Aveva
appoggiato il giornale per terra e la stava osservando da una decina di minuti,
lo sguardo rapito dalla figuretta sottile, incollato al tubino semplicissimo, di
lino color lavanda, che indossava.
Il
sole, filtrando dalla finestra, gli concedeva un controluce del vestito,
attraverso cui intravedere il corpo slanciato, rubare la visione delle gambe snelle,
affusolate; seguire in trasparenza le curve dolci, proporzionate, del bacino e
del seno, sul quale indovinare l’assenza di reggiseno.Un
fisico da ballerina, su cui s’innestava un volto dai lineamenti sottili,
eleganti, incorniciato da una spiritosa zazzera color stoppa; la carnagione
diafana, solo leggermente arrossata dal calore del fuoco.
Fu
sorpreso dall’espressione compunta, da ragazzina all’esame, che aveva assunto
mentre rimescolava con grazia ai fornelli, senza mai voltarsi verso di lui.
Sorrise compiaciuto, constatando che voleva fare da sola: imparare, ma anche dimostrare
a lui e a se stessa le sue capacità.
Di
colpo, la mano destra della ragazza sollevò il pentolino, mentre con l’altra
spegneva il fuoco. Lo mantenne per un attimo in sospensione, gli occhi
socchiusi, intenta ad inalare l’aroma che si diffondeva tutt’intorno; poi con
mossa decisa versò quel fluido denso e ambrato sul piano del tavolo. Lo vide allargarsi,
diventare un’isola scura sul marmo chiaro, fino ad assumere contorni irregolari
ma definiti.
Allora
finalmente si voltò. Fece qualche passo verso la poltrona, prima di sedersi
sulle sue ginocchia e sfiorargli la bocca con un bacio:
-
Ho fatto tutto bene, Serge? -
Lui
sorrise indulgente:
-
Sì, molto bene. Forse, per raggiungere proprio la perfezione, avresti dovuto
spegnere un attimo dopo. Un’inezia, tre o quattro secondi. -
-
Avevo paura che bruciasse - protestò lei, arricciando il nasino spiritoso -
come si fa a sapere quando sarà il momento in cui è perfetto? Lo sai quando è
già passato. -
-
Esperienza, chérie, solo esperienza.
Senti l’odore di caramello diventare sempre più intenso, finché non percepisci,
dentro di te, che un attimo dopo non sarebbe più zucchero caramellato ma
bruciato; come se suonasse un campanello d’allarme, in quel preciso momento
spegni. -
Appena
terminata la frase, se ne pentì immediatamente, cercando frettolosamente di
correggere il tiro:
-
Scusami, non dare retta ad un maniaco perfezionista, hai fatto un ottimo
caramello: sulle “Tre creme” farà un figurone con i nostri ospiti. Vedrai! -
Margherita
fece per un attimo il broncio, poi si ravvivò:
-
Ed ora, che si fa? -
- Ora
lo lasci raffreddare un po’, poi lo rompi. Puoi usare il manico di un coltello:
lo fai a pezzotti, non troppo piccoli, che infili di punta nella panna montata.
Il contrasto tra il gusto dolce-amaro del caramello e la panna è sublime; ma
non sottovalutare l’effetto scenografico: devono sembrare vetri rotti, come se
una di quelle bottiglie di birra marroni si fosse frantumata sul dolce. -
Lei
gli prese la mano, nuovamente imbronciata:
- Ok
professore, ma io volevo solo sapere se abbiamo il tempo di fare l’amore. -
“Non è la Senna, ma non è niente male”.
Il
pensiero colse Serge affacciato ad uno dei vetusti finestroni del ristorante
che davano sul Naviglio grande. Niente male, quel flusso d’acqua ordinato,
laminare, che addolciva ed animava una campagna fin troppo piatta; ci s’era
messo nientemeno che Leonardo a progettare quella rete di canali che ora
lambiva, con nobile indifferenza, cascine e ville signorili.
Nel
corso dei suoi pensieri irruppe improvvisamente il ricordo di quella giornata a
Parigi, quando lui, Serge Mondini, chef
italo-francese di chiara fama, maestro pasticciere di uno dei ristoranti più
famosi della città, si era fatto sedurre dall’idea di ritornare al Paese
d’origine.
