Introduzione - GENTE DI MARE
Con
una piccola galleria di personaggi tratteggiati con verve e umorismo, questo
secondo racconto breve della Trilogia di
racconti “eroticomici” compone un ritratto sagace e pungente di felliniana memoria.
Impeccabile
e arguto come sempre, Enrico Jessoula
delizia il lettore con questo acquerello d’atmosfera in un divertissement tutto da gustare.
Mimma Zuffi
- Ristorante “Il
Maestrale”, buongiorno. -
Francesca era
arrivata trafelata a rispondere, domandandosi per quale beffa del destino le
telefonate arrivassero sempre quando lei era in bagno. Dall’altro capo, la voce
non era nessuna di quelle note e denotava un certo imbarazzo:
- E’… il
ristorante? -
- Sì, ristorante
“Il Maestrale”; in cosa posso esserle utile? -
Seguì un lungo momento
d’incertezza, dissimulata poi da un tono esageratamente scherzoso e disinvolto:
- Sono lo straniero… voglio dire, mi chiamo
Maurizio Stella, ma qui in paese mi chiamano tutti lo straniero perché sono arrivato da un paio di mesi soltanto. -
Francesca cominciò
a sospettare che fosse l’ennesimo uomo che provava a fare il cascamorto con
lei. La cosa da un lato la infastidiva, anche per l’ossessiva gelosia del marito,
dall’altro lusingava il suo ego: di
poco sopra la trentina, era e si sentiva decisamente una bella donna, snella e
proporzionata, con quell’apparente candore nello sguardo che l’universo
maschile amava sfidare. Negli anni, aveva fatto impazzire tutti gli uomini del
paese, anche per via di quella zazzera rossiccia tagliata corta, abbinata ad
una manciata di efelidi nei dintorni del naso.
Ora, da quando con
il marito Oscar avevano aperto quel ristorante in collina, in paese non si
faceva quasi più vedere. Per questo non sapeva chi fosse l’uomo chiamato lo straniero; per lo stesso motivo riceveva
spesso telefonate ambigue, di uomini che non si rassegnavano alla sua
conclamata fedeltà coniugale.
Cercò di riprendere
il bandolo della conversazione:
- Io non la conosco,
ma comunque mi dica in cosa posso servirla. -
- Certo, è una cosa
semplice - disse l’uomo, anche se tanto semplice non sembrava essere, visto il
suo palese imbarazzo nel proseguire. Francesca lo sentì sospirare profondamente
e deglutire, prima di decidersi a parlare nuovamente:
- Lei dovrebbe
avere… mi corregga se sbaglio… una prenotazione per domani sera, un tavolo per
otto persone. -
- Vuol dire… quella
di Serenella. -
- Proprio quella.
Ecco, dovrebbe ridurla a… -
La voce non era
uscita dalla gola dell’uomo, chiaramente agitato, oppure la comunicazione era
stata disturbata proprio nel momento cruciale. Francesca dovette farlo ripetere,
usando il tono più incoraggiante possibile:
- Non ho capito
bene, la linea era disturbata. Ha detto che devo ridurre la prenotazione a…
quante persone? -
- Cinque, cinque
persone - rispose l’altro precipitosamente.
Questa volta un
prolungato silenzio cadde dalla parte di Francesca che era ammutolita dalla
sorpresa. Infine prese coraggio e obiettò:
- Dispari? Voglio
dire, Serenella mi aveva detto che erano quattro coppie di fidanzati. -
- Lo so - tagliò
corto l’altro - ma alcuni hanno un impedimento dell’ultima ora per cui non potranno
venire. Mi dispiace molto per l’inconveniente, ma devo chiederle di preparare
un tavolo per cinque; non è un problema, spero. -
- No, nessun
problema, a domani sera. In cinque - concluse Francesca, riagganciando sempre
più perplessa.
Quando lo straniero era apparso in paese era
settembre inoltrato. Le prime piogge avevano spazzato via le folle di turisti
che nei mesi precedenti avevano invaso l’antico borgo marinaro, sottraendolo
con violenza agli abitanti.
La temperatura si
era mantenuta a livelli piacevoli e il sole dorato non doveva più combattere
con la foschia di calore, ma scendeva trionfante da un cielo azzurro intenso.
Lo straniero era arrivato un giorno
qualunque, infrasettimanale, senza preavviso e con una sdraio sotto braccio. Si
era diretto subito alla zona di spiaggia libera senza degnare di uno sguardo la
muraglia di case alte, dai colori pastello, che costituivano l’attrattiva
principale del borgo. Case alte che erano lì da secoli e sembravano sorreggersi
l’una con l’altra per non cadere, oltre a sorridere ammiccanti al navigante che
faceva ritorno dal mare.
Lo straniero, camicia e pantaloni di jeans,
un sobrio foulard al collo, la barba
rada a marcargli il volto, gli occhi da sognatore, aveva posizionato la sdraio
con un’inclinazione adatta alla lettura e aveva deposto al suo fianco un enorme
pacco di giornali.
Era rimasto a lungo
a guardare il mare, quel giorno increspato ma non troppo, le onde che si
frangevano sulla battigia senza generare gli alti spruzzi delle mareggiate. Poi
aveva passato in rivista i giornali, soffermandosi a leggere nel dettaglio le
quotazioni di borsa e le previsioni economiche a lungo termine del Financial
Times.
