Di
Vincenzo Zaccone
-
Ricordo. Ricordo tutto. Il semaforo divelto, le
urla, lo spavento, la pioggia battente, gli occhi di chi era rimasto
immobilizzato, l'auto schiantata oltre il marciapiede. I vetri rotti, esplosi,
sporchi di sangue, i rivoli di acqua rossa che correvano lungo le pendenze
della strada, il pavé della città sporco di quella fatalità.
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Era
ancora vivo l'uomo dell'auto?
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Questo non lo so. Ero distante, non riuscivo a
capirlo.
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E
allora?
-
Allora cosa?
-
Perché
ne stiamo parlando?
-
Me lo hai chiesto tu. Pensavo ti interessasse.
-
Mi
interessava perché interessa a te. Ma non capisco il perché.
-
Continuavo a guardare attraverso il lunotto
distrutto dell'auto, cercavo di indovinare se ci fossero movimenti all'interno.
Non riuscivo a capire, per quanto mi sforzassi di farlo, se fosse ancora in
vita oppure no. Vedi, non so spiegartelo. Ero così intimamente turbato da
quanto avevo visto, così spaventato all'idea che fosse morto. Quasi come se la
causa della sua morte fossi io.
-
Ma tu
non sai se sia morto. Allora, cosa ti turba ancora?
-
È che l'ho visto, nell'istante dello sbandamento
verso il semaforo, mentre cercava d'istinto di mantenere il controllo
dell'auto. Mi sembrava un ragazzo giovane. Ho come l'idea, l'immagine in testa
dei suoi occhi spaventati, che capiscono quale possa essere la conseguenza di
quel breve attimo, intendono che quel terrore è tutto quello che gli resta da
vivere. Mi turba l'idea che sia morto in quell'impatto.
-
Quindi
è di questo che stiamo parlando, questo ti agita così tanto? Non è colpa tua: lo scooter è scivolato,
nell'attraversare l'incrocio, e lui ha sbandato cercando di non andargli
addosso.
-
Ma se lo scooter non fosse scivolato, lui sarebbe
ancora vivo.
-
Non
sappiamo se è morto. Lo hai detto tu, hai detto solo di non aver notato nessun
movimento, ma ciò non dice nulla di certo. In realtà non puoi cercare di capire
da quello che sai se è vivo o morto, dovresti solo affermare che non lo sai. Ma
ti ostini a focalizzarti sulla morte di quell'uomo, come se fosse reale. Perché
hai bisogno di sentirti in colpa per la sua morte?
-
Perché mi spaventa l'idea che sia andata così e
mi dispiace!
-
Tu sei
morto! Questo non ti dispiace? Mi vuoi fare credere che qui si stia parlando di
lui? Qualcosa ancora ti agita e ti aggrappi a quella scena, non la molli e
parli di lui nelle modalità in cui vorresti parlare di te. Della tua fine. Sei
dispiaciuto perché lui è morto in maniera così accidentale? Continui a parlare
di lui, ma se non riesci a liberarti da quella scena non è per via del senso di
colpa. Quello è qualcosa che ha a che fare con le costruzioni mentali di quando
si è in vita. Ma qui, adesso, non lo sei. Non lo sei più. Quindi deve essere
altro. Ha a che fare con te.
-
Hai ragione. Forse è altro. È rabbia! Quella di
essermi visto, accidentalmente, finito, sconfitto, lungo quella strada.
Sconfitto dalla sorte, dalla casualità di cose non necessarie, che sono andate
così ma potevano andare benissimo in un altro modo. Di notte. In maniera così
assurda, surreale. In maniera così anonima.
-
Non ti
è mai importato della condivisione delle cose. Mi vuoi far credere che sia
successo in luogo della fine?
-
Beh, ma sono morto così banalmente! La morte è
banalità: è una soluzione di continuità, solo un'interruzione del proprio
volere, solo una non-cosa, è tutto ciò che non ha a che fare con l'essere. Ma è
ridicolo che da un momento all'altro sia successo tutto questo, che sia
successo di morire, quando poteva essere un incidente meno grave. Poteva essere
ancora vita.
