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venerdì 13 novembre 2020

Nonna Jude - prima parte

 

di Enrico Jessoula


Introduzione a cura di Mimma Zuffi

 Strizzando l’occhio a Robert Zemeckis, Enrico Jessoula intreccia una trama che ci proietta in un immaginifico futuro filtrato dallo sguardo incuriosito e sorpreso di un bimbo di otto anni.

Verve e fantasiosi escamotages lessicali punteggiano con ilarità scanzonata, a tratti irriverente, una storia singolare e godibilissima.

Un mondo del futuro in cui diavolerie tecnologiche unite a precetti draconiani non riescono a modificare del tutto l’essenza più profonda delle umane debolezze, viene proposto in una chiave di lettura intrisa di fresca e divertita ironia cui non sfuggono riferimenti di attualità.  

 

Ad essere sinceri, non mi è mai stata troppo simpatica, nonna Jude.

Mentre lo dico mi rendo conto di aver pronunciato quello che i grandi chiamano un ‘eufemismo’ perché, a dirla tutta, mi sta cordialmente sulle palle, quella vecchia saccente e rugosa con quel nome balordo che mi suona quasi più maschile che femminile.

Perciò l’ho sempre ignorata preferendole la compagnia di zia Carol per la quale ho invece una spiccata predilezione perché mi racconta tante storie stravaganti e mi fa fare un sacco di risate. Si sa, tutti i bambini hanno una zia o uno zio preferito, in genere quello più giovane, che viene percepito dal bimbo come più vicino a sé, quasi un amico.


Tuttavia, per qualche strano motivo, la mamma ha sempre tentato di scoraggiare i miei incontri con zia Carol, spingendomi invece a frequentare quella noiosa di nonna Jude e a dare retta alle sue fesserie.

Mi sembra di aver percepito che il vero motivo sia legato alle ingenti ricchezze accumulate dalla vecchia sulla Terra, che ora sono distribuite in tutta la galassia Sydro nella quale abitiamo.

Ho provato a dire alla mamma che mi sembrava meschino puntare all’eredità di una nonna bizzarra, ma lei mi ha intimato il silenzio portando l’indice davanti al naso, con un gesto che ho visto fare agli umanoidi più anziani, aggiungendo con dolcezza:

“Caro KR34W, tu sei ancora un bimbo, non puoi capire l’importanza di avere un capitale da parte, una base da cui decollare per una vita migliore”.

Avrei voluto risponderle che sì, io sono solo un bimbo di otto anni, ma a scuola mi hanno insegnato che la vita nella galassia Sydro tende rapidamente al bene universale, se addirittura non l’ha già raggiunto. Una convinzione nella quale ci crogioliamo con piacere e che porta tutti gli abitanti ad essere buoni, onesti e disinteressati.

Invece non le ho detto nulla perché la mamma sembrava molto agitata e non volevo farla arrabbiare; così mi sono rassegnato a chiamare nonna Jude. Con il pensiero, naturalmente, sperando che la chiamata andasse a buon fine perché non sapevo bene come si pronunciasse quel nome buffo: ‘Jude’, l’unica di tutta la galassia a non avere come nome una serie di consonanti e di numeri; come me ad esempio, o come mia mamma PZ22H.

Non è stato facilissimo: ho dovuto provare varie pronunce, ma alla fine è apparsa. Come tutti noi, Jude è fatta da un mix di pelle umana e metalli nobili; la pelle, retaggio ancestrale (Dio mio, che parolone mi vengono oggi!) dei Terrestri da cui originiamo, copre il volto e le cosce, mentre i polpacci e il seno delle donne sono di tungsteno. Questa particolare evoluzione presenta due principali vantaggi: rende l’individuo femmina meno vulnerabile ed evita l’esposizione di seni flaccidi e cascanti come pare accadesse sulla Terra solo un secolo fa.

L’ho trovata abbastanza somigliante alla mamma, a meno delle profonde rughe del viso che le conferiscono un’espressione arcigna.

Allora l’ho commutata con due battiti di ciglia sul mio visore oculare ‘maxi’ in modo che, sgranando leggermente l’immagine, venisse attenuato l’effetto sgradevole delle rughe; poi ho cercato di farmi riconoscere perché lei non ricordava chi fossi.

C’è voluto un bel po’ a farle ricostruire l’albero genealogico, tanto che mi è venuto il dubbio che fosse rincretinita dall’età: centoventicinque anni non sono pochi per nessuno.