L’atteggiamento da
bel tenebroso non era sfuggito alle donne del posto, abituate com’erano a
scrutare l’orizzonte per veder tornare dal mare i loro uomini o a scovarne di
nuovi se non ne avevano uno proprio, marito, compagno o fidanzato che fosse.
Per tradizione
secolare, infatti, gli uomini del borgo erano pescatori, stavano sul mare la
maggior parte del tempo e quando rientravano, stanchi, andavano a dormire.
Erano perciò le
donne a gestire tutte le attività commerciali: il forno, la pizzeria, i ristoranti,
l’edicola dei giornali, i bar e così via.
In tempi più
recenti, gli uomini, salvo rare eccezioni, avevano smesso di uscire in mare e
si limitavano a stare a letto a dormire oppure al bar a giocare a carte, lasciando
ancora alle donne il compito di mandare avanti l’economia del paese.
Oltre all’economia,
le donne mandavano avanti di buona lena anche le chiacchiere e i pettegolezzi. Pertanto,
l’arrivo di un uomo nuovo – e che uomo! – aveva gettato nello scompiglio la
popolazione femminile del borgo.
Si sparse
rapidamente la voce che veniva da Milano ed era un top manager di un’azienda
metalmeccanica, il che spiegava il pacco di giornali, finanziari e non, da cui
non si separava mai.
Le meglio informate
asserirono anche che non alloggiava in nessun albergo perché, notizia davvero
sensazionale, aveva acquistato un appartamento bellissimo, all’ultimo piano con
terrazza, in una di quelle case alte che sembravano sorreggersi l’una con
l’altra come in un castello di carte.
Va da sé che quando
il top manager, vero o falso che
fosse, si era rialzato dalla sdraio dopo un paio d’ore per abbozzare una
passeggiata sul lungomare, le donne fossero tutte schierate come sentinelle
sulla soglia delle loro botteghe, per vedere e farsi notare, ma anche per
controllare che nessuna delle rivali prendesse delle iniziative che le avrebbero
procurato un vantaggio difficile, per le altre, da recuperare.
Da vero top manager, Maurizio era una persona
metodica. Gli bastarono dunque un paio di giorni trascorsi seduto alla rotonda
con gli occhi semichiusi e un certo numero di ‘vasche’ fatte avanti e indietro
sulla passeggiata, per conoscere le principali protagoniste della vita del
borgo e catalogarle mentalmente:
- Serenella, separata,
titolare della pizzeria, in crisi di astinenza sessuale ma anche madre dolcissima,
perennemente alla ricerca di un nuovo padre per il figlio;
- la pasionaria Valeria, single dedita alle battaglie politiche e sindacali, che gestiva una
bottega di oggettistica;
- la fornaia Marina,
una quarantenne paciosa e sposatissima, con una sola passione non condivisa dal
marito: quella per il cinema;
- Augusta, la proprietaria
dell’unica libreria del borgo, da tutti chiamata la signora per l’atteggiamento altero, leggermente scostante, e
l’invariabile compostezza di vestiti e acconciature. Sposata, anche se…
Per la verità ne
aveva notate anche altre con le quali aveva incrociato lo sguardo. Uno sguardo
che nessuna di loro abbassava e restava sfacciatamente piantato su di lui fino
al momento di incrociarsi nel camminare.
Nessuna abbassava
lo sguardo, ma nessuna parlava, né prendeva iniziative di alcun genere. “Strano paese” pensò il top manager nell’accingersi a salire la
lunga scalinata verso casa, riferendosi al fatto che a Milano era spesso
oggetto di avance esplicite da parte
delle donne nelle quali scatenava a prima vista irrefrenabili ondate di
desiderio.
Il primo contatto
con il mondo locale toccò alla pizzeria di Serenella, in un caldo meriggio che
non metteva voglia di stare al sole.
Si era avvicinato ai
tavolini all’aperto con fare svogliato, ne aveva scelto uno in ombra, aveva
deposto il fascio di giornali su una delle sedie e si era poi lasciato cadere
pesantemente sull’altra, esibendo l’aria più annoiata del mondo.
Rimase lì a fissare
un pezzo di muro sbrecciato come se fosse stato un quadro moderno, senza
domandarsi perché nessuno venisse a servirlo; non gli importava granché,
preferendo che la noia invadesse il suo tempo libero.
Il ritardo nel
servizio aveva una spiegazione semplice: come l’aveva visto arrivare, Serenella
era corsa in bagno a rifarsi il trucco. Poi si era cambiata la maglietta con
una più pulita e trasparente e i pantaloni da lavoro con un’accattivante
minigonna verde acido.
Un’ultima occhiata
d’insieme allo specchio la rassicurò: una rassettata al reggiseno e avrebbe
fatto la sua bella figura.
- Buongiorno, desidera?
