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venerdì 27 dicembre 2019

IL BOSCHETTO DI ARIANNA di Enrico Jessoula


INTRODUZIONE - IL BOSCHETTO DI ARIANNA - 


Primo dei racconti brevi della Trilogia di Racconti “eroticomici”, – ultimo progetto letterario di Enrico Jessoula – sorprende e diverte per il tono leggero con cui l’Autore sviluppa una vicenda che sfiora tematiche molto attuali, tenendola sospesa con garbato umorismo fino al tragicomico epilogo.     
                                                                                                                 Marilou Ceria



IL BOSCHETTO DI ARIANNA
di Enrico Jessoula


“Stronza leghista” pensò Omar mentre affondava con rabbia i suoi colpi in quella palla di lardo bianchiccia che gemeva e ansimava come una vaporiera.
L’anatema gli era venuto di getto, in italiano, perché solo così avrebbe potuto esprimere in modo sintetico ed efficace quello che pensava di quella donna che giaceva sotto di lui, ma che solo mezz’ora prima l’aveva respinto in quanto magrebino.
Era stato piuttosto imbarazzante. Omar, immigrato clandestinamente in Italia nell’estate del 2010, venticinquenne dal fisico di atleta, aveva incontrato subito il favore delle donne e non aveva avuto difficoltà ad introdursi nell’ambiente milanese, città apparentemente aperta alle diversità.


Successivamente aveva bruciato le tappe nell’agenzia “POUR ELLE - servizi a domicilio”, come recitava il banner sul sito web, fino a diventarne la punta di diamante, il gigolò da riservare alle clienti più importanti ed esigenti.
Così non si era stupito quando Marion, l’italo-belga che coordinava le cosiddette ‘missioni’ dei ragazzi, gli aveva assegnato una visita ad una top manager in una villa della Brianza, con le raccomandazioni di rito:
- E’ una cliente di riguardo, devi dare il massimo. Se le piaci, vorrà sempre te e potrai fare dei bei soldi. -
Ma le cose non erano andate come al solito, con la cliente che, data la libera uscita alla servitù e salvate le apparenze con quattro chiacchiere ed un aperitivo in salotto, comincia ad occhieggiare nervosamente la porta della camera da letto.
Tutto diverso, stavolta. Palla di lardo gli aveva aperto la porta con un sorriso che le si era spento immediatamente sul volto; era addirittura indietreggiata con un fremito di terrore:
- Ma tu chi sei? - aveva chiesto, lasciandolo interdetto.
- Sono Omar, mi manda l’agenzia… -
Lo sapeva benissimo, la top manager, che lo mandava l’agenzia; solamente non si aspettava che fosse di colore. Era andata su tutte le furie e, senza degnarlo di uno sguardo, gli aveva girato le spalle e si era precipitata ad afferrare il cordless da una mensola dell’ingresso. Aveva telefonato in agenzia urlando isterica a Marion che non voleva un extracomunitario, che le faceva schifo solo l’idea di entrare in contatto con uno di quei parassiti “che venivano a rubare il lavoro ai ‘nostri”.
Era seguita una lunga trattativa. Non è dato sapere quali argomenti abbia usato Marion ma dovevano essere stati molto persuasivi se la top manager ne era uscita progressivamente ammansita, fino a sibilare la domanda conclusiva:
- Insomma, lei parla per esperienza personale o per sentito dire? -
- Io parlo sempre per esperienza personale - aveva risposto seccamente Marion, ponendo così fine alla discussione.
Riagganciato il telefono, Palla di lardo si era rivolta freddamente a Omar:
- Seguimi, fammi vedere cosa sei capace di fare. -
Pochi minuti dopo, come già sappiamo, la donna delirava tra gemiti, rantoli e mugolii tra le braccia del magrebino.
“Povera stronza leghista”.
Il pensiero lo colpì per la seconda volta, proprio nel momento in cui la donna aveva cominciato a dimenarsi furiosamente, stringendolo come se volesse stritolarlo.
Rispetto al primo anatema aveva però aggiunto quel “povera”, una nota di compatimento che annientò di colpo la rabbia che, sola, sosteneva la sua potenza sessuale.
Non migliorò la situazione lo sguardo stralunato e incredulo della donna nel sentirlo ritrarsi e uscire da lei:
- Cosa fai, sei impazzito? Mi lasci così, a metà strada? -
Lui la guardò sconsolato, con gli occhi scuri e buoni carichi di compassione per quella palla di lardo bianchiccia che poco prima aveva odiato:
- Se vuoi, posso… - tentò di rimediare Omar, ma l’altra sibilò gelida:
- Puoi solo rivestirti e filare alla svelta: tra tre minuti esatti libero i cani - aggiungendo beffarda - ne ho una dozzina e tutti feroci. -

