di Giovanna Rotondo
la battitura
sul blindo
della porta
l’aveva svegliato
di soprassalto.
Rimaneva
smarrito,
confuso
ogniqualvolta
il suono metallico
del manganello
strisciava
stridente
sulle sbarre
della cella.
Quel suono
metallico,
scomposto,
stridulo,
lo torturava,
occupava
la sua mente,
gli pulsava
nel cuore,
s’imprimeva
nella pelle,
rabbrividendola.
Ombre umane
vagavano,
dentro, fuori
le baracche,
tesi solo
a percepire
affetti lontani
libertà perdute.
Un barlume
di coscienza,
la volontà
di rimanere
vigili
sopravviveva
in quei corpi
prigionieri
straziati
affamati,
frustrati
da condizioni
di solitudine
estrema.
Vite negate
in cerca
di rifugio,
destinate
a vagare
per rotte
impervie.
Moltitudini
intrappolate
in campi
profughi,
baraccopoli,
agglomerati
urbani
senza uscita
né futuro.
Bambini soli
abbandonati,
perduti
senza amore
né tenerezza.
Il possesso,
il potere,
l’avidità
distruggono
la vita di molti
privandola
della bellezza
del bene comune.
La società
si alimenta
separando,
isolando,
punendo
chi sbaglia.
O chi perde,
pur tuttavia
incolpevole,
vittima
della guerra,
della malattia,
del caso,
dell’ingiustizia.
Una società
cannibale,
essa stessa
artefice
di alibi sociali
inaccettabili
che creano
prigionie
di massa.
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