Le porto il menu? -
Il top manager, vero o falso che fosse,
aveva alzato su di lei lo sguardo distratto e annoiato, gli occhi pieni di
sonno di chi, impegnato in altre attività, dorme poco la notte. Dopo alcuni
secondi riuscì a rispondere:
- No, il menu non
mi serve, vorrei un calzone farcito. -
A Serenella sembrò
di cogliere un doppio senso in quella frase e abbassò istintivamente gli occhi
sui calzoni di lui per verificarne la farcitura. Ciò che vide o che intuì le
provocò un’emozione così violenta da inaridirle la gola; deglutì la saliva più
volte prima di riuscire a parlare:
- E… da bere? -
- Ha una birra
scura? -
- Sì, certo, che
marca preferisce? Ho la… -
- Una qualunque va
bene - la interruppe l’uomo dai calzoni farciti - basta che sia ghiacciata. -
- Certamente,
ghiacciatissima - concluse Serenella, avviandosi verso il forno con una
piroetta studiata ad arte per scoprire, sia pure per un microsecondo, le
mutandine.
Il cuore le pulsava
freneticamente e le gambe tremavano, per non parlare di altre reazioni
incontrollate del suo corpo. Sognò per un attimo di portarselo subito nel
retrobottega per fare l’amore, ma si trattenne vedendo il figlio che colorava
un album su un tavolino.
Un bell’intralcio,
quel figlio, ma anche una gioia e soddisfazione per lei che di gioie e
soddisfazioni dalla vita ne aveva avute ben poche.
- Ecco il suo calzone,
farcitissimo - disse, cercando un tono allusivo che non sembrò funzionare.
L’uomo borbottò un grazie frettoloso, si versò la birra con cautela e si
accinse a mangiare.
Sembrava che
vivesse in un suo mondo, separato dai comuni mortali; Serenella pensò che
sarebbe stato impossibile entrare in confidenza con un lupo solitario come
quello. Innervosita, passeggiò avanti e indietro, facendo la spola tra il
locale e i tavolini, domandandosi che cosa avrebbe potuto aprire una breccia in
quel mutismo ostinato.
Lo straniero continuò a mangiare fino
all’ultimo pezzo di calzone, senza lasciarle possibilità di interloquire.
- Desidera altro? -
chiese infine Serenella, mentre sparecchiava.
La risposta che le
arrivò, più simile ad un grugnito che a voce umana, lei la interpretò come un
“No”. Stava per ritirarsi quando lui fece un gesto, come a richiamarla con la
mano:
- E’ suo il bimbo?
-
La domanda la colse
impreparata, perché voleva dire che l’uomo si era guardato intorno, pur senza
darlo a vedere:
- Chi, lui? Sì, è
il mio Stefano - rispose con malcelato orgoglio.
- Stefano - ripeté
lui con la voce profonda e triste, prima di venire riassorbito da un lungo
silenzio meditativo.
Lei rimase ferma a
guardarlo. Osservò i capelli biondo cenere, sapientemente scolpiti al rasoio,
gli occhi cerulei, quasi grigi, la barba un po’ lunga forse a causa del caldo,
il naso e il mento volitivi, e poi giù giù fino…
- Quanti anni ha
Stefano? -
L’aveva nuovamente
sorpresa, quel lupo solitario che si interessava a suo figlio; reagì
velocemente per celare l’imbarazzo:
- Quattro - disse -
ha quattro anni Stefano… e avrebbe tanto bisogno di un padre. -
- Quattro anni -
ripeté lui, annuendo gravemente prima di sprofondare nuovamente nel silenzio e
nella lettura.
Serenella si sentì
stupida, si maledisse per quella frase sul bisogno di un padre detta ad un lupo
solitario appena conosciuto. Per superare l’imbarazzo sollevò le gonne con fare
sbarazzino per sedersi nei pressi, sventolandosi con un quotidiano. Passarono alcuni
minuti prima che l’uomo, il top manager,
lo straniero parlasse di nuovo con il
solito tono inespressivo:
- Quindi, se io la volessi
invitare a cena stasera, magari a casa mia, lei non potrebbe venire per via di
Stefano. - disse, scuotendo la testa - E pensare che avrei già in mente il
menu; sono un bravo cuoco, io. Inoltre, in casa ho l’aria condizionata; con
questo caldo potrebbe fermarsi a dormire da me e concedersi finalmente una
notte di vero riposo. Quanto tempo è che non le succede? -
Serenella cercò di
ricordare da quanto tempo non le succedeva di avere rapporti con un uomo e
tantomeno di passare la notte con lui. Stordita dall’ondata di desiderio che
l’aveva invasa con violenza, si alzò dalla sedia e accennò due goffi passi
verso l’uomo. Uno strano uomo, pensò, che aveva proferito quell’invito
esplicito, decisamente sfacciato senza mai alzare lo sguardo su di lei; un uomo
che parlò nuovamente, passando improvvisamente al ‘tu’:
- Ti direi di
portare anche il bimbo, ma forse non è il caso, la prima volta… magari la
prossima. -
Non era proprio il
caso, pensò Serenella mentre faceva scorrere febbrilmente i numeri memorizzati sul
telefonino, selezionandone uno:
- Mamma… ciao sono
io. Volevo chiederti se potevi tenere Stefano stasera, che mi è capitato un
impegno improvviso. Come sarebbe ‘finché torna papà’? Io intendevo per cena e
poi, per comodità, potrebbe anche dormire da voi… Che cosa vuoi dire con “ho
capito” seguito da quella risatina? Hai capito cosa, quando non c’è niente da
capire? -
Dopo una lunga
pausa, concluse in tono dolce:
- Va bene mamma, te
lo porto verso le sette. Grazie. -
Da alcuni giorni la
scena si ripeteva: alle sette di sera in punto, mentre Marina si accingeva a
chiudere la sua bottega di fornaia, appariva sulla soglia del negozio quel
personaggio strano, lo straniero come
lo chiamavano le sue amiche.