- Cos’hai combinato, Omar? Lasciare sul più bello una delle nostre clienti eccellenti non è da te. -
- Non so cosa mi è successo; posso solo dire che lei si era comportata male con me. -
- Sì, lo so, la telefonata. Per convincerla le avevo dovuto promettere la luna e tu fai cilecca proprio con lei. Capisci che ne va dell’immagine della società. -
- Io non ho fatto cilecca, ho solo avuto un momento di compassione, mi ha fatto pena. -
- Pena? Sappi che la capa è furibonda e non avrà certo crisi di compassione nei tuoi confronti, lei! Sei licenziato, Omar; anzi, ti prego di non farti più vedere da queste parti, prima che accusino me di aver fatto una scelta sbagliata. -
Non gli ci voleva proprio. Il suo permesso di soggiorno era prossimo alla scadenza e non era dunque il momento adatto per perdere un contratto di lavoro, indispensabile al rinnovo.
Omar venne risucchiato dalla vita dei primi tempi dopo lo sbarco in Italia. Una vita di espedienti, alloggi rimediati in modo avventuroso presso amici o compagne occasionali che per fortuna non gli mancavano.
Cominciò a frequentare assiduamente gli Internet point alla ricerca di un lavoro onesto e stabile che sembrava non esistere. Passò lunghi giorni a scorrere elenchi, finché fu colpito da un annuncio strano: offrivano vitto, alloggio e un piccolo compenso a chi si fosse preso cura del giardino.
Scarabocchiò il numero di telefono su un pezzetto di carta ed uscì subito dal locale per non far capire agli altri che aveva trovato qualcosa. Per lo stesso motivo, si allontanò parecchio prima di ricopiare il numero sul cellulare e chiamare per fissare un appuntamento.
La voce dall’altra parte del filo era di una donna anziana che gli dette subito del tu e gli chiese da quale parte del mondo venisse.
Non si stupì della domanda, perché la sua pronuncia italiana era ancora imperfetta; piuttosto si preoccupò e rimase per qualche secondo indeciso se dichiarare la verità. 
- Sono magrebino - farfugliò infine, sperando che la donna non capisse.
- Magrebino - reagì vivacemente la donna - di dove: Marocco, Libia, Tunisia, Algeria? -
- Marocco, sono di Marrakesh - proseguì lui, esitante.
- Marrakesh - ripeté la donna, sdilinquita - che posto di sogno. Quella piazza che sembra il centro del mondo; stai lì e immagini le carovane che vi convergono da tutte le direzioni - un attimo dopo, cambiando repentinamente tono:
- Se puoi venire alle cinque, ti spiego cosa c’è da fare. Sono sicura che ci metteremo d’accordo - poi con un sospiro - il Marocco, quanti bei ricordi… -“Questa perlomeno non è leghista” pensò Omar dopo aver riagganciato. Il pensiero lo indusse a ridere da solo dello sconvolgente cambio di vita che gli si prospettava, da gigolò a giardiniere, dalle sessuomani irriducibili alla vecchietta che curava amorosamente le piante del giardino.
Non era del tutto certo di voler fare un passo del genere, ma forse era l’occasione giusta per inserirsi nel tessuto sociale dei milanesi ‘normali’, lasciandosi alle spalle i circuiti del vizio e del piacere. Dette un’occhiata all’orologio: mancava circa un’ora all’appuntamento e si avviò a piedi verso Baggio, un quartiere a lui sconosciuto che lo sorprese per l’aspetto di corpo estraneo, di città nella città, così diversa dai quartieri del centro.
Giunse a destinazione cinque minuti prima dell’ora fissata, davanti ad una villetta rustica e modesta che corrispondeva all’indirizzo che la signora gli aveva dettato.
Suonò, perché fa sempre una bella impressione che uno arrivi con leggero anticipo; sentì lo scatto dell’apriporta e spinse il cancello.