Come d’abitudine, quel pomeriggio, Serge si era aggirato
tra pentole e forni e ne aveva esaminato il contenuto, prodigo di consigli:
- La crema pasticciera è leggermente liquida, Agnès, falla
addensare un po’… -
- Anche l’île
flottante, Jean Pierre, ma appena appena… -
- Lo strudel, mi raccomando Joséphine, non più di tre
minuti ancora: ha già un bel colorito. -
Rientrato alla scrivania, separata dalle cucine da una
grande vetrata, Serge aveva dato una rapida occhiata al computer, le mail del
giorno, le notizie principali sul sito di Le Monde; poi si era messo a
riflettere sulla sua situazione.
Non poteva certo lamentarsi.
Trentott’anni, un fisico da gigante buono, i capelli che,
precocemente brizzolati come suo padre, gli conferivano un’aura di serietà e
affidabilità; da anni era diventato il responsabile della pasticceria di un
grande e celebrato ristorante nei pressi di Place des Vosges.
Sospirò al ricordo di Place des Vosges: quando viveva
a Parigi, non passava giorno senza andare a sedersi in quella piazza ad
ammirare la scintillante uniformità dei palazzi che la contornavano, vincendo, con
la vivacità dei colori – bianco e rosso mattone – l’austera ripetitività
delle forme.
A seconda della temperatura, sceglieva una panchina
all’ombra dei tre filari di tigli squadrati che bordavano la piazza oppure
optava per una delle poche in pieno sole; a volte preferiva sedersi
direttamente sul prato vicino ad una delle quattro fontane, dove si rischia di
bagnarsi quando gira il vento. Lì apriva il libro del momento e si concedeva una
buona mezz’ora di relax.
Una bella vita. Aveva guadagnato abbastanza da potersi
comprare, non lontano dal ristorante, una graziosa mansarda da cui poteva
ammirare con aria trasognata i tetti della sua Parigi. Perché non c’era dubbio
che Parigi fosse la sua città, visto
che la famiglia vi si era trasferita quando lui aveva cinque anni.
Ma quel giorno un’ansia strana lo rodeva dentro.
Perciò, quando l’improvviso trambusto della truppa che
si muoveva in blocco per andare a mangiare lo aveva riscosso dai suoi pensieri,
non aveva avuto dubbi sulla risposta da dare a Jeff, uno spilungone di incerte
origini giamaicane, che aveva messo la testa dentro al suo ufficio per chiedergli:
- Serge, vieni a mangiare con noi? -
- No, grazie, ho un po’ di carte da sbrigare. -
Non era vero, ma Jeff non se ne stupì perché non
sempre si univa a loro: lo faceva spesso, ma non era una regola. Cuochi e
camerieri cenavano assieme un paio d’ore prima dell’inizio del servizio al
tavolo e lui percepiva che, unendosi a loro, li rendeva felici. Era un fatto
importante, perché serviva a cementare quello spirito di squadra cui teneva
tanto, uno dei cardini fondamentali della sua filosofia di vita.
Altre volte, invece, cedeva alla tentazione di rimanere
solo nel suo regno: era uno di quei momenti magici e segreti nel quale si
rilassava per cinque o dieci minuti, sprofondato in poltrona, prima di fare un secondo
giro delle cucine, con degustazione.
Gli piaceva assaporare la mousse, la crema pasticciera, qualche angolo di pasta frolla, la crème brûlée prima della
rosolata finale, socchiudendo gli occhi per concentrarsi meglio sui sapori, ma
anche per esprimere il suo compiacimento.
Preferiva che i suoi collaboratori non lo vedessero in
questa attività, perché avrebbero potuto interpretarla come un indebito
controllo sul loro operato; mentre per lui, goloso impenitente, si trattava di
piacere puro.
Non quel giorno però: appena scomparsa la truppa, si
era infatti precipitato su Le Monde Economie,
l’inserto economico del suo quotidiano abituale. Aveva ancora davanti agli
occhi la data del giornale, scritta in cima alla pagina “Mardi 16 novembre 2010”: il ricordo era talmente vivo che gli
sembrava di poterla leggere anche sull’acqua del Naviglio che scorreva davanti
a lui.
Subito sotto, aveva riletto quella strana ricerca di
personale che sembrava scritta apposta per lui: un affermato ristorante nei
pressi di Milano cercava un responsabile del reparto pasticceria per “fare un
salto di qualità nell’offerta del settore”.
Non c’era dubbio: cercavano lui. Un’inspiegabile
nostalgia per l’Italia, Paese di cui aveva solo ricordi vaghi dell’età
pre-scolare, lo aveva attanagliato; la voglia di cambiare vita, fare nuove
esperienze, affrontare nuove sfide, aveva fatto il resto.