Marina lo trovava
divertente e anche interessante per la sua vasta cultura cinematografica. Quella
sera lo guardò interdetta perché l’uomo indossava un trench impermeabile e un cappello stile Borsalino che mal si
combinavano con la calura persistente della
giornata.
Lo guardò a lungo
prima di scoppiare a ridere:
- Cosa fai con
quella palandrana addosso, che ci saranno trenta gradi. -
L’uomo si avvicinò
al banco senza rispondere, con lo sguardo triste e misterioso. Indicò il vicolo oltre la porta e
disse gravemente, guardandola negli occhi:
- Tu devi partire,
devi salire su quell’aereo con tuo marito… -
La battuta scatenò l’ilarità
della donna che puntando l’indice verso di lui commentò:
- Facile. Casablanca,
Humphrey Bogart e Ingrid Bergman. -
- Brava - rispose
lui, restando serio come se stesse recitando; quindi tornò sui suoi passi per
tenerle aperta la porta.
Per una volta, non
si sentì sola nel chiudere il negozio e, mentre ‘Bogart’ si allontanava, si
accinse a salire le ‘scalette dell’aereo’.
Marina rideva tra
sé e sé mentre risaliva la lunga scalinata verso casa, domandandosi se la comune
passione per il cinema potesse avere per lei una funzione scacciapensieri, la
variante divertente ad una vita serena ma convenzionale: matrimonio, figli, casa
e lavoro.
Quella sera
cenarono alla svelta e misero a letto i bambini molto presto, perché Marina
sentiva un urgente bisogno di andare a letto anche lei, a fare l’amore con il
marito con una passione che entrambi avevano da tempo dimenticato.
“Alternativo” l’aveva giudicato a prima vista Valeria,
vedendolo transitare in passeggiata davanti al suo negozio di oggettistica
etnica. “Potrebbe essere un buon cliente,
visto il tipo”.
Il tipo portava una
maglietta non stirata color vinaccia sui jeans délavé e un paio di Superga bianco sporco, forse perché un po’
sporche lo erano davvero. Ciononostante l’insieme, nobilitato dal fascio di
giornali nella mano sinistra, riusciva ad apparire distinto se non proprio
elegante, l’abbigliamento tipico dell’intellettuale.
L’istinto femminile
aveva visto giusto, perché lo straniero
non tardò molto a diventare un assiduo frequentatore del negozio. Con la scusa
di una casa da arredare, scelse con cura tappeti africani dai colori
sgargianti, un set di tazzine da
caffè in cotto, un copriletto indiano, tutto con quegli occhi bellissimi e
vuoti che vedevano tutto, selezionavano gli oggetti migliori, ma non si
illuminavano mai.
Restava un mistero
sul piano umano. Se era un top manager,
come si vociferava, difficilmente avrebbe potuto intendersi con le idee di
sinistra estrema professate da Valeria.
All’ennesima visita
al negozio, la donna cedette alla curiosità e buttò là, con finta noncuranza:
- Volevo dirti che nel
pomeriggio il negozio resterà chiuso, perché io vado in manifestazione a
Genova. -
Con sua grande
sorpresa, lo straniero alzò per la prima
volta gli occhi su di lei e la fissò per un attimo, prima di assumere
nuovamente la solita aria svagata:
- Manifestazione?
Per cosa? -
Valeria assunse il
tono aggressivo che le veniva spontaneo in questi casi:
- Ma per i giovani,
cazzo! Per tutti i giovani senza lavoro, oppure precari sottopagati; non so se
ti rendi conto in quale mondo di merda stiamo vivendo, soprattutto stanno
vivendo. E anche questo governo di tecnici non fa proprio niente per loro! -
Gli occhi vuoti
ebbero un lampo improvviso:
- Certo, capisco. Questa
manifestazione… a che ora è? -
- Alle tre del
pomeriggio. Anzi, devo sbrigarmi a chiudere perché in questi casi il traffico è
imprevedibile. Non vorrei arrivare tardi. -
Lui si affrettò a
pagare gli ultimi acquisti e a riprendere dal banco il fascio di giornali; poi
alzò nuovamente lo sguardo su di lei:
- Ti dispiace se
vengo con te? Anzi, potremmo andare insieme con la mia moto, così il traffico non
inciderà troppo. -
Valeria sentì le
gambe cedere per l’emozione, ma dopo meno di un’ora era seduta sul sellino
posteriore, abbracciata a quell’uomo muscoloso che pilotava la moto con estrema
perizia.
Il contatto fisico
la trasportò indietro di alcuni anni, quando aveva avuto un ragazzo di cui era
innamoratissima, e la predispose ad una giornata inebriante. Fu infatti una
manifestazione bellissima e riuscitissima: centomila giovani erano sfilati per
le vie della città cantando e ballando. Quanto a Maurizio, lo straniero, aveva familiarizzato in
maniera sorprendente con i ragazzi dei centri sociali che lei stessa gli aveva
presentato.
Sembrava per la
prima volta a suo agio, urlava gli slogan dei giovani, si univa agli
immancabili cori “Bella ciao”; forse, per un momento, gli si erano persino
accesi gli occhi.
