di Enrico Jessoula
Introduzione a
cura di Mimma Zuffi
Verve e fantasiosi escamotages
lessicali punteggiano con ilarità scanzonata, a tratti irriverente, una storia
singolare e godibilissima.
Un mondo del futuro in cui diavolerie tecnologiche
unite a precetti draconiani non riescono a modificare del tutto l’essenza più
profonda delle umane debolezze, viene proposto in una chiave di lettura intrisa
di fresca e divertita ironia cui non sfuggono riferimenti di attualità.
Perciò l’ho sempre ignorata preferendole la compagnia
di zia Carol per la quale ho invece una spiccata predilezione perché mi
racconta tante storie stravaganti e mi fa fare un sacco di risate. Si sa, tutti
i bambini hanno una zia o uno zio preferito, in genere quello più giovane, che
viene percepito dal bimbo come più vicino a sé, quasi un amico.
Tuttavia, per qualche strano motivo, la mamma ha
sempre tentato di scoraggiare i miei incontri con zia Carol, spingendomi invece
a frequentare quella noiosa di nonna Jude e a dare retta alle sue fesserie.
Mi sembra di aver percepito che il vero motivo sia
legato alle ingenti ricchezze accumulate dalla vecchia sulla Terra, che ora
sono distribuite in tutta la galassia Sydro nella quale abitiamo.
Ho provato a dire alla mamma che mi sembrava meschino
puntare all’eredità di una nonna bizzarra, ma lei mi ha intimato il silenzio
portando l’indice davanti al naso, con un gesto che ho visto fare agli umanoidi
più anziani, aggiungendo con dolcezza:
“Caro KR34W, tu sei ancora un bimbo, non puoi capire
l’importanza di avere un capitale da parte, una base da cui decollare per una
vita migliore”.
Avrei voluto risponderle che sì, io sono solo un bimbo
di otto anni, ma a scuola mi hanno insegnato che la vita nella galassia Sydro tende
rapidamente al bene universale, se addirittura non l’ha già raggiunto. Una
convinzione nella quale ci crogioliamo con piacere e che porta tutti gli
abitanti ad essere buoni, onesti e disinteressati.
Invece non le ho detto nulla perché la mamma sembrava
molto agitata e non volevo farla arrabbiare; così mi sono rassegnato a chiamare
nonna Jude. Con il pensiero, naturalmente, sperando che la chiamata andasse a buon
fine perché non sapevo bene come si pronunciasse quel nome buffo: ‘Jude’,
l’unica di tutta la galassia a non avere come nome una serie di consonanti e di
numeri; come me ad esempio, o come mia mamma PZ22H.
Non è stato facilissimo: ho dovuto provare varie
pronunce, ma alla fine è apparsa. Come tutti noi, Jude è fatta da un mix di
pelle umana e metalli nobili; la pelle, retaggio ancestrale (Dio mio, che
parolone mi vengono oggi!) dei Terrestri da cui originiamo, copre il volto e le
cosce, mentre i polpacci e il seno delle donne sono di tungsteno. Questa
particolare evoluzione presenta due principali vantaggi: rende l’individuo femmina
meno vulnerabile ed evita l’esposizione di seni flaccidi e cascanti come pare
accadesse sulla Terra solo un secolo fa.
L’ho trovata abbastanza somigliante alla mamma, a meno
delle profonde rughe del viso che le conferiscono un’espressione arcigna.
Allora l’ho commutata con due battiti di ciglia sul
mio visore oculare ‘maxi’ in modo che, sgranando leggermente l’immagine, venisse
attenuato l’effetto sgradevole delle rughe; poi ho cercato di farmi riconoscere
perché lei non ricordava chi fossi.
C’è voluto un bel po’ a farle ricostruire l’albero
genealogico, tanto che mi è venuto il dubbio che fosse rincretinita dall’età:
centoventicinque anni non sono pochi per nessuno.
Alla fine ha capito chi ero e mi ha domandato che cosa
desiderassi da lei.
A dire il vero io non desideravo nulla, ma, per far
contenta la mamma, le ho detto che mi sarebbe piaciuto ascoltare qualche
racconto di quando lei viveva sul pianeta Terra, prima che questo scomparisse.
Non era una cosa banale perché, che io sappia, nonna Jude è l’unica in tutta la
galassia ad aver abitato sulla Terra prima di essere sbalzata su Sydro dalla
Grande Esplosione causata dall’impatto con un asteroide di enormi dimensioni.