La signora Rosa doveva essere intorno ai sessant’anni e si presentò con un vestituccio da casa che ne aveva almeno trenta, di anni, e un paio di infradito di colore indefinibile abbelliti, se così si può dire, da una margheritona di plastica gialla.
Restò per alcuni secondi imbambolata a guardarlo ammirata prima di condurlo a visitare la casa.
- La casa è piccola, ci abitiamo solo io e mia figlia. Ci sono due camere da letto e un bagno al piano superiore; qui al terreno, questo saloncino all’ingresso e la cucina semi-abitabile. Però nel seminterrato c’è un ampio locale con un divano letto che, se accetti, diventerà il tuo regno. -
Sembrava molto interessata a convincerlo, tanto che dopo qualche secondo proseguì:
- Potrai farci quello che vuoi; c’è la televisione, puoi usare il telefono e il computer. Unica condizione, niente donne, anche se il divano letto è matrimoniale: l’abbiamo preso perché era in sconto e inoltre è più comodo, soprattutto per un ragazzone come te.
- E… il lavoro che devo fare? - mormorò Omar, quasi intimidito da quell’accoglienza così gentile.
La signora Rosa sospirò profondamente, prima di affrontare con decisione l’argomento:
- Il lavoro è in giardino. Seguimi, che ti spiego. Una volta facevo tutto io: potare, annaffiare, trapiantare, concimare. Ma sai, caro… non mi hai detto come ti chiami. -
- Omar, mi chiamo Omar, signora. -
- Sì, caro Omar, con l’età mi è diventato faticoso. Inoltre, una volta c’era mio marito ad aiutarmi nei lavori più pesanti; ma poi, pace all’anima sua… -
- La signora è vedova? Mi dispiace - disse Omar con l’espressione più contrita di cui era capace.
- Da dieci anni, caro Omar. Mi ha lasciato qua, con la bimba a carico. Perché la mia Arianna aveva sì venticinque anni, quando è morto il padre, ma era ancora una bambina… - ebbe un attimo di riflessione, prima di continuare con un sorriso compiaciuto - e forse è ancora oggi una bambina, anche se avrebbe l’età per essere una mamma. - 
Lo sguardo di Omar spaziò sul giardino, più grande di quanto le dimensioni della villetta lasciassero prevedere. Non tale, però, da impensierire un giovane energico come lui. Pensò sorridendo che, in termini di fatica, poteva equivalere a tre clienti al giorno della sua precedente attività. Era questa la particolare unità di misura che lui e i suoi colleghi avevano inventato: in una specie di scala Richter della fatica fisica, tre clienti rappresentava uno sforzo medio-alto ma non devastante.