A Valeria sembrava
di sognare: lei, trentenne bruttina e trascurata, che veniva complimentata e
invidiata per questo nuovo amico con cui poteva finalmente condividere anche la
passione politica.
Trovò quindi
naturale accettare, sulla via del ritorno, la proposta di fermarsi a cena in un
piccolo albergo sul mare.
E a fine pasto non
oppose certo resistenza a farsi condurre dolcemente in una delle camere al
primo piano, dove la luna entrando dalla finestra illuminò a lungo il letto e la
loro unione.
Alle sette di sera
in punto, secondo un rituale ormai collaudato, il volto di Maurizio si stagliò
sul vetro della porta del negozio, un attimo prima che questa si aprisse con un
cigolio sinistro.
Marina scoppiò a
ridere nel vederlo avvicinarsi al banco a passi felpati, con la faccia truce e
gli occhi sbarrati:
- Che cosa stai
facendo - chiese ridendo.
Alla domanda, lo straniero estrasse un pugnale, forse di
legno, oppure uno di quelli di gomma che si usano a carnevale, con il quale le
intimò di ritirarsi al di là della tenda che divideva l’area di vendita da
laboratorio e forno di panificazione.
Marina
indietreggiò, schermendosi:
- Che ti prende… tu
sei tutto matto! -
Lo straniero alzò
le braccia, mimando i gesti di uno che si sta facendo la doccia; poi impugnò il
finto pugnale e lo alzò con fare minaccioso.
Lei si illuminò
all’improvviso, esultante:
- Capito! Anthony
Perkins e Janet Leigh in Psycho, la famosa scena della doccia - poi scosse la
testa in segno di diniego: - ma non sperare che mi spogli dietro la tenda! -
Lo straniero sorrise:
- Suvvia, un po’ di
fantasia, d’immaginazione… Tu vai dietro la tenda, imiti i movimenti che
faresti in doccia, io ti vedo in controluce, mi avvicino, alzo il coltello… -
- Sì, però non mi
spoglio - ribadì lei, volendo definire chiaramente i patti e domandandosi se
non stava dando troppa confidenza a quell’uomo. Si decise infine a ritirarsi
dietro la tenda e aprire il rubinetto del lavandino, regolandone il flusso fino
a simulare al meglio lo scroscio della doccia.
I suoi movimenti in
controluce furono perfetti, tanto realistici che, se fosse entrato in quel
momento un cliente ignaro, avrebbe creduto veramente di assistere alla doccia
della fornaia e non avrebbe resistito alla tentazione di scostare la tenda sperando
di vederla nuda.
L’uomo si avvicinò
e affondò il coltello una, due, ripetute volte. Lei cacciò un urlo, due, tre
urli che sfumarono in una risata:
- Dai, è venuta una
scena perfetta! Ma come ti vengono in mente? -
Lui accennò alla
sua testa con un gesto vago; poi si voltò e, senza rispondere, uscì dal negozio
con passo da automa.
Maurizio si era
spesso domandato, durante le sue solitarie passeggiate sul lungomare, come
facesse a resistere una libreria, peraltro ben fornita e attrezzata, in quel
piccolo borgo marinaro frequentato da turisti festaioli impegnati in ben più
frivole occupazioni che leggere un libro.
D’altro canto, il
suo interesse per i libri era acuito dal desiderio di conoscere Augusta, la seducente
proprietaria, una cinquantenne dalle forme sontuose e lo sguardo penetrante con
cui lo straniero sentiva di dover
assolutamente entrare in relazione. Se poi fosse anche disponibile ad
aggiungersi alla sua ‘collezione’ lo si sarebbe visto dopo: al momento,
l’importante era stabilire il contatto.
Di lei si diceva
che fosse un’intellettuale, sposata ad un marito zotico e mal sopportato, del
quale si era incapricciata fino a sposarlo più per fare un dispetto alla
famiglia che per vero amore. Il marito gestiva un’osteria di infimo livello,
mentre di lei si diceva che avesse aperto la libreria proprio per stabilire la
netta linea di demarcazione tra di loro, tra finezza e rozzezza, tra cultura e ignoranza.
Non a caso, in
paese veniva chiamata la signora.
Nel momento in cui,
per la prima volta, decise di varcare la soglia della libreria, lo straniero restò semiaccecato dal brusco
cambiamento di luce dal sole abbagliante della strada alla rilassante penombra
del negozio.
Di conseguenza, non
si accorse dei due occhi scuri, quasi neri, che lo stavano perforando come
raggi laser, analizzandolo con attenzione. Gli occhi di lui erano invece più
spenti del solito, di un grigio talmente chiaro che si diluiva nel bianco fin
quasi a scomparire; si posarono con finta attenzione sui primi scaffali di libri.
Man mano che si
abituavano alla penombra, gli occhi spenti di Maurizio cominciarono a
scandagliare i libri esposti su banchi e scaffali, che gli provocarono l’abituale
stordimento dovuto al loro ossessivo allineamento, ordinato e irregolare al
tempo stesso.
- Posso aiutarla? -
chiese la signora con tono invitante
- Abbiamo ogni genere di libro; laggiù nell’angolo c’è la zona dedicata ai
gialli, se le interessano; qui tutta la narrativa italiana e più in là quella
straniera.