“Tutto scorre” si chiamava il ristorante; un nome che lo aveva
lasciato perplesso, dubbioso se fosse una banale allusione al Naviglio che, a
quanto diceva l’annuncio, scorreva proprio davanti al locale, oppure un ben più
colto, filosofico riferimento al panta
rei attribuito ad Eraclito.
Un attimo d’incertezza al quale aveva reagito impulsivamente,
allegando il proprio curriculum ad un’email
e cliccando sul pulsante “Invia”.
Fu così che, pochi giorni dopo, preso un volo low cost nel suo giorno di libertà, si
era ritrovato seduto nell’ufficio al primo piano del ristorante, inondato dalla
luce solare quasi invernale, di un azzurro vagamente metallico, che entrava
dalle finestre.
Di fronte a lui, seduto su una scomoda sedia mal
imbottita, gli sorrideva un bonario ed attempato signore. Si era presentato
come Piero Balestra, era ovviamente il proprietario del locale ed aveva passato
molto tempo a parlare di sé e pochissimo di Serge, come se di lui sapesse già
tutto.
Aveva spiegato che, in tanti anni di attività, il
ristorante si era specializzato in una cucina lombarda evoluta, nella quale lui
era riuscito a mixare abilmente i
gusti schietti dei cibi locali con alcuni tocchi di raffinatezza “alla
francese”.
Il risultato ottenuto aveva catturato il gusto di una
clientela dal palato esigente, nonché dei più accreditati critici gastronomici;
rimaneva, come unica pecca riconosciuta, quella dei dolci.
Oltre ai critici, anche alcuni dei clienti più
affezionati avevano commentato che, in un ristorante di quel livello, non ci si
poteva accontentare di dolci acquistati, sia pure presso una famosa pasticceria.
Monsieur Piero, come lo aveva subito chiamato Serge, aveva
dunque un obiettivo chiaro: sfatare quel mito negativo che cominciava a
danneggiare il locale. Ci voleva quindi il famoso salto di qualità per il quale
Serge sembrava essere l’uomo del destino: il grande pasticciere parigino che,
oltretutto, si esprimeva perfettamente in italiano, avendolo sempre parlato in
famiglia.
Non c’era voluto molto a concludere la trattativa e
così, dopo pochi mesi, il Naviglio grande era subentrato a Place des Vosges nel
cuore di Serge. Cuore peraltro rapidamente occupato anche dalla giovane
Margherita, una dei quattro o cinque collaboratori, il cui numero variava secondo
i giorni e l’affluenza prevista. Collaboratori che lui si era impegnato ad
allevare, secondo i patti, fino a farli diventare dei buoni pasticcieri. Anzi
ottimi, come aveva voluto precisare il signor Piero.
In quest’ottica aveva deciso di dedicare una mattina
la settimana ad un corso approfondito su
uno dei nuovi dessert che aveva
introdotto nel menu.
Quella mattina c’era una grande eccitazione nell’aria
perché si era sparsa la voce che Serge avrebbe spiegato ai suoi collaboratori i
segreti delle “Tre creme”, un dolce di sua invenzione che aveva attirato le
lodi sperticate dei critici più autorevoli e fatto schizzare in alto il
fatturato del ristorante.
Il signor Piero, gongolante, aveva addirittura fatto
verandare una parte di giardino, raddoppiando quasi la disponibilità di
coperti.
Serge non poteva che essere orgoglioso di un siffatto
successo, nonché della dedizione e puntualità con cui i suoi collaboratori si
presentavano alle lezioni, muniti di blocco e penna come se fossero tornati sui
banchi di scuola.
A Serge piaceva cominciare puntuale, per cui alle
dieci precise entrò nella sala, si raschiò brevemente la gola ed iniziò con
tono professorale:
- Oggi vi parlerò della mia creazione preferita, un
dolce che ho chiamato, molto semplicemente, Le
tre creme. Iniziamo dal contenitore: deve obbligatoriamente essere una coppa
di cristallo trasparente perché si possano vedere nitidamente i confini tra le
varie componenti; queste vanno disposte nell’ordine: la crema pasticciera sul
fondo, poi la mousse di cioccolato,
infine la panna montata. -
Fece una breve pausa prima di continuare:
- Tre creme: pasticciera, mousse, panna montata. Tenete presente il gioco dei contrasti,
netti ma armoniosi. Innanzitutto il colore: giallo, marrone, bianco. Tre colori
che stanno bene insieme e a noi piace ammirarli, nella coppa di cristallo
trasparente.