Si è rasserenata di colpo, ha assunto uno sguardo
trasognato, increspato ulteriormente le rughe e ha mormorato con un sospiro:
“La Terra… tesoro, tu dovevi vedere che posto
meraviglioso, non puoi nemmeno immaginarlo! Come hai detto che ti chiami?”
Io ho risposto che non l’avevo ancora detto, ma che mi
chiamavo KR34W, avevo otto anni e lei era la mia trisavola; da parte di madre,
per la precisione.
Ho insistito perché mi raccontasse qualche storia del
periodo terrestre; lei si è intenerita e mi ha raccontato la storia di
Pinocchio che, se ho ben capito, era un bambino della mia età fatto tutto di legno.
Che cosa sia il legno non mi era chiaro, ma nonna Jude
mi ha spiegato che era un materiale piuttosto duro che si trovava in natura;
veniva ottenuto segando gli alberi e
quando le ho chiesto che cosa fossero gli alberi si è messa a ridere e ha
commentato che erano delle cose che facevano ombra.
Mi è parsa una risposta stupida, ma la storia di
Pinocchio mi è piaciuta molto, almeno finché non è saltato fuori che questo
bambino di legno era un gran bugiardo e che, ad ogni bugia che diceva, gli si
allungava il naso.
Ho osservato che la cosa sembrava inverosimile, dal
momento che a Sydro si era quasi raggiunta l’onestà universale e i bambini non
dicevano più bugie.
“A Sydro forse no, ma sulla Terra le dicevano, eccome”
aveva ridacchiato nonna Jude.
Quel commento mi ha ricordato che una volta la mamma
mi aveva fatto giurare di non dire mai bugie perché, su Sydro, alla quinta menzogna
si veniva annientati, smaterializzati dalla funzione del Bene centrale adibita
alla pulizia etnica che poi non è altro, aveva precisato, che un enorme
computer che agisce in maniera del tutto automatica.
A me era sembrata una balla; mi dicevo che non poteva
esistere, nella nostra galassia felice, un meccanismo così crudele.
Ciononostante, sarà stata forse una sciocchezza, ma mi
è improvvisamente venuto il terrore del contagio dalle bugie terrestri; ho
quindi posto fine rapidamente al colloquio, promettendo a nonna Jude che
l’avrei richiamata presto per un’altra storia.
Ho otto anni e mi ritengo piuttosto sveglio per la mia
età, ma confesso che, fino a ieri, non avevo ancora chiaro come avessi fatto a
nascere.
Intendiamoci, non che non sapessi come funziona
l’apparato riproduttivo degli umanoidi, né quella complessa tecnica di accoppiamento
tra maschio e femmina, ereditata dai nostri antenati terrestri, che non capisco
che cosa aspettiamo a semplificare.
Quello che non avevo capito è come avessero fatto papà
e mamma ad accoppiarsi se non hanno mai vissuto assieme. Di questo sono certo
perché me l’ha detto mamma: si è innamorata un giorno che papà è entrato casualmente nel suo schermo oculare,
come quello su cui ho visto nonna Jude l’altro ieri; lei allora l’ha bombardato
di segnali subliminali finché lui si è voltato a guardarla e così… insomma, il
classico colpo di fulmine.
Ma papà è sempre vissuto su un altro pianeta; non
lontano, appena una frazione di anno luce da qui, ma non è mai riuscito ad organizzarsi
un viaggio per conoscerla, per conoscerci di persona.
La cosa non è tanto grave, con i sistemi di
trasmissione sensoriale che abbiamo: tante volte ho sentito arrivare un bacio,
una carezza da papà come se fosse qui, accanto a me.
Però, da questo a capire come fosse potuta avvenire la
fecondazione che mi ha generato c’era ancora un lungo percorso nel quale la mia
mente si smarriva.
Ieri finalmente ho saputo. Ho visto mamma scivolare
furtiva verso la sala fitness e mi
sono incuriosito. Perciò l’ho seguita senza farmi sentire e l’ho vista tutta
nuda, accovacciata su una macchina che non avevo mai notato prima, una specie
di piovra imbizzarrita che allungava i tentacoli ad accarezzarle tutto il corpo, finché uno di
questi non è sparito dentro di lei.