Alla fine ha capito chi ero e mi ha domandato che cosa desiderassi da lei.

A dire il vero io non desideravo nulla, ma, per far contenta la mamma, le ho detto che mi sarebbe piaciuto ascoltare qualche racconto di quando lei viveva sul pianeta Terra, prima che questo scomparisse. Non era una cosa banale perché, che io sappia, nonna Jude è l’unica in tutta la galassia ad aver abitato sulla Terra prima di essere sbalzata su Sydro dalla Grande Esplosione causata dall’impatto con un asteroide di enormi dimensioni.

Si è rasserenata di colpo, ha assunto uno sguardo trasognato, increspato ulteriormente le rughe e ha mormorato con un sospiro:

“La Terra… tesoro, tu dovevi vedere che posto meraviglioso, non puoi nemmeno immaginarlo! Come hai detto che ti chiami?”

Io ho risposto che non l’avevo ancora detto, ma che mi chiamavo KR34W, avevo otto anni e lei era la mia trisavola; da parte di madre, per la precisione.

Ho insistito perché mi raccontasse qualche storia del periodo terrestre; lei si è intenerita e mi ha raccontato la storia di Pinocchio che, se ho ben capito, era un bambino della mia età fatto tutto di legno.

Che cosa sia il legno non mi era chiaro, ma nonna Jude mi ha spiegato che era un materiale piuttosto duro che si trovava in natura; veniva ottenuto segando gli alberi e quando le ho chiesto che cosa fossero gli alberi si è messa a ridere e ha commentato che erano delle cose che facevano ombra.

Mi è parsa una risposta stupida, ma la storia di Pinocchio mi è piaciuta molto, almeno finché non è saltato fuori che questo bambino di legno era un gran bugiardo e che, ad ogni bugia che diceva, gli si allungava il naso.

Ho osservato che la cosa sembrava inverosimile, dal momento che a Sydro si era quasi raggiunta l’onestà universale e i bambini non dicevano più bugie.

“A Sydro forse no, ma sulla Terra le dicevano, eccome” aveva ridacchiato nonna Jude.

Quel commento mi ha ricordato che una volta la mamma mi aveva fatto giurare di non dire mai bugie perché, su Sydro, alla quinta menzogna si veniva annientati, smaterializzati dalla funzione del Bene centrale adibita alla pulizia etnica che poi non è altro, aveva precisato, che un enorme computer che agisce in maniera del tutto automatica.

A me era sembrata una balla; mi dicevo che non poteva esistere, nella nostra galassia felice, un meccanismo così crudele.

Ciononostante, sarà stata forse una sciocchezza, ma mi è improvvisamente venuto il terrore del contagio dalle bugie terrestri; ho quindi posto fine rapidamente al colloquio, promettendo a nonna Jude che l’avrei richiamata presto per un’altra storia.

 

Ho otto anni e mi ritengo piuttosto sveglio per la mia età, ma confesso che, fino a ieri, non avevo ancora chiaro come avessi fatto a nascere.

Intendiamoci, non che non sapessi come funziona l’apparato riproduttivo degli umanoidi, né quella complessa tecnica di accoppiamento tra maschio e femmina, ereditata dai nostri antenati terrestri, che non capisco che cosa aspettiamo a semplificare.

Quello che non avevo capito è come avessero fatto papà e mamma ad accoppiarsi se non hanno mai vissuto assieme. Di questo sono certo perché me l’ha detto mamma: si è innamorata un giorno che papà  è entrato casualmente nel suo schermo oculare, come quello su cui ho visto nonna Jude l’altro ieri; lei allora l’ha bombardato di segnali subliminali finché lui si è voltato a guardarla e così… insomma, il classico colpo di fulmine.

Ma papà è sempre vissuto su un altro pianeta; non lontano, appena una frazione di anno luce da qui, ma non è mai riuscito ad organizzarsi un viaggio per conoscerla, per conoscerci di persona.

La cosa non è tanto grave, con i sistemi di trasmissione sensoriale che abbiamo: tante volte ho sentito arrivare un bacio, una carezza da papà come se fosse qui, accanto a me.

Però, da questo a capire come fosse potuta avvenire la fecondazione che mi ha generato c’era ancora un lungo percorso nel quale la mia mente si smarriva.

