Mursia Editore - pagg. 648 - € 22,00 |
D: Massimo Annati è un ex-ufficiale della marina Militare, lasciata di recente con il grado di contrammiraglio. Ha già scritto numerosi libri, sia con la stessa Marina Militare, come supplementi del periodico Rivista marittima, sia con altre case editrici. Questa volta si è cimentato con un’opera che copre la storia della guerra sui mari dall’epoca della battaglia di Salamina fino alle operazioni di anti-pirateria e di anti-terrorismo dei nostri giorni “All’Arrembaggio. 25 secoli di combattimenti a bordo” (Mursia, 2014).
Questo libro è molto diverso dai tradizionali libri di storia navale. Come mai?
R: In effetti di libri di storia navale “classici”, se così vogliamo dire, sono pieni gli scaffali. Quello che ho cercato di fare è stato raccontare venticinque secoli di storia dal punto di vista di chi balzava sul ponte di una nave nemica, invece che concentrarsi sempre esclusivamente sui grandi ammiragli e le grandi battaglie che hanno fatto la Storia (con la S maiuscola). Naturalmente, durante l’analisi di un periodo così vasto non si possono trascurare alcune delle grandi battaglie come Salamina, Azio, Lepanto, Trafalgar, ma oltre a queste ci sono stati moltissimi altri scontri che sono stati spesso ignorati e che offrono invece spunti di riflessione, oppure colpiscono perché ci mettono di fronte a situazioni assolutamente impreviste e, spesso, impensabili secondo i nostri standard odierni.
D: Quindi mettiamo l’uomo al centro della storia, anzi, delle storie?
R: Questo è stato il mio obiettivo. Nel lavoro di ricerca e documentazione, che, lo confesso, è stato molto lungo, ho scoperto, se così posso dire, alcune storie talvolta curiose, spesso stupefacenti, che ci fanno capire quanto l’iniziativa e il coraggio di un solo uomo talvolta siano stati sufficienti a ribaltare l’esito, altrimenti scontato, di uno scontro. Ci sono alcune storie che sembrano inventate da quanto sono belle, mi permetta di usare questa espressione, ma forse neppure uno sceneggiatore di Hollywood sarebbe arrivato a tanto. C’è stato, per esempio, un giovanissimo ufficiale francese del XVII secolo che al suo primo imbarco si è trovato ad assumere il comando della sua unità perché il comandante e gli altri ufficiali erano stati uccisi durante l’attacco di pirati berberi. Il nemico continua a sparare e la sua nave è danneggiata, l’acqua sta ormai penetrando nello scafo e rischia di affondare. Con un colpo di genio, e forse anche con un po’ di fortuna, riesce a ingannare il nemico, fa sì che i due scafi si affianchino e che i pirati abbordino in massa la sua nave. Un attimo dopo lui e i suoi compagni balzano dalla poppa in cui si sono ritirati sull’altra nave e scostano il timone allontanandosi. La nave francese dopo pochi minuti affonda sotto i piedi degli stupefatti pirati, mentre il giovane francese, vinta la resistenza dei pochi nemici che erano rimasti ancora a bordo, si trova comandante di una nave più grande dell’originaria, con l’equipaggio che lo acclama. Questo, a soli 18 anni, è stato l’inizio della carriera del giovane Tourville, che lo ha visto poi diventare uno dei più famosi ammiragli francesi.
D: Parliamo di arrembaggi e tutti pensiamo alle storie di pirati, siano questi della Malesia o dei Caraibi, ma il suo libro parla anche di combattimenti tra navi da guerra e di storie di oggi.
R: Per i pirati, i corsari, e tutti i predoni del mare andare all’arrembaggio era in effetti l’unico modo per impadronirsi delle navi e, soprattutto, del loro carico. Per le navi da guerra, invece, era un’alternativa all’affondare il nemico a cannonate. Prima dell’arrivo delle armi da fuoco, in effetti, bisognava arrivare necessariamente al combattimento corpo a corpo per aver ragione dell’avversario, ma anche per molti secoli a seguire le artiglierie erano insufficienti ad assicurare la vittoria. Pensi che durante le grandi battaglie del 1500-1600 i galeoni talvolta continuavano a navigare e a combattere anche dopo essere stati colpiti da oltre 100 cannonate nemiche. L’abbordaggio era quindi indispensabile, o quasi, per riuscire a prevalere sul nemico. Con il progresso della tecnologia, a partire dalla seconda metà dell’800, la tecnica dell’abbordaggio scompare rapidamente, soppiantata da artiglierie sempre più potenti, e la situazione resta tale per oltre un secolo. Bisogna arrivare alla fine della Guerra Fredda, e alle grandi operazioni di pace a guida ONU, in Jugoslavia ed in Iraq, per assistere a un ritorno sulle scene di questa tecnica antica.
È infatti evidente che quando si deve fermare una nave sospetta, perché si teme che possa violare l’embargo, o perché potrebbe essere carica di armi, di droga, di terroristi, ecc., non si può risolvere il problema lanciando un missile. Ancora una volta, come tanti secoli fa, bisogna che un nucleo di uomini coraggiosi riesca a salire a bordo, assuma il controllo della nave e provveda poi alla perquisizione. Nonostante gli sviluppi della tecnologia serve ancora un uomo che, partendo da una piccola imbarcazione ballonzolante nel mare agitato, si arrampichi lungo una scaletta insicura, risalendo le fiancate.