Allora ho intuito che la macchina doveva incorporare
un ‘equalizzatore temporale’ perché la mamma aveva proiettato il suo schermo
oculare sul muro di fronte e là c’era papà e tutti e due respiravano
affannosamente e si mormoravano paroline dolci in perfetta sincronia, come se fossero
uno di fronte all’altra anziché a grande distanza.
Mi sono un po’ vergognato di aver violato la loro
intimità e, in punta di piedi, sono uscito senza farmi sentire. Però mi sono fermato
nelle vicinanze ed ho teso bene le orecchie perché la mamma mi ha raccontato
che, quando ero stato concepito, il suo computer incorporato l’aveva avvisata
subito, con la sua voce metallica:
“Concepimento avvenuto, felicitazioni alla coppia. Il
nome del nascituro è KR34W”.
Non ho udito nulla, perciò anche stavolta non avrò un
fratellino. Però ho capito come si fanno i bambini e mi è parso bello: non vedo
l’ora di farlo anch’io, il giorno che avrò una fidanzata.
- Nonna Jude, perché ti chiamavano l’inventrice? -
La nonna ha fatto una smorfia buffa e ha cercato di
schermirsi; alla fine ha minimizzato:
- E’ stato mio padre, quando ero poco più che una
bambina, a chiamarmi così. Diceva che non stavo mai tranquilla e ne inventavo
di tutti i colori. -
L’ho guardata perplesso perché la cosa non tornava con
le mie informazioni; perciò l’ho incalzata in tono vagamente stizzito:
- Veramente la mamma dice che il nomignolo te lo sei
conquistato da grande, per via di alcune invenzioni che ora, chissà perché, non
mi vuoi rivelare. -
Nonna Jude si è persa nei ricordi, gli occhi liquidi e
assorti. Poi si è riscossa e ha ribattuto:
- Ma va, tutte storie, nessuna invenzione degna di
nota - ha proseguito dopo un sospiro nostalgico - ma tante belle avventure.
Quelle sì, te le posso raccontare. -
- Dai, racconta - ho detto, battendo le mani e
disponendomi ad ascoltare.
L’attesa non è stata breve, forse perché, ad una certa
età, la memoria delle persone diminuisce. Nonna Jude sembrava esplorare il
computer di bordo alla ricerca di episodi interessanti; alla fine il suo volto
si è disteso in un sorriso che le ha fatto scomparire un po’ di rughe e ha
cominciato a parlare con aria ispirata ed occhi sognanti:
- Era bella la vita sulla Terra, ci si divertiva un
sacco. Quando ero una ragazzina, la mia famiglia viveva a Phoenix, nello stato
dell’Arizona. Case basse, la maggior parte di un solo piano, con un giardino
davanti e uno sul retro… -
Mi è venuto da ridere e l’ho interrotta:
- Cosa ve ne facevate di due giardini? -
- Taci, non puoi capire - mi ha zittito - era
bellissimo. Quello davanti decorativo, con alberi e fiori dappertutto: i
bambini dovevano starne alla larga per non rovinarlo. Quello sul retro era
molto più vissuto: c’erano i canestri per giocare a basketball, lo spazio per fare il barbecue, una piccola swimming
pool, cioè una piscina. -
Ero frastornato dal bombardamento di quelle parole oscure,
ma nonna Jude non mi ha lasciato il tempo di fare domande e ha proseguito:
- Andavo a scuola con lo schoolbus, un buffo veicolo giallo che raccattava gli studenti di
casa in casa. Io mi sedevo sempre vicino a Stephen, che era mio amico e, quando
ho compiuto tredici anni, mi ha preso per mano e mi ha dato un bacio sulla
guancia, facendomi arrossire. -
- Era bello, nonna, il tuo amico Stephen? - ho chiesto
incuriosito.
- Stiven,
mio caro, si pronuncia Stiven. Sì,
era proprio bello. Spesso, nel pomeriggio, andavamo a piedi fino alle spiagge del
Pacifico che era un mare così grande che veniva chiamato Oceano; là facevamo il
bagno tra onde altissime. A volte portavamo una tavola che si chiamava surf e andavamo su e giù sulle onde: era
come andare a cavallo, un divertimento fantastico. -
- L’hai sposato, questo Stiven? -
Ho come avuto l’impressione che lo sguardo della nonna
diventasse sfuggente:
- E’ una storia lunga e ormai si è fatto tardi. Ora ti
devo lasciare, ma se vuoi, domani continuiamo. -
Ciò detto è scomparsa, non senza schioccarmi un grosso
bacio sulla guancia, stampandomi sulla pelle l’impronta rossa della bocca, come
se sulle labbra avesse della vernice fresca che non avevo notato.