Ieri finalmente ho saputo. Ho visto mamma scivolare furtiva verso la sala fitness e mi sono incuriosito. Perciò l’ho seguita senza farmi sentire e l’ho vista tutta nuda, accovacciata su una macchina che non avevo mai notato prima, una specie di piovra imbizzarrita che allungava i tentacoli ad  accarezzarle tutto il corpo, finché uno di questi non è sparito dentro di lei.

Allora ho intuito che la macchina doveva incorporare un ‘equalizzatore temporale’ perché la mamma aveva proiettato il suo schermo oculare sul muro di fronte e là c’era papà e tutti e due respiravano affannosamente e si mormoravano paroline dolci in perfetta sincronia, come se fossero uno di fronte all’altra anziché a grande distanza.

Mi sono un po’ vergognato di aver violato la loro intimità e, in punta di piedi, sono uscito senza farmi sentire. Però mi sono fermato nelle vicinanze ed ho teso bene le orecchie perché la mamma mi ha raccontato che, quando ero stato concepito, il suo computer incorporato l’aveva avvisata subito, con la sua voce metallica:

“Concepimento avvenuto, felicitazioni alla coppia. Il nome del nascituro è KR34W”.

Non ho udito nulla, perciò anche stavolta non avrò un fratellino. Però ho capito come si fanno i bambini e mi è parso bello: non vedo l’ora di farlo anch’io, il giorno che avrò una fidanzata.

 

- Nonna Jude, perché ti chiamavano l’inventrice? -

La nonna ha fatto una smorfia buffa e ha cercato di schermirsi; alla fine ha minimizzato:

- E’ stato mio padre, quando ero poco più che una bambina, a chiamarmi così. Diceva che non stavo mai tranquilla e ne inventavo di tutti i colori. -

L’ho guardata perplesso perché la cosa non tornava con le mie informazioni; perciò l’ho incalzata in tono vagamente stizzito:

- Veramente la mamma dice che il nomignolo te lo sei conquistato da grande, per via di alcune invenzioni che ora, chissà perché, non mi vuoi rivelare. -

Nonna Jude si è persa nei ricordi, gli occhi liquidi e assorti. Poi si è riscossa e ha ribattuto:

- Ma va, tutte storie, nessuna invenzione degna di nota - ha proseguito dopo un sospiro nostalgico - ma tante belle avventure. Quelle sì, te le posso raccontare. -

- Dai, racconta - ho detto, battendo le mani e disponendomi ad ascoltare.

L’attesa non è stata breve, forse perché, ad una certa età, la memoria delle persone diminuisce. Nonna Jude sembrava esplorare il computer di bordo alla ricerca di episodi interessanti; alla fine il suo volto si è disteso in un sorriso che le ha fatto scomparire un po’ di rughe e ha cominciato a parlare con aria ispirata ed occhi sognanti:

- Era bella la vita sulla Terra, ci si divertiva un sacco. Quando ero una ragazzina, la mia famiglia viveva a Phoenix, nello stato dell’Arizona. Case basse, la maggior parte di un solo piano, con un giardino davanti e uno sul retro… -

Mi è venuto da ridere e l’ho interrotta:

- Cosa ve ne facevate di due giardini? -

- Taci, non puoi capire - mi ha zittito - era bellissimo. Quello davanti decorativo, con alberi e fiori dappertutto: i bambini dovevano starne alla larga per non rovinarlo. Quello sul retro era molto più vissuto: c’erano i canestri per giocare a basketball, lo spazio per fare il barbecue, una piccola swimming pool, cioè una piscina. -

Ero frastornato dal bombardamento di quelle parole oscure, ma nonna Jude non mi ha lasciato il tempo di fare domande e ha proseguito:

- Andavo a scuola con lo schoolbus, un buffo veicolo giallo che raccattava gli studenti di casa in casa. Io mi sedevo sempre vicino a Stephen, che era mio amico e, quando ho compiuto tredici anni, mi ha preso per mano e mi ha dato un bacio sulla guancia, facendomi arrossire. -

- Era bello, nonna, il tuo amico Stephen? - ho chiesto incuriosito.