Arianna tornò dal lavoro verso le sei e fu sorpresa nel vedere un uomo che annaffiava il giardino. Sì fermò a lungo, non vista, ad osservarne la figura slanciata, il torso nudo e scuro sui bermuda bianchi, a valutarne la muscolatura degli arti, lunga e possente.
Poi aprì la porta di casa e si diresse in cucina, sicura di trovarci la madre:
- Non dirmi che hai trovato un aiutante… o è un volontario mandato dal Comune? -
- L’ho assunto in prova per una settimana - rispose la madre, ignorando volutamente l’ironia della figlia - poi se ci piace lo confermiamo. -
Arianna le rivolse uno sguardo privo d’espressione:
- Deve piacere a te, come lavora in giardino. O fa anche altro? -
- Ma deve piacere anche a te, perché vivrà con noi, ceneremo assieme. Insomma, è come fosse un ragazzo au pair. Noi gli diamo vitto e alloggio e lui lavora per noi. -
- Sì, ma l’importante è che vada bene a te. La cura di quel maledetto giardino è diventata un’ossessione, per te e per me - concluse Arianna, dirigendosi con aria indifferente verso il telecomando del televisore.

Le prime giornate di lavoro furono più faticose del previsto: “quattro clienti” ironizzò Omar tra sé e sé mentre grondava di sudore.
Non aveva un attimo di respiro, anche perché la padrona si accomodava in un angolo del giardino e non lo perdeva d’occhio un istante. Appena lui si rialzava dall’aver spiantato e ripiantato un arbusto, lei era già pronta con un altro compito: “Omar carissimo, dovresti potare la vite, già che ci sei. Prendi la scala grande…” oppure “Bene Omarino, oggi è la giornata del concime, devi spargerlo con cura dappertutto”.
Per giunta, quando il lavoro sembrava terminato cominciava la fatica maggiore, perché la signora Rosa esigeva che riordinasse tutto il prato e il giardino: se c’erano dei sassi dovevano essere accumulati in una zona che la padrona chiamava pietraia, il fogliame e i ramoscelli caduti a terra raccolti e buttati nel cassonetto, la terra smossa eliminata con l’aspirapolvere. Da ultimo, il rastrello andava passato sui vialetti in modo che apparissero ben pettinati.
Non v’è dunque da meravigliarsi che, a sera, Omar si ritrovasse con la schiena a pezzi come mai gli era capitato prima.
Ma non aveva alternative. Così perseverò nel lavoro e si presentò il sabato a ritirare la paga pattuita con la richiesta che gli stava maggiormente a cuore:
- Se la signora è contenta di me, vorrei chiederle di mettermi in regola, per poter rinnovare il permesso di soggiorno. -
- Quando ti scade? - domandò laconicamente Rosa.
- Tra un mese - rispose lui, bluffando nel tenersi un paio di settimane di margine.
La signora Rosa guardò il ragazzo negli occhi, poi rispose soppesando con cura le parole:
- Il lavoro che fai è ottimo. Vorrei solo che ti dedicassi di più al boschetto di Arianna; se lo farai, non avrò problemi a metterti in regola e farti ottenere il rinnovo. -
“Il boschetto di Arianna” pensò Omar, ripercorrendo mentalmente la disposizione del giardino. C’era in effetti un addensamento di piante in un angolo, un glicine e due o tre bignonie, che fino a quel momento aveva trascurato: si ripromise dunque di dedicarcisi con maggior impegno nella settimana successiva.
Il sabato seguente, però, il giudizio non era cambiato:
- Caro Omar, te l’ho detto: devi riuscire a prenderti cura del boschetto di Arianna - ripeté la signora, sventolandogli dei fogli sotto gli occhi - guarda: ho già ritirato i moduli per l’iscrizione e il rinnovo del permesso di soggiorno. Sta a te meritarteli! -