-
Non è
questo che ti sconvolge. Adesso che hai smesso di vivere non puoi continuare a
vagolare nel mondo dell'idee, per costruirti una realtà più accessibile; quelle
idee che hanno a che fare con ciò che fosse giusto o meglio accadesse. Tutto
ciò ha a che fare con l'esistenza, con il suo senso. Passato. Non con quello
che le dai tu adesso. Un senso a posteriori lo si può trovare alle cose che
accadono in vita, ma non alla vita stessa. E il senso delle cose può essere
solo colto a posteriori, non stabilito, costruito forzatamente; altrimenti
manca di compiutezza e ha valore solo di copertura illusoria, di conforto a
tempo indeterminato. Ma, ancora, questo ha a che fare con l'esistenza e tu non
esisti più. Forse la tua rabbia, quindi, ha a che fare con la mancanza, con la
privazione, che è la non-vita.
-
Non saprei. Forse sì. Credo sia un'assenza, una
frustrazione: quella di non aver mai scritto il mio libro. Continuavo a
pensarci, continuavo a credere che potesse e dovesse essere un riscatto. Andavo
avanti a lambirlo con la mente, con la voluttà, ma non mi ci sono mai
avvicinato. Forse perché avevo paura che la vita potesse conoscere quel
riscatto, forse perché non sono mai stato pronto ad affrontare una realtà in
cui vivere la vita e il senso di compiutezza della stessa fossero coesistenti.
Non sono mai stato pronto a essere felice, perché la felicità non è uno stato
ontologico dell'essere, ma uno stato emotivo acquisito, appreso, spesso solo
indotto e mimato. E io non avevo conoscenza di quella parte di mondo,
attraversarlo non avrebbe fatto parte di me. Ho sempre abitato in paesaggi
aridi e muti e non avrei saputo quale altro Me fosse possibile in una
dimensione diversa.
-
Nessun
altro. Perché non puoi essere altro da te. Quindi avresti continuato a essere
infelice, o frustrato o insoddisfatto, anche se avessi scritto il tuo libro.
Anche se avesse avuto successo.
-
Vedi? A maggior ragione, allora: tutto questo non
ha senso! Non ha senso la vita di per sé, il modo in cui accade, la casualità
con cui finisce. Che avessi o meno scritto il mio libro, comunque non sarebbe
cambiata la percezione di me. Ma quindi perché adesso sentirmi arrabbiato?
-
Perché
ti dovrebbe importare, anche questo? Se lo avessi scritto, in ogni caso, fosse
di successo e di soddisfazione, fosse di fiasco totale, comunque adesso la cosa
non ti riguarderebbe. E allo stesso modo, ora che comunque non lo hai scritto,
in che misura la cosa ti tocca? Ora che manca il presupposto della
soddisfazione e della frustrazione, cioè tu stesso?
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Ma tu sei troppo razionale. È che non avevo
previsto che le cose potessero andare così, avevo immaginato altro davanti a
me, nella mia tensione verso il futuro non era contemplato questo strappo nella
fitta trama che le possibilità intessevano nella mia mente. Sono sempre stato
logorato dalla ricerca spasmodica di cosa fosse meglio per me, cercare di
indagare me stesso e quello che mi veniva offerto per sfruttare al meglio le
mie possibilità e quelle oggettive intorno a me. E... beh, non avevo messo in
conto che l'accidentalità delle cose avesse un potere più alto del valore della
vita. Intendo dire che non è giusto che vada a finire così, mi fa rabbia che
gli sforzi, le attese, il desiderio, i tentativi, vengano falciati tutti
insieme da una sorte così insensata.
-
Tu hai
sempre saputo che la vita non ha senso, non ce l'ha in sé, non le viene tolto
dal tipo di morte. Nessuna utilità ha la vostra vita se non in relazione al
tempo e alla possibilità di viverla perseguendo qualcosa che le dia
compiutezza, in quello stesso istante in cui quel qualcosa può accadere. Voi
continuate a cercare quel senso, a regalarvene uno, ma è solo un modo per
intrattenervi, per ingannare il tempo.