- No, grazie,
preferisco guardare a caso. -
Il tono gelido
dell’uomo non smontò la signora che continuò
a girargli intorno portandosi dietro una inebriante scia di profumo:
- Altrimenti là ci
sono i classici divisi per autore, in ordine alfabetico. -
Maurizio rimase a
lungo in silenzio, pensieroso, cercando di ricordare chi gli avesse detto che la signora era un’appassionata di
Baricco. Ma era poi Baricco o un altro scrittore italiano? Decise infine di
tentare:
- Vorrei qualcosa
di Baricco. Mi aiuti lei, che cosa mi consiglia? -
La vide avvampare
di colpo, eccitata:
- Baricco è il mio
scrittore preferito, perciò i suoi libri sono tutti qua, vicino a me. Ce n’è
anche uno nuovo - e dopo una breve pausa: - lo sa che mercoledì prossimo sarà
qui al Grand Hotel, lui in persona, a presentare il suo ultimo libro? -
Lo sguardo di
quegli occhi chiari rimase vuoto, lasciando la domanda senza commento né
risposta.
Solo dopo alcuni
minuti l’uomo parlò:
- Quando ha detto? Mercoledì?
A che ora? Immagino che lei ci vada con suo marito - disse, gettando con
intenzione uno sguardo alla fede al dito.
- Figuriamoci, mio
marito… - rispose la donna, toccandosi nervosamente la fede, quasi volesse liberarsene
- non solo non sa chi è Baricco, ma forse neanche cos’è un libro. -
La guardò negli
occhi per la prima volta, incuriosito e rincuorato. “Gran bella donna” pensò “per
l’età che ha, veramente superba!”. Decise quindi di affondare il colpo:
- Allora… non so se
posso permettermi, potremmo andarci assieme, se le fa piacere. -
Il piacere era
quello che mancava ad Augusta da parecchi anni, per cui si affrettò ad
acconsentire:
- Certo. La
presentazione inizia alle quattro; ci troviamo là? -
- Potremmo anche trovarci
una mezz’ora prima. Non sono mai stato al Grand Hotel, lei potrebbe farmi da
guida. -
Colse uno sfavillio
di buon auspicio negli occhi scuri che lo fissavano; perciò proseguì:
- Facciamo così: io
andrò in esplorazione. Se riesce ad arrivare per le tre e mezza, chieda di me
alla reception: lascerò detto dove sono. -
Augusta arrivò al
Grand Hotel in leggero anticipo sull’orario concordato e fu piacevolmente
sorpresa nel vedere il direttore dell’albergo in persona venirle incontro.
Senza bisogno di spiegazioni, il direttore la scortò fino ad una sala privata a
picco sul mare, dove l’aspettava lo straniero
e un succulento buffet cui non
mancavano ostriche, tartine al caviale e champagne francese.
Augusta si sentì
trasportata ai suoi anni giovanili, quando anche lei, priva di un marito
zoticone, aveva partecipato a banchetti raffinati.
Sospirò di piacere
prima di lasciarsi cadere su uno dei divani, dove brindarono e mangiarono, risero
e scherzarono e infine celebrarono con l’intimità la loro conoscenza, perdendo
completamente la nozione del tempo.
La voce di Baricco giunse
da lontano, attutita dalle pareti e dal loro stesso ansimare.
Marina ormai lo
aspettava: nelle ultime ore del pomeriggio adocchiava frequentemente l’orologio
a muro per vedere quanto mancasse alle sette.
Si rendeva conto di
quanto l’attesa stesse diventando ossessiva e si domandava se quel gioco non le
procurasse una sorta di dipendenza da quell’uomo più giovane di lei, così
originale e stravagante, con cui condivideva solo la passione per il cinema.
Cercò di dedicarsi
ad attività di riordino del negozio per non pensarci. Ci riuscì a tal punto che,
quando sentì la porta aprirsi, alzò sorpresa lo sguardo all’orologio: erano le
sette e cinque, un leggero ritardo sull’orario abituale.
Lo straniero entrò con un’espressione
beffarda che non gli aveva mai visto prima e la salutò, prima di richiudere la
porta con la chiave.
Lei lo guardò
stupita:
- Perché chiudi la
porta? -
- Perché sono le
sette passate; sei oltre l’orario e il negozio deve stare chiuso - rispose lui
- se arriva un vigile e lo trova aperto ti dà una bella multa. -
- Ma non ce n’è
bisogno - reagì Marina, tradendo una punta di nervosismo - i vigili non hanno
mai controllato, non è mai successo in tutti questi anni. Perché hai chiuso? -
Troppo tardi. Lo straniero era già a metà bottega, la
fissava con quel sorriso beffardo, puntava dritto verso il bancone. Sospinse
dolcemente Marina oltre la tenda, seguendola nel locale di panificazione; lei
lo guardò meravigliata e un po’ preoccupata, incrociando con lo sguardo i suoi
occhi chiari, magnetici.
Indietreggiò fino a
sentire il contatto delle natiche con il tavolone dove era solita impastare; si
stava domandando quali intenzioni avesse, quando lui le cinse la vita e la sollevò
di peso, adagiando natiche e schiena sul duro piano di legno.
