( Mimma Zuffi)
L’alba. Lo stadio sembra, dall’alto, la costruzione di un bimbo sulla sabbia, poi sono atterrita dalla grande ferita sulla montagna. Sulla dorsale si vedono colorarsi di rosa le case di un villaggio; alle spalle, giù sulla riva del mare, con tinte più dorate, un altro agglomerato di case, anch’esse vuote, scendo, cercando con occhi cauti di cogliere un segno di vita. Dove corre l’acqua sorgiva e s’abbeverava un gregge di capre dalle corna tortili e dal pelo nero che luccicava nella luce mattutina, zone di pascolo anche nei tempi antichi, non vedo anima viva. Allora cammino sotto gli abeti: le loro pigne, ritte come le candele d’un albero di Natal, stillano lacrime di resina che le fanno sembrare d’argento. L’aria di montagna è una resurrezione, ma solo per me.
Anche qui nessuno. Il sentiero è
scabro, e domando a me stessa, salendo, se nella rotta ci sono ancora le fate,
come avevo sentito dire anni fa. Ma rido di me stessa: questa affermazione non
sembra andare d’accordo con l’uomo di oggi. Ma quale uomo? Non c’è più nessuno.
Le fate ai giorni nostri? Io non le ho viste mai. Da qui passavano molti
turisti, tanto da diventare un grande albergo, e ciascuno aveva una diversa
mitologia personale. Fra questi gruppi di folla multicolore, la gente seguitava
a vivere caparbiamente. Ora la folla non c’è più, la gente è ferma nella
posizione in cui venne colta dalla nube nera. Sembra di vivere una fiaba, anzi
un incubo, anche se mi rendo conto che sto attraversando la realtà, sola con me
stessa. E’ come se si fosse chiuso un ciclo: mi trovavo di fronte alle forze
della natura che l’uomo ha liberato e
non so se, io sola, riuscirò più a dominare. Ora so che la durata di questa
terra è relativa, vedo tutto lo spazio e il tempo passato e futuro come
una cosa sola. Non è più necessario
chiamare le cose eterne, per poter lottare fino all’ultimo istante e godere la
vita.
Ma se voglio guardare le
cose più semplicemente e direttamene, posso sedermi su un sasso, quando il sole
ha varcato il muro della montagna e va a tramontare dietro quel picco. La luce
viene orizzontale e picchia sulle pietre grigie e azzurre, con tonalità di
specchio antico, con ferite di ruggine e sangue. Più in fondo le fronde degli
alberi trascolorano, sempre nella mobilità incredibile della luce, dal verde
oro al verde argento; cangiano anche le
masse dei monti sempre più lievi: oro che dà sul viola, e dal viola al colore
dell’uva nera pigiata. Vorrei sfuggire a tutto questo: sfuggire a questo
mutamento – di cose e di sensazioni – che dà le vertigini. Per quanto si
resista è impossibile non sentire, attorno a queste, un lembo di sacralità.
Almeno questo, non rinnegare me stessa.
E non mi meravigliai quando
mi misi a scrivere il mio epitaffio perché nessun altro avrebbe potuto farlo:
Qui
sta riposando M., e nessuno fra coloro che forse verranno si meravigli della
sua morte perché la ruota della vita era passata su di lei.
Tristissimo ma reale.
RispondiEliminaTriste ma poetico. Hai ispezionato la tua anima. Grazie per questa riflessione. Juanito.
RispondiEliminaGrazie a Juanito e a chi ha scritto il primo commento per aver colto nel segno.
RispondiElimina