Stesso discorso per la consistenza che evolve dalla
morbida cremosità della pasticciera fino alla vaporosità della panna montata,
passando per la via di mezzo della mousse
di cioccolato, cremosa e vaporosa allo stesso tempo.
Fondamentale infine l’abbinamento dei gusti: la pasticciera
dolce contrasta con l’amaro della mousse
fondente; questa, a sua volta, stempera il suo sapore forte con la delicatezza
della panna montata. -
Fino a quel momento, i giovani allievi avevano preso
nota freneticamente, sollevando di tanto in tanto lo sguardo verso quell’uomo
alto e forte che descriveva un dolce con la stessa aria ispirata ed
appassionata di un poeta che declama una sua poesia. Ma sul gioco di contrasti
scattò un applauso scrosciante che sorprese ed emozionò Serge.
Con un sorriso compiaciuto, il gran pasticciere fece ruotare
gli occhi attorno a sé, lentamente, passando in rassegna gli allievi che, nel
frattempo, si erano ricomposti e stavano là, con la penna a mezz’aria, pronti a
ricominciare a prender nota.
Riprese la lezione, col tono vellutato di chi racconta
una favola:
- Veniamo ora alla magia del caramello. Si scalda
dello zucchero in un pentolino finché non si diffonde nell’aria il classico
odore di zucchero caramellato; lo si versa sul piano di marmo e si lascia
raffreddare. Lo si rompe poi sopra alla panna, ottenendo così un nuovo
contrasto tra il dolce-amaro del caramello e la soavità della panna,
aggiungendo l’ambra alla tavolozza dei colori, la durezza vetrosa alla gamma
delle consistenze. -
Dopo aver sorseggiato un goccio d’acqua, proseguì:
- Ma il vero segreto sta nella crema pasticciera, che
mettiamo in fondo perché è l’anima del dolce, il gusto fondamentale su cui gli
altri si appoggiano: fate una buona pasticciera e la battaglia è vinta! La
crema deve avere un gusto discreto ma seducente, profumare senza stordire, conquistare
il palato senza aggredirlo. -
Da un po’ di tempo, Serge aveva elaborato questa
teoria: che la mousse fosse la parte
appariscente del dolce, la panna ed il caramello il contorno decorativo, mentre
la pasticciera ne era il cuore, l’anima, il dono supremo per i palati più fini.
In poche parole, si era innamorato della pasticciera al
punto da ridurre le sue degustazioni della pausa pranzo a una coppetta di
quella crema che Margherita gli preparava ogni giorno, prelevandola dal centro
della pentola e lasciandola raffreddare lentamente a lato dei fornelli.
Così Serge manteneva la vecchia abitudine del giro in
cucina con degustazione, pur avendo ristretto la sua golosità a quell’unica porzione
di sostanza paradisiaca.
- Naturalmente - concluse - dedicheremo le prossime lezioni
a spiegare e sperimentare praticamente la preparazione dei vari componenti, a
cominciare dalla crema pasticciera la prossima settimana. -
Il giorno stabilito della settimana seguente, non fu
un mero automatismo, per Margherita, preparare la coppetta per Serge alla fine
della lezione sulla crema pasticciera. L’aveva fatto con la delicatezza di chi
preleva un tesoro, immergendo lentamente nella pentola il mestolo piccolo, con
mani tremanti e gesti sacrali.
Era felice perché Serge, ispirato come non mai, li
aveva veramente messi a parte dei segreti di quella preparazione, sia sul piano
teorico che nella realizzazione pratica, alla quale avevano collaborato tutti,
ottenendo così il massimo dei benefici.
Al termine dell’esercitazione, ognuno fu invitato ad
assaggiare quella delizia gialla che inebriava i sensi e disponeva favorevolmente
alla vita. Dopodiché Serge si era diretto al suo piccolo studio, gli altri a
consumare il pranzo a loro riservato.
A fine pasto fu Fabio, l’assistente di Serge, il primo
a recarsi nello studio, per ricevere il programma di attività del pomeriggio.
Serge era seduto sulla poltroncina di pelle nera, come
sempre, ma il busto era appoggiato sulla scrivania, il braccio teso, la mano
contratta nel tentativo di afferrare qualcosa, forse il campanello elettrico
che ora giaceva per terra, la testa riversa con gli occhi sbarrati verso il
soffitto, lo sguardo cristallizzato in un’espressione di stupore misto a dolore.
La coppetta di crema pasticciera giaceva sul tavolo,
vuota.