-
Ma almeno avessi saputo che sarei morto, avrei
vissuto in maniera diversa, più intensa forse.
-
Credi?
Se avessi avuto in precedenza un senso di soddisfazione, avresti continuato a
vivere secondo ciò che più ti dava sollievo. Se non lo avessi trovato in
precedenza, al massimo avresti riempito il resto dei tuoi giorni di cose che
non avrebbero, in definitiva, riscattato quegli ultimi giorni. C'è una fatalità che presiede alla vostra
vita, per cui le cose accadono e basta. Tutta la giustizia, la finalità, il
concetto di buono e di sbagliato, non esistono che dentro di voi. L'universo
funziona secondo princìpi diversi, che sono quelli del caos e dell'aumento di
entropia. Non c'è continuità né contiguità tra quello che siete e il vostro
mondo, lo capisci?
La vostra mente percepisce la realtà secondo
meccanismi che non la riguardano.
-
Non capisco. Sento che qualcosa manca, è mancato,
e adesso non riesco a distaccarmi da quella vita perché le cose non sono andate
come avrei voluto. E non riesco a togliermi di dosso questa percezione di
inadempimento. Tu ne fai una questione pragmatica di prendere coscienza di
quanto non conti ciò che si vuole fare, ma solo ciò che è possibile fare, così
da rendere la vita più godibile. Ma mi pare comunque che tutto ciò non abbia a
che fare con la vita, perché manca il sogno, il desiderio, in definitiva la
forza trainante. Quella per cui si continua a lottare ogni giorno contro la
disperazione e il vuoto di una vita casuale.
-
Quello
che sto cercando di farti capire è che siete fatti della materia di cui è
costituita la tragedia, quella discrepanza tra ciò che è e ciò che potrebbe
essere. Qualunque cosa facciate o non facciate ha senso solo nella prospettiva
pratica di una concatenazione di eventi che, nella migliore delle ipotesi, alla
fine avrà reso il viaggio più sopportabile. Ma che non serve a nessuno, se non
a voi stessi, per nascondervi che qualsiasi cosa sia o non sia, alla fine il
senso che voi ci mettete in quello che fate, non esiste al di fuori di voi e
non esiste, a maggior ragione, come postumo della vostra esistenza. Il senso
delle cose e, in definitiva, della vita, non è una categoria dell'universo
della quale si può partecipare o meno, ma è qualcosa che ha a che fare con il
vostro modo di accogliere ciò che vi accade. E anche questo, come tutto il
resto, è qualcosa che vi può appartenere oppure no.
-
Ma ognuno di noi ha una sua dignità, in quanto
individuo unico. E per questo motivo, spetta a ognuno di noi seguire la strada
delle proprie passioni, delle proprie attitudini, per dare un senso a noi
stessi e al nostro passaggio in quell'eternità che prescinde da ogni singolo,
che è la Vita.
-
Mi
parli di senso rispetto agli altri, rispetto a quello a cui hai contribuito in
vita? Vuoi dirmi che quello che hai fatto non è servito solo a te stesso?
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No! Perché, nell'ipotesi del mio libro, mentre
ero in vita, se avessi comunque scritto qualcosa di espressivo e significativo
e utile a ogni altra persona che avrebbe potuto leggerlo, la cosa avrebbe avuto
senso di per sé. Anche se io adesso sono morto e non coesisto con quello che ho
lasciato di me.
-
Dici
davvero? Hai perseguito i tuoi sogni a prescindere dalla soddisfazione che
avrebbero potuto darti in vita? Se avessi lasciato un libro eventualmente utile
a qualcuno, adesso saresti meno arrabbiato perché in un attimo ti sei
schiantato contro un marciapiede?
-
Sì, questo credo.
-
Tu non
appartieni più a quel mondo, non puoi sapere cosa accadrà ora che non ne fai
più parte. Che tu abbia fatto qualcosa di produttivo o no, la cosa poteva avere
solo un senso immediato per te, nel momento della tua vita, ma non può in alcun
modo averlo adesso che non ne partecipi, né può averlo per gli altri. Per
quest'ultimi può avere una fruibilità pratica o emotiva, ma quella condivisione
non darebbe un senso né alle loro vita né alla tua adesso.