D: Però anche i pirati sono tornati a fare lo stesso che facevano secoli fa ?
R: Sì certo, anche i pirati. Per loro l’abbordaggio non è una semplice opzione, visto che a questi criminali non interessa affondare una nave, ma catturare una preda. Nell’immaginario collettivo i pirati sono quelli dei Caraibi o quelli della Malesia: le nostre letture giovanili e i film hanno letteralmente inciso in modo indelebile in ciascuno di noi questa immagine. In realtà, la pirateria c’è sempre stata e, molto probabilmente, ci sarà sempre fintanto che qualche criminale cercherà di derubare qualcun altro che naviga legittimamente…
Da quando la Somalia è piombata nel caos della guerra civile alcuni hanno pensato che la pirateria potesse rappresentare un buon metodo per guadagnarsi da vivere, se così vogliamo dire. Pescatori e miliziani si sono trasformati in pirati e questo business è rapidamente divenuto molto fiorente, con decine di navi catturate e centinaia di milioni di dollari pagati per il riscatto delle navi e degli equipaggi. Vi sono molte storie da raccontare intorno alla pirateria somala. Storie di catture apparentemente incredibili, come quella di un pugno di uomini che su una barchetta riescono a impadronirsi di una delle più grandi e moderne petroliere del mondo. Oppure le storie, che io personalmente preferisco, degli interventi delle forze navali, con i Marine che vanno all’abbordaggio delle navi catturate dai pirati e le riconquistano, liberando gli ostaggi e catturando i pirati. Spesso questi si arrendono immediatamente, quando capiscono di avere di fronte dei militari ben armati e addestrati. Qualche volta, invece, scoppia un vero conflitto a fuoco, breve e violento, al termine del quale invariabilmente i pirati superstiti si arrendono. La minaccia dei pirati ha fatto cambiare idea a tutti: dagli armatori, che ora prestano molta più attenzione a questo problema, ai mercenari, che hanno trovato un nuovo lavoro come guardie di sicurezza, fino alle forze navali, che hanno creato appositi reparti di Marine per la protezione delle unità e per gli abbordaggi.
D: E quindi si chiude il cerchio, e si torna a combattere come molti secoli fa ?
R: In una certa misura sì. Oggi quasi tutte le marine si sono affrettate a istituire reparti specializzati proprio nella sicurezza e nell’abbordaggio, così come era avvenuto in tutta Europa nel XVII secolo. Le battaglie navali sono un ricordo, ormai da molti anni e speriamo per molti altri, mentre quotidianamente le navi da guerra vengono chiamate a condurre operazioni di sicurezza che vanno dall’anti-pirateria all’anti-terrorismo, dagli embarghi al peace-keeping, dal contrasto contro i traffici illeciti fino alla sorveglianza. E quindi il radar non basta più per identificare, visto che si tratta soltanto di un “blip” sullo schermo, e serve invece avere uomini che abbordino le unità sospette.
È significativo che la stessa esigenza di avere reparti specializzati riguardi grandi marine come Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania, Cina, fino a comprendere piccole e piccolissime nazioni, come Svezia, Israele, Olanda, Singapore, oltre naturalmente all’Italia, con i team specializzati del 2° Reggimento San Marco.
D: Lei è un ammiraglio, oltre ad essere uno scrittore. C’è un filo conduttore che lega la storia navale, quella insegnata nelle accademie, alla realtà di oggi?
R: Certamente. Ma c’è ben più di un filo, c’è una vera gomena, se mi passa la battuta. Da un lato possiamo assistere a un’evoluzione della tecnologia che consente nuove e migliori prestazioni, a fronte di scenari in continuo divenire. Se qualcuno avesse detto, negli anni ’80, che di lì a poco non ci sarebbero più state né l’Unione Sovietica né la Jugoslavia, e che qualche anno dopo l’economia della Cina avrebbe superato quella degli Stati Uniti, probabilmente sarebbe stato sottoposto a visita psichiatrica… E invece le marine hanno dovuto adattarsi a questi cambiamenti, e hanno dovuto imparare nuovamente arti che sembravano ormai dimenticate, pur mantenendo inalterate, e anzi migliorando, le proprie capacità nei tradizionali settori della guerra navale.
D’altro canto, invece, il fattore umano era, è, e sarà sempre l’elemento più importante di ogni operazione. In questo i moderni Marine non sono molto diversi dagli epibati delle navi ateniesi che fermarono la flotta di Serse a Salamina, o dagli archibugieri sardi e veneziani che conquistarono la vittoria a Lepanto. Perché in fondo, oltre alle tecnologie, quello che conta davvero è l’uomo.
Grazie ammiraglio di questa chiacchierata.
Grazie a lei e buona lettura !
Da Shakespeare, agli scrittori, al contrammiraglio. E brava, e ogni volta colpisci nel segno! Sognaparole è diretta in maniera magistrale! Da leggere tutta. Continuare così!
RispondiEliminaLori
Grazie Lori. Siamo anche una bella squadra.
RispondiEliminaMimma
Articolo molto interessante e istruttivo su passato e presente della marina militare. Corinna
RispondiEliminaMi unisco al commento di Corinna: molto interessante!
RispondiEliminaMiriam