Arrivando al primo piano del ristorante, il
commissario Rosaria Campo pensò subito che la scena non lasciasse molto spazio
alla fantasia: morte per avvelenamento, provocata da una sostanza intromessa nella
crema da mano criminale.
A lei restava solo il compito di scoprire l’assassino:
con ogni probabilità, una delle persone presenti in quel momento nel locale.
Osservò gli uomini della Scientifica fare
scrupolosamente il loro lavoro, rilevando impronte, analizzando resti; parlò
brevemente con il loro capo, il dottor Nicoletti, dicendogli di chiamarla non
appena avesse avuto qualche novità.
Questi la bloccò con un gesto della mano, dopodiché si
appartarono in un angolo della stanza.
- Qualcosa di strano c’è già - esordì il dottore - i
resti della crema nella coppetta indicano inequivocabilmente la presenza di
stricnina. -
- Ci avrei giurato - ribatté Rosaria.
- Sì, però la crema pasticciera che è rimasta nella
pentola è assolutamente buona, indenne da qualsiasi traccia di veleno. Tragga
lei le conclusioni. -
- Possibile? Vorrebbe dire che la crema è stata
avvelenata dopo che Serge l’ha prelevata… -
- Commissario, se vuol gradire: questa è stata presa
direttamente dalla pentola. E’ buonissima, glielo assicuro - disse il dottor Nicoletti
sollevando un vasetto e un cucchiaino verso il commissario, che fece una
smorfia di rifiuto.
Fu in quel momento che si sentì osservata. La cosa non
la stupì: Rosaria era una di quelle brune appariscenti, dalle curve pronunciate,
che facilmente suscitava l’ammirazione del genere maschile. Non era insomma il
tipo fisico che degli aiuto-pasticcieri di campagna avrebbero spontaneamente
attribuito ad un commissario di polizia, per giunta della squadra omicidi.
Si voltò di scatto, trovandosi davanti quattro occhi
maschili, lucidi e vagamente eccitati. Sorrise, pensando che avrebbe potuto
scartare a priori quei due dalla
lista dei potenziali omicidi, perché difficilmente chi ha appena commesso un
delitto ha la voglia ed il tempo di ammirare le curve del commissario incaricato
delle indagini.
Si rivolse loro con un sorriso languido e provocatorio:
- Mi fate vedere la cucina? Così mi faccio un’idea
dell’ambiente in cui è maturato il delitto. -
Li vide sobbalzare alla parola delitto, prima di riprendere
il controllo e procedere alla visita guidata da lei richiesta.
Era la prima volta che Rosaria visitava le cucine di
un ristorante di quel livello; ammirò i numerosi fuochi di varia dimensione e fu
colpita dalla lucentezza di tutte le parti metalliche, dai fornelli alle
suppellettili, alle cappe di aspirazione, fino ai tubi delle canne fumarie.
Certamente, il “Tutto
scorre” non avrebbe temuto nessuna ispezione, non fosse stato per
l’omicidio di Serge.
Le tornò in mente il ristorante di sua zia Innocenza a
Crotone dov’era nata ed aveva trascorso i primi anni di vita. A quel che
ricordava, le cucine erano molto diverse: annerite dal fumo, i fornelli
incrostati, perché zia Innocenza sosteneva che così le pietanze “uscivano
migliori”.
Si fermò di colpo davanti ad una pentola contenente
una crema gialla, rabbrividendo nell’indicarla ai due ragazzi:
- E’ quella? -
- Sì, la crema pasticciera. L’abbiamo fatta noi, come
esercitazione con Serge. Sentisse che buona, la vuole assaggiare? - rispose
Aldo, il più intraprendente dei due.
- No, grazie - disse precipitosamente, aggiungendo per
giustificarsi:
- quando sono in servizio non mangio mai. -
Aveva temuto di offenderli oppure, ancor peggio, di
essere giudicata una fifona. Però non le andava proprio di mangiare quella
crema che aveva appena fatto una vittima. Proseguì la visita alla cucina,
guardando sconsolata un certo numero di pietanze in fase di cottura che, per
quel giorno, erano diventate inutili.
Si girò di scatto verso i due giovani:
- Spiegatemi una cosa: Serge mangiava abitualmente quella
coppetta di crema pasticciera, oppure oggi è stato un caso eccezionale? -
I due si guardarono incerti, poi Aldo rispose con
decisione:
- Tutti i giorni. Era il suo pranzo, perché Serge
mangiava poco, per tenersi in forma; per contro era un grande goloso, soprattutto
di crema pasticciera. Margherita gliene preparava una coppetta tutti i giorni,
gliela lasciava qui a raffreddare - concluse, indicando il bordo della cucina.
