi dove si ballava e si giocava a palla. Da luogo di
incontro per la comunità locale a luogo di condanna sociale il passaggio è
stato abbastanza breve.
I bateyes, villaggi di lamiera, sono oggi circa 400 in
Republica Dominicana e ospitano i lavoratori haitiani, e i loro discendenti,
che lavorano nelle piantagioni di canna da zucchero. Sono oltre 250mila persone
che vedono negati i più elementari diritti soprattutto se sono bambini o donne.
Raul Zecca Castel,
giovane antropologo italiano, conosce da anni questa realtà “nascosta” che ci
ha già raccontato in articoli, libri e documentari. Nel suo ultimo libro “Mujeres, frammenti di vita dal cuore dei
Caraibi” (edito da Arcoriris, Salerno, postfazione di Annalisa Melandri)
già dalla prefazione si può intuire il senso del contenuto, con la citazione
dell’antropologa statunitense Laura Nader.
La studiosa dell’Università di Berkeley nel 1969 incitava
gli antropologi a cambiare lo sguardo classico della loro scienza “riflettendo
di più sullo studio dei colonizzatori piuttosto che sui colonizzati, la cultura
del potere piuttosto che la cultura dei deboli, la cultura del benessere
piuttosto che la cultura dei poveri”. E questo perché “tutto ciò che direte sui
soggetti marginali sarà usato contro di loro”. Per l’antropologia questo resta
sempre un dibattito di attualità, dovendo scontare come scienza un passato di
connivenza e familiarità con il colonialismo.
E proprio nei bateyes della Republica Dominicana si sconta
ancora un pezzo di quella storia di soprusi e violenze che segnarono la storia
della prima globalizzazione dell’economia mondiale a partire dal XVI secolo. I
lavoratori dei bateyes sono i discendenti degli schiavi portati dall’Africa per
lavorare nelle piantagioni della canna da zucchero arrivata dall’Asia.
Occuparono lo spazio demografico lasciato libero dalla scomparsa violenta degli
indigeni e si moltiplicarono dando vita a una nuova cultura sincretica.
Ma il futuro dei discendenti della rivoluzione che portò in
Haiti alla prima repubblica senza schiavi della storia americana fu marchiato a
fuoco sulla loro pelle. L’indipendenza, la cacciata dei coloni francesi, la libertà
degli schiavi agli inizi dell’800 fu una provocazione al resto del mondo,
soprattutto all’Europa impegnata nell’avventura coloniale che senza schiavi, o
persone libere solo sulla carta, non funzionava.
Haiti andava isolata e strangolata economicamente, non si
poteva permettere che un gruppo di schiavi liberi gestisse un paese senza
pagare un prezzo molto alto. Haiti, da colonia più redditizia della Francia,
precipitò lentamente all’ultimo posto tra i paesi più poveri dell’emisfero
Occidentale.
I batey sono giacimenti di memoria di questo passato tragico
e il lavoro di Raul Zecca Castel
racconta in profondità, con la conoscenza di chi vi ha vissuto insieme agli
intervistati, la visione al femminile dei rapporti all’interno del batey di
Ciguapa. Anabel, Nora, Celestine, Liliane, Yvette, Flor, Arielle parlano della
loro infanzia, del razzismo, dei figli, del lavoro, dei loro mariti, della
stregoneria, della bachata e altro ancora.
Parlano insomma delle loro vite e per questo il libro di Raul Zecca Castel è prezioso, perché
dà voce agli “scarti” della società globale, come direbbe Papa Francesco,
perché fa diventare “storia” il racconto di un gruppo di donne, perché ci
permette di “curiosare” e familiarizzare con un mondo dove non saremo mai
entrati. Il racconto delle donne intervistate da Raul Zecca Castel è contemporaneo ed è antico allo stesso tempo. Ci
dicono cose che ci sembrano familiari e altre partorite da vicende secolari
ancora vive tra di loro e lontane anni luce dal nostro quotidiano.
Libri di divulgazione come questo, costruiti a partire da un
rigoroso lavoro di ricerca sul campo, rendono ancora utile l’antropologia.
Perché c’è bisogno di ascoltare altre voci, di capire cosa vuol dire cultura
oggi. La omologazione prodotta dalla globalizzazione ci fa credere spesso che
siamo “tutti sulla stessa barca”, ma poi leggendo libri come questo possiamo
distinguere che effettivamente su alcune cose come i gusti musicali o i consumi
le differenze sono minime, mentre sono gigantesche dal punto di vista dei diritti
e delle possibilità di vivere degnamente.
Il libro di Raul Zecca Castel è infine utile per svelare cosa si nasconde ancora dietro la produzione delle materie prime che consumiamo ogni giorno. Lo zucchero di canna è oggi un consumo “alternativo” rispetto a quello europeo di barbabietole. Si usa abbinato ai prodotti bio, è smart. Ma questa materia prima continua ad avere nel suo dna una storia lunghissima di sfruttamento, schiavismo e violenze che è solo mutata nel tempo e che ancora è presente, come raccontano le donne del batey Ciguapa.
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