Marina all’improvviso
capì, senza riuscire a reagire. Sentì il peso di Maurizio su di lei e, sia pure
attraverso i vestiti, percepì l’urgenza di quell’uomo che la desiderava. Si
domandò se fosse sul punto di subire uno stupro, o piuttosto a un passo dal
tradire il marito, per la prima volta in tanti anni.
Non poteva, non
voleva tradirlo; con un ultimo sforzo, urlò per chiedere aiuto, ma si ricordò
che era tutto inutile: la porta era chiusa a chiave e nessuno avrebbe potuto
soccorrerla.
Vide gli occhi
magnetici dell’uomo accendersi, per la prima volta da quando lo conosceva; subito
dopo, sentì le mani sfilarle dolcemente i pantaloni e, armeggiando dalle parti
delle mutandine, trasportarla in un vortice di passione incontrollata.
Riuscì appena a mormorare
“Jack Nicholson e Jessica Lange, Il postino suona sempre due volte” un attimo
prima di accoglierlo tra gemiti e sbuffi di farina.
Francesca si
sentiva ridicola nell’apparecchiare quel piccolo tavolo rotondo per cinque in
una sala tutta vuota, posizionandolo comunque nel punto migliore, vicino alle
grandi vetrate con vista sul porticciolo e sul mare aperto che erano l’orgoglio
del locale.
Sbuffò. Quella
storia non le era piaciuta dall’inizio, per non parlare della telefonata di uno
sconosciuto che riduceva i partecipanti da otto a cinque; dispari per giunta!
E sì che Serenella
nel prenotare era stata esplicita: quattro coppie che, per una magica combinazione,
si erano formate negli ultimi tempi e volevano festeggiare insieme
quell’eccezionale avvenimento. Poi aveva abbassato la voce ed aveva precisato
che, delle quattro donne, due erano sposate; per questo le aveva chiesto se poteva
aprire eccezionalmente nel giorno di chiusura, riservando la sala tutta per
loro.
Aveva accettato per
amicizia, ma ora si ritrovava con soli cinque commensali nella sera in cui,
essendo il loro turno di chiusura, il marito andava a giocare a pallone e poi a
farsi una pizza con gli amici, tornando a casa solitamente non prima dell’una.
“Serata di merda” pensò. Oltre a ritrovarsi da sola,
avrebbe realizzato un incasso scarsissimo, a malapena sufficiente a coprire i
costi di tenere aperto il locale.
Sbuffò nuovamente,
domandandosi che cosa potesse essere successo per passare da otto commensali a
cinque. Ipotizzò che le signore sposate avessero rinunciato per non correre il
rischio di essere scoperte, ma allora perché cinque e non quattro? Chi si era
aggiunto alla combriccola?
Dette un’occhiata
all’orologio da polso; erano le sette e mezza, la tavola era apparecchiata e in
cucina era tutto pronto.
Di lì a un’ora
avrebbe sciolto l’enigma.
Le quattro donne
arrivarono assieme poco dopo le otto, puntuali ed eccitatissime. Valeria e
Serenella chiacchieravano fitto di politica mentre Augusta e Marina si
guardavano attorno circospette, temendo che qualcuno le vedesse entrare nel
locale.
Una volta dentro,
fu tutto un misto di sorpresa, stupore, incazzatura, delusione, frasi sconnesse
che si sovrapponevano l’una all’altra: “Com’è che ci sono solo cinque posti?”,
“Scusa Francesca, non avevamo detto otto?”, “Chi è che non viene senza neppure
avvisare?, “Io del mio fidanzato sono sicura, il tuo piuttosto…”.
Francesca lo sapeva
che, senza suo marito, non sarebbe stato facile gestire la situazione.
Ristabilita faticosamente la calma, ottenne che si sedessero tutte prima di
spiegare che aveva telefonato un uomo, presumibilmente uno dei loro compagni,
uno che lei non conosceva e che aveva ridotto la prenotazione a cinque.
Un cupo silenzio
scese tra le donne che, ormai sedute, dovevano aspettare l’arrivo del quinto
per capire.
- Gradite un po’ di prosecco? - intervenne Francesca, versando
il vino e cercando di riportare un po’ di buonumore nel gruppo - vi lascio qui
la bottiglia, se volete prenderne ancora… e qualche crostino di mare per non
ubriacarvi. -
Maurizio stava
completando la vestizione. In effetti, si sentiva come un torero prima della
corrida, oltre che un po’ stupido.
Quando Serenella
glielo aveva annunciato: “Sai, Maurizio, che bello, ci sono altre tre amiche
che hanno trovato l’uomo dei sogni proprio in questi giorni. Allora abbiamo
deciso di fare una cena tutti assieme, una grande cena di festeggiamento:
quattro coppie e spumante a fiumi!” lui si era fatto sorprendere e non aveva
trovato nessuna scusa valida per mandare a monte il progetto.
Così il giorno
fatidico era arrivato e stava a lui decidere: defilarsi e scomparire dal borgo
oppure affrontare la realtà? Oppure fingere di aver dimenticato l’impegno e
subire poi, singolarmente, le reazioni delle quattro donne?
Nelle more di una
decisione che non riusciva a prendere, si dedicò ad una scelta accurata dell’abbigliamento.
Infatti, nel caso si fosse presentato al ristorante, la riteneva comunque una
serata importante, da onorare adeguatamente. Scelse dunque una camicia azzurra
di puro lino per accompagnare i jeans leggeri di tela bianca.