Non volendo lasciar passare un’altra settimana nell’incertezza, passò all’azione il giorno dopo. Era domenica, giornata che Arianna dedicava alla cura maniacale della propria persona, mentre la madre usciva per misteriose visite al vicinato.
Omar vide Arianna transitare dalla sala più e più volte. La osservò attentamente: era un botolo informe, alto circa un metro e sessanta e pressoché squadrata, un parallelepipedo senza curve né armonia. Anche il volto inespressivo e incolore, i capelli e gli occhi castani, né scuri né chiari, banali, i lineamenti né brutti né belli, la vestaglietta da casa impataccata, contribuivano a conferirle un anonimato quasi perfetto.
Però non era antipatica e soprattutto non era una stronza leghista. Perciò, all’ennesimo passaggio la intercettò:
- Arianna, tu devi farmi favore - disse tutto d’un fiato.
- Io? - rispose la giovane, incredula, rallentando il passo.
Si alzò per andarle vicino, deciso a farle capire quanto la cosa fosse importante per lui:
- Io bisogno di permesso di soggiorno - disse - per questo devo fare pratiche, essere messo in regola. -
- Chiedi a mia mamma, lei è esperta di queste cose - rispose la giovane, cercando di allontanarsi per togliersi da quell’impaccio.
- No, aspetta. Tua mamma sa tutto, ma non completamente contenta di me perché devo occuparmi di ‘boschetto di Arianna’. Io cercato boschetto, ma non trovato… -
Per la prima volta vide un lampo di vita percorrere quegli occhi, un sorriso incresparle le labbra, prima di ricevere fredde disposizioni:
- Ho capito. Siediti là sul divano che arrivo subito. -
Omar si accomodò sul divano, cercando di indovinare quale indicazione avrebbe portato quello strano essere privo di attrattive.
Passarono alcuni minuti, poi il botolo informe rientrò.
Era nuda. O meglio, indossava  solo una canottiera color polvere e un boschetto di peli scuri sul sesso: una vera foresta, che non doveva aver mai conosciuto una depilazione.
Pensò che fosse impazzita per il caldo, ma la donna indicò con lo sguardo quella macchia scura e Omar finalmente capì; si portò le mani sul volto mormorando incredulo:
- Il boschetto di Arianna. Ecco cos’è… ma cosa dovrei farci? -
Arianna era arrivata attrezzatissima con creme, cerette e palette depilatorie, cerotti a strappo, rasoi manuali ed epilatori elettrici; depositò tutto l’armamentario sul tavolino, poi indicò il boschetto e disse:
- Sistema. Mamma vuole che tu sistemi il mio boschetto, come hai fatto con le piante. -
Omar rinculò spaventato:
- Ma io non so fare… non fatto mai… -
- Però tu hai visto altre donne depilate, no? Cerca di fare uguale - poi mormorò con tono confidenziale - è la prima volta che mi depilo, sai? -
“Si vede” pensò Omar, mentre cercava di orizzontarsi tra i vari strumenti.

Aveva temuto, o forse sperato, che la madre rientrasse in quel momento a porre fine a quell’assurda situazione. Ma non fu così. Dovette dunque cominciare a sfoltire la boscaglia per poi applicare la ceretta, avvisando Arianna che la striscia adesiva le avrebbe fatto male. Lei lo lasciò fare senza un lamento.
Dopo un’ora di sudore e di lavoro, il sesso della donna fece finalmente capolino dal fitto del bosco:
- Così mi piace - disse lei battendo le mani come una bambina. Poi, lanciandogli uno sguardo malizioso: - ma dentro non fai niente? Mamma ha detto di sistemare bene tutto, dentro e fuori. -
Dentro? Percepì improvvisamente la vicinanza del sesso femminile che, pur appartenendo a quel fagotto informe, risvegliò di colpo il gigolò che era in lui: la attirò a sé con decisione per ritrovarsi rapidamente dentro di lei.
Da quel giorno Omar non ebbe più pace. La ragazza, non più ragazza, aveva perso ogni ritegno e lo seguiva dappertutto, pretendendo prestazioni sempre più frequenti, nei rari momenti lasciati liberi dalla cura del giardino.
La sera, Omar si coricava distrutto. Mentalmente, rifaceva il conteggio scherzoso “il giardino dà fatica come quattro donne, Arianna altre tre. Totale fa sette: troppe, davvero troppe” concludeva con un sospiro prima di addormentarsi di schianto.
Aveva sperato che, in cambio, la padrona avrebbe rallentato il ritmo del lavoro in giardino, ma si sbagliava: Rosa lo seguiva come sempre, tutto il giorno, spronandolo non appena lui sembrava sul punto di cedere.  
Così Omar cominciò a deperire vistosamente, giorno dopo giorno, le occhiaie scavate e lo sguardo inquieto e sfuggente: non poteva andare avanti così. Sempre più frequentemente era scosso da un tremito alle gambe, mai provato prima.
Se ne accorse anche Arianna, che il suo amante stava perdendo vigore:
- Omaruccio mio, non puoi ridurti così, con tutto quel lavoro in giardino. Adesso Arianna tua ti prepara un bell’ovetto sbattuto; anzi uno zabaglione col marsala e poi ti mette subito a letto. -
La parola letto gli provocò un improvviso capogiro, accompagnato da un forte senso di nausea: già prevedeva che Arianna si sarebbe infilata anche lei sotto le lenzuola, con intenzioni non proprio riposanti.