Nonna Jude dice che sono molto intelligente. L’ha
detto anche alla mamma: “Questo ragazzo ha del talento, diventerà un personaggio
importante”. Tutto perché a otto anni parlo con proprietà di linguaggio, usando
parole sofisticate come ‘eufemismo’ e ‘ancestrale’.
In realtà è lei che non ha ancora capito come funziona
l’apprendimento sulla nostra galassia. Da quando la scuola telematica è stata
sostituita da quella telepatica, lo sforzo di noi scolari è minimizzato, nel
senso che non si va più a scuola per imparare, ma è piuttosto la scuola che
entra in noi. Analogamente, non consultiamo UniNet,
la Rete Universale, per aumentare le nostre conoscenze, ma è la Rete stessa che
ci scarica nel cervello tutto lo scibile umano e i relativi aggiornamenti.
La mamma mi impone di fare il download delle nuove informazioni ogni mattina prima di colazione:
dice che a stomaco vuoto viene meglio, ma io credo che sia una balla e che il
vero scopo sia quello di evitare che me ne dimentichi, rimanendo così un passo
indietro rispetto ai miei compagni.
Noi bambini di Sydro nasciamo con la testa grossa proprio
per memorizzare tutte queste informazioni cui accediamo tramite il pensiero.
Detto così sembra tutto facile e in parte lo è, anche se dobbiamo imparare la
modalità di accesso al computer centrale.
C’è da ridere, a volte. Bisogna stare molto attenti
con i comandi telepatici per evitare di richiamare cose sbagliate o più cose
assieme: occorre generare un pensiero netto e preciso e, si sa, la precisione
non è la dote principale del pensiero che, per sua natura, è piuttosto erratico.
Oggi si è rifatta viva Nonna Jude per rivelarmi, in
gran segreto, di possedere un archivio informatico dei suoi ricordi: fotografie,
riprese cinematografiche, registrazioni fatte sulla Terra.
La cosa mi ha emozionato e l’ho pregata di farmelo
vedere, almeno in piccola parte, un poco alla volta.
- Ad esempio, nonna, mi hai raccontato di quella città
in cui vivevi… -
- Phoenix, Arizona. -
- Appunto, Phoenix… -
- Finix, mio
caro, si pronuncia Finix - mi ha
corretto automaticamente.
- Ok, Finix.
Avrai in archivio qualche foto, qualche ricordo della tua vita là. -
Nonna Jude ha sorriso benevolmente, mi ha fatto sedere
vicino a sé per guardare insieme il suo visore oculare su cui sarebbero apparse
le immagini. Poi si è concentrata per qualche secondo mentre una foto veniva
messa a fuoco: una collina brulla che si ergeva su una terra rossa, arida, con
qualche chiazza verde e azzurra sparsa qua e là.
- Camelback
- ha detto nonna Jude con tono grave, puntando sulla collina il piccolo
proiettore che abbiamo tutti incorporato nelle dita - assomiglia a un dorso di cammello, vero? Ma tu lo sai cos’era un
cammello? -
Ho annuito. Ricordo di averne visto una foto tra le
nozioni che mi erano state downloadate
in una sessione di scuola telepatica in cui venivano messi a confronto gli
animali della nostra galassia con quelli del pianeta da cui originiamo.
- Cavolo, ricorda proprio la sagoma del cammello - ho
risposto - ma tutte quelle macchie verdi e azzurre, che cosa sono? -
- Quelle azzurre sono piscine o laghetti; quelle verdi,
campi da golf. -
- Golf? - ho farfugliato.
- Mmm… un gioco complicato, un giorno o l’altro te lo
spiegherò. Promesso. -
La foto successiva mostrava uno strumento lungo e
stretto, appeso al muro di una casa, che lei ha definito ‘termometro’: indicava
quarantacinque gradi Celsius; non so
cosa significhi, ma nonna Jude ha tagliato corto:
“Significa che faceva un caldo tremendo”.
Subito dopo, è partito un filmino che mostrava il giardino
posteriore di una casa bassa, a un solo piano.
(segue)
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