Si guardò lungamente
allo specchio. Novello Narciso, si vide bello ed elegante, tanto da illudersi
che non avrebbe corso troppi rischi. Al proposito, gli affiorò alla mente “La
spartizione” di Piero Chiara e il relativo film con Ugo Tognazzi e sorrise
fiducioso: chissà, forse potevano trovare una soluzione di quel tipo, senza
scontentare nessuno.
Aveva deciso: si
sarebbe recato al festino. Completò il look
con un golf di cotone color champagne e s’incamminò a passo svelto verso la
collina.
La scena che seguì
il suo ingresso al “Maestrale” fu un capolavoro di comicità. Ognuna delle
quattro donne si sentì sollevata e ‘vincitrice’ sulle altre, si alzò in piedi e
gli corse incontro buttandogli le braccia al collo.
A Francesca sfuggì
di mano un bicchiere alla vista di quello strano albero della cuccagna a cui
stavano appese le quattro donne che lo trascinavano simultaneamente verso il
tavolo.
“Il mio c’è” aveva pensato ognuna di loro, non
rendendosi conto che era il ‘mio’ di tutte.
In breve però le
donne capirono la situazione, abbandonarono la presa e cominciarono a litigare
furiosamente tra di loro:
- Ma cos’è, ti sei
‘fatta’ il mio fidanzato, svergognata? -
- Io? Questo è il
‘mio’ fidanzato; tu piuttosto tieni giù le mani. -
- Dillo ancora una
volta e ti faccio nera, puttana! -
Per alcuni lunghi
momenti la situazione sembrò volgere al meglio per lo straniero che osservava quasi divertito il litigio tra le quattro
donne, le due sposate più caute e vergognose, visto che comunque per loro si
era trattato di una scappatella, le altre decisamente inferocite.
Ma di colpo le
donne si guardarono negli occhi e si capirono al volo: il colpevole era uno
solo, quello che le aveva sedotte in rapida successione.
Si volsero quindi
verso di lui e cominciarono a picchiarlo, graffiarlo e morsicarlo come felini
scatenati. Maurizio provò a difendersi, ma quattro donne erano difficili da
gestire; infine, una di loro gli tirò il classico calcio alle parti basse,
mentre un’altra brandì la bottiglia di prosecco e gliela spaccò sulla testa.
La battaglia era
terminata a favore delle donne, perché quell’uno-due micidiale aveva stordito
Maurizio che scivolò a terra come un pupazzo inanimato. Non paghe, gli
versarono a spregio l’avanzo di vino in faccia e se ne andarono, senza neppure
scusarsi con Francesca per tutta quella confusione.
Francesca era
ammutolita: l’incasso era addirittura azzerato e, come se non bastasse, si
ritrovava sola nel ristorante con un uomo aggredito e svenuto, proprio la sera
in cui il marito era via.
Gli si avvicinò
cautamente e gli sentì il polso, anche se non ce n’era bisogno perché il suo respiro
affannoso confermava che era vivo.
Si domandò se non avrebbe
dovuto chiamare il 118, ma l’uomo non le sembrò tanto grave; meglio dunque non
rischiare che, ultima beffa, ‘Il maestrale’ finisse sui giornali per una rissa
tra avventori.
Cercando di
calmarsi, prese da cucina e bagno una bacinella d’acqua e aceto, del cotone, la
bottiglia dell’acqua ossigenata e si chinò su di lui.
“Mi tocca pure fare l’infermiera” pensò mentre disinfettava
un piccolo taglio alla testa provocato dalla bottiglia rotta e applicava un
impacco di acqua e aceto sul vistoso bernoccolo che stava ingrossando a vista
d’occhio sulla fronte.
Usò il resto
dell’acqua per detergere il volto, gli occhi e le braccia. In ginocchio vicino
a lui, si sentì utile come da tempo non le capitava; lo ripulì con cura da tutti
gli sfregi e i segni della colluttazione, poi rialzò la testa per osservare,
soddisfatta, il risultato.
D’improvviso, sentì
qualcosa di freddo sulle gambe. Rabbrividì, prima di accorgersi che non si
trattava di un animale, bensì della mano esangue dell’uomo che stava risalendo lentamente
l’interno delle cosce.
In quel preciso momento
lui riaprì gli occhi. Lo sguardo di Francesca incontrò quello freddo e magnetico
di lui, apparentemente vuoto di tutto fuorché di desiderio. Lei ruotò gli occhi
verso quella parte del corpo che, nonostante il calcio ricevuto, denotava
un’insospettata vitalità.
Francesca era
confusa. Guardò l’orologio: mancavano almeno tre ore al ritorno di Oscar,
soprattutto se erano vere le insinuazioni di alcuni amici che, in quelle sere
di chiusura, dicevano di aver visto il marito non al campo di calcio, bensì con
un’altra donna a Genova.
Lo sprazzo di
vitalità era ben visibile ed in costante aumento; la mano dello straniero continuava a salire, ormai
prossima alle sue parti intime.
Non poteva far
finta di niente; doveva agire, fare qualcosa.
Prese allora una
decisione coraggiosa. Aprì la zip dei
pantaloni dell’uomo, armeggiò per liberare quell’imprevista energia ed impadronirsene,
volgendo infine a suo favore quella balorda serata.
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