- Questa Margherita è stata dunque l’ultima a toccare
la crema, che voi sappiate. -
Un’ombra attraversò gli occhi dei due ragazzi, suscitando
la reazione rabbiosa di Aldo:
- Capisco a cosa sta pensando, commissario, ma
Margherita non l’ha certo avvelenato. A dire il vero, nessuno dei suoi collaboratori
può averlo fatto, perché lo adoravano. Lo adoravamo tutti, ma Margherita aveva
una ragione in più: era la sua donna. -
“Che
ingenui…cherchez la femme” pensò in un baleno Rosaria, prima di
riflettere a voce alta:
- Però Margherita la lasciava là a raffreddare. Quindi
qualcun altro avrebbe potuto aggiungere il veleno prima che Serge la
prelevasse. E’ stato così anche oggi? -
Vide nuovamente uno scambio di sguardi preoccupati tra
i due, ma la risposta sembrò convincente:
- Sì, è così, perché a Serge piaceva fare un giro
delle cucine quando sono deserte e quindi la prelevava lui. Anche oggi:
Margherita l’ha lasciata lì, vicino alla pentola, ed è venuta con noi a pranzo.
-
- Bene. Vi ringrazio molto, ma ora devo cominciare gli
interrogatori. Dov’è l’ufficio del proprietario? -
- Mi segua - replicò prontamente Aldo - il signor
Piero sarà felicissimo di parlarle. -
Stava pensando che in realtà nessuno al mondo, neanche
l’essere più innocente, è mai contento di subire un interrogatorio di polizia,
quando Aldo bussò discretamente alla porta, prima di aprirla con cautela.
Rosaria entrò con passo deciso.
- Commissario - la accolse affabilmente Piero Balestra
- si accomodi, la stavo aspettando. -
Il colloquio non durò più di mezz’ora. Piero estrasse
dall’archivio una cartelletta con scritto “Andamento fatturato” e mise sotto
gli occhi del commissario una serie di grafici, commentando:
- Serge è stato, per il mio locale, come la manna dal
cielo. Vede, il mio ristorante è noto da molti anni, frequentato da persone importanti.
Eppure, nell’ultimo anno o due, come dimostra questo grafico, il numero di
coperti aveva cominciato a declinare. -
Sospirò, allungando lo sguardo fuori dalla finestra,
verso la campagna lombarda; poi riprese:
- Ho intuito che la colpa fosse dei dolci, non più
giudicati all’altezza dalla clientela, molto esigente, che ormai frequentava il
locale. Perciò, lo scorso inverno, ebbi un’idea geniale: cercare un pasticciere
di grido che completasse la nostra offerta. E cercarlo in Francia, perché là
sono i migliori. -
La guardò di sottecchi, prima di proseguire:
- Così è arrivato Serge. Ho avuto fortuna, perché
oltre ad essere bravissimo, si esprimeva in italiano perfettamente e sapeva
farsi voler bene dai dipendenti. I risultati parlano da soli, basta guardare
gli ultimi tre mesi: le vendite impennano, il numero di coperti anche. Per me è
stato un vero toccasana. -
- Non sono strettamente correlate, vendite e numero di
coperti? - obiettò Rosaria.
- Non del tutto - replicò sorridendo il signor Piero -
perché non solo i clienti sono stati più numerosi, ma sono aumentati a
dismisura quelli che ordinano il dessert.
Prima non era così; sa, con la fissazione delle diete, molti, dopo il secondo,
passavano direttamente al caffè. Invece, dall’arrivo di Serge nessuno
rinunciava più al dessert, il conto
lievitava e le vendite crescevano in modo esponenziale. -
- Vedo - commentò Rosaria esaminando con cura il
grafico - complimenti: una mossa vincente, la sua. -
D’improvviso, un’ombra velò lo sguardo del signor
Piero, la fronte si aggrottò, la voce divenne tremula:
- Mi creda, per me è la fine. Non oso pensare alle
conseguenze di questo omicidio: la perdita di Serge toglie la maggior
attrazione al mio locale, per non parlare dell’impatto psicologico di una morte
per avvelenamento. -
- La capisco, ma purtroppo non posso aiutarla, su
questo piano - concluse Rosaria, accomiatandosi - dica a tutti i dipendenti di
tenersi a disposizione e presentarsi qui domattina alle dieci. -
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