- Stiven, mio caro, si pronuncia Stiven. Sì, era proprio bello. Spesso, nel pomeriggio, andavamo a piedi fino alle spiagge del Pacifico che era un mare così grande che veniva chiamato Oceano; là facevamo il bagno tra onde altissime. A volte portavamo una tavola che si chiamava surf e andavamo su e giù sulle onde: era come andare a cavallo, un divertimento fantastico. -

- L’hai sposato, questo Stiven? -

Ho come avuto l’impressione che lo sguardo della nonna diventasse sfuggente:

- E’ una storia lunga e ormai si è fatto tardi. Ora ti devo lasciare, ma se vuoi, domani continuiamo. -

Ciò detto è scomparsa, non senza schioccarmi un grosso bacio sulla guancia, stampandomi sulla pelle l’impronta rossa della bocca, come se sulle labbra avesse della vernice fresca che non avevo notato.

 

Nonna Jude dice che sono molto intelligente. L’ha detto anche alla mamma: “Questo ragazzo ha del talento, diventerà un personaggio importante”. Tutto perché a otto anni parlo con proprietà di linguaggio, usando parole sofisticate come ‘eufemismo’ e ‘ancestrale’.

In realtà è lei che non ha ancora capito come funziona l’apprendimento sulla nostra galassia. Da quando la scuola telematica è stata sostituita da quella telepatica, lo sforzo di noi scolari è minimizzato, nel senso che non si va più a scuola per imparare, ma è piuttosto la scuola che entra in noi. Analogamente, non consultiamo UniNet, la Rete Universale, per aumentare le nostre conoscenze, ma è la Rete stessa che ci scarica nel cervello tutto lo scibile umano e i relativi aggiornamenti.

La mamma mi impone di fare il download delle nuove informazioni ogni mattina prima di colazione: dice che a stomaco vuoto viene meglio, ma io credo che sia una balla e che il vero scopo sia quello di evitare che me ne dimentichi, rimanendo così un passo indietro rispetto ai miei compagni.

Noi bambini di Sydro nasciamo con la testa grossa proprio per memorizzare tutte queste informazioni cui accediamo tramite il pensiero. Detto così sembra tutto facile e in parte lo è, anche se dobbiamo imparare la modalità di accesso al computer centrale.

C’è da ridere, a volte. Bisogna stare molto attenti con i comandi telepatici per evitare di richiamare cose sbagliate o più cose assieme: occorre generare un pensiero netto e preciso e, si sa, la precisione non è la dote principale del pensiero che, per sua natura, è piuttosto erratico.

 

Oggi si è rifatta viva Nonna Jude per rivelarmi, in gran segreto, di possedere un archivio informatico dei suoi ricordi: fotografie, riprese cinematografiche, registrazioni fatte sulla Terra.

La cosa mi ha emozionato e l’ho pregata di farmelo vedere, almeno in piccola parte, un poco alla volta.

- Ad esempio, nonna, mi hai raccontato di quella città in cui vivevi… -

- Phoenix, Arizona. -

- Appunto, Phoenix… -

- Finix, mio caro, si pronuncia Finix - mi ha corretto automaticamente.

- Ok, Finix. Avrai in archivio qualche foto, qualche ricordo della tua vita là. -

Nonna Jude ha sorriso benevolmente, mi ha fatto sedere vicino a sé per guardare insieme il suo visore oculare su cui sarebbero apparse le immagini. Poi si è concentrata per qualche secondo mentre una foto veniva messa a fuoco: una collina brulla che si ergeva su una terra rossa, arida, con qualche chiazza verde e azzurra sparsa qua e là.

- Camelback - ha detto nonna Jude con tono grave, puntando sulla collina il piccolo proiettore che abbiamo tutti incorporato nelle dita - assomiglia a un dorso di cammello, vero? Ma tu lo sai cos’era un cammello? -

Ho annuito. Ricordo di averne visto una foto tra le nozioni che mi erano state downloadate in una sessione di scuola telepatica in cui venivano messi a confronto gli animali della nostra galassia con quelli del pianeta da cui originiamo.

- Cavolo, ricorda proprio la sagoma del cammello - ho risposto - ma tutte quelle macchie verdi e azzurre, che cosa sono? -

- Quelle azzurre sono piscine o laghetti; quelle verdi, campi da golf. -

- Golf? - ho farfugliato.

- Mmm… un gioco complicato, un giorno o l’altro te lo spiegherò. Promesso. -

La foto successiva mostrava uno strumento lungo e stretto, appeso al muro di una casa, che lei ha definito ‘termometro’: indicava quarantacinque gradi Celsius; non so cosa significhi, ma nonna Jude ha tagliato corto:

“Significa che faceva un caldo tremendo”.

Subito dopo, è partito un filmino che mostrava il giardino posteriore di una casa bassa, a un solo piano.


(segue)

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