-
Ma allora che cos'è? Cos'è quello per cui mi sono
preoccupato e dibattuto per tutta la vita? Cosa, questi rabbia e incupimento
che ora mi trattengono ancora in quella dimensione? Parli di tragicità insita
nel modo in cui si è, ma io non capisco, ci preoccupiamo solo di dare un fine a
noi stessi e non vivere “a caso”.
-
Questo
credete, ma in realtà quel senso di cui vi convincete e vi compiacete vi serve
solo a strappare la vita alla sua natura di noia, di ripetizione, di succedersi
di faccende casuali. Il frutto di ciò che vivete è immanente, concreto,
connesso strettamente all'attimo in cui accade, e un momento dopo, non ne resta
traccia: di esso, di voi, del suo significato presso di voi. Vi può modificare
sentitamente, intrattenere, compiacere, deludere, ma poi passa e avete bisogno
di altro e altro ancora, in una concatenazione infinita che si può interrompere
in qualsiasi momento senza addurvi danno. Al massimo qualche vantaggio, a
volte. Qualsiasi cosa sia successa o ti sia mancata in vita, adesso non importa
più: che tu sia stato soddisfatto o frustrato, quel sentore avrebbe potuto
aiutarti o renderti la vita impossibile. Ma adesso non conterebbe nulla, in
ogni caso. La verità è che siete divinità corrotte, voi stessi delle
accidentalità della natura, che è il Tutto, che non vi perdona la mortalità di
esservi calati nello spazio e nel tempo. Partecipate del divino, senza
rendervene conto, e la parte che da voi trascende, pur intrisa del mondo del
corpo, vi porta a progettare, programmare, dimenticando che tutto è in balìa
del caso. Non di voi stessi. Avete una natura duale: quella mentale che
partecipa del divino e quella fisica che lo àncora alla finitezza e al caos del
mondo. La prima può farvi trascendere dalle leggi di questo mondo e farvi
pensare che qualcosa di più grande presieda quella concatenazione di scene, di
quello spettacolo di maschere che è la vita. Ma perché voi in realtà conoscete
una realtà più grande: è quella di Dio, che è costituito dall'umanità tutta, in
quanto tale, in quanto concetto, e si inscrive nell'eternità da cui dipartono
le energie che hanno reso l'Universo reale e possibile. Quell'eternità che
racchiude le vite limitate che ragionano in termini d'inizio e di fine, una
linearità direzionata da cui vi allontanate quando la mente riesce a dimenticarsi
del corpo e viaggia sulle altre frequenze dell' essere. La malattia e la penuria
sono il richiamo del corpo, dello stato finito delle cose che appartengono al
tangibile, ciò che il corpo è e rappresenta, nell'insieme di sensazioni fisiche
ed emotive di cui si fa sigillo.
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Ma tu chi sei?
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Sono
tutto ciò che non sei diventato. Unendoti a me ti riunisci a quel tutto che è
Nulla, perché ancora privo di determinazioni. Sono quel non-essere in vita in
cui Tutto si risolve e continua ad esistere in eterno: tutto quel che siete
stati e che sarete, ciò che vale perché ci siete tutti, ma che da voi
prescinde. Sono la sola cosa che non smetterà mai di essere: quell'energia che
non si crea e che non si distrugge, ma che si trasforma all'interno di quel
cerchio chiuso, che diventa finito in relazione al tempo, ma che al suo di
fuori di esso esiste e basta. Il divino. Di cui fate parte e che avete
proiettato al di fuori di voi per riuscire a concepirlo.
i tuoi pezzi sono sempre intriganti!
RispondiEliminaAdolfo
Che gran bel termine hai usato per i miei pezzi! Ti ringrazio molto
RispondiEliminaVincenzo
Che gran bel termine hai usato per i miei pezzi! Ti ringrazio molto
RispondiEliminaVincenzo