Il sabato successivo la signora Rosa si stupì di non vederlo arrivare di buon mattino per ritirare la paga settimanale. Cominciò a cercarlo nel suo letto, in quello di Arianna, in giardino. Lo trovò infine steso sotto un albero, bianco come un cero e con gli occhi sporgenti dalle orbite.
Cercò di buttarla sullo scherzo:
- Che ti succede, Omar, sei morto? - sghignazzò, continuando subito con tono acido - ma guarda cosa mi tocca vedere, il giovane e aitante collaboratore che se la dorme beato in orario di lavoro. -
Lasciò cadere su di lui la busta con la paga settimanale, proseguendo con tono di sfida - Ora sai che faccio? Mi sdraio anch’io, qui di fianco a te: così vediamo come fa presto ad andare in malora questo giardino. -
Omar guardò stupefatto la donna che si sdraiava davvero, sia pure con fatica, al suo fianco e provò nuovamente quella sensazione di nausea fortissima, con l’albero che girava vorticosamente sopra la sua testa.
Per un attimo credette di morire. Respirò profondamente e raccattò le poche forze rimaste per rispondere, con lo sguardo mesto e la voce incrinata dalla fatica:
- Ma io finito tutto in giardino; anche boschetto Arianna sistemato. Quando permesso di soggiorno? -
La donna si chinò su di lui e lo guardò intensamente negli occhi. Omar rabbrividì al contatto prolungato della coscia flaccida di lei con la sua, notò lo sguardo insinuante, la voce improvvisamente torbida:
- Presto lo avrai, non essere impaziente. Sai cosa vorrei ancora da te? Che ti occupassi, poco poco, anche del boschetto antico. -
Fissò stordito quel volto appassito e trascurato, leggendo nel suo sguardo l’atto mancante alla pratica del suo permesso di soggiorno.

L’acciottolato del sagrato, di fronte alla chiesa parrocchiale, si prendeva gioco del carrello porta-bare, facendolo traballare, saltare, inciampare, con grandi difficoltà per gli addetti delle pompe funebri di cui si potevano intuire le imprecazioni pronunciate a bassa voce, tra un sobbalzo e l’altro.
Era uno spettacolo, quella bara che avanzava tra mille difficoltà con al fianco due vedove in gramaglie, o almeno così sembravano: una più giovane, tra i trenta e i quaranta, l’altra che poteva essere sua madre. Camminavano impettite ai due lati della bara, l’una con la mano destra e l’altra con la sinistra appoggiata sul feretro; sembravano non accorgersi dei continui inciampi che rischiavano di far ribaltare il carrello prima dell’ingresso in chiesa.
Bene o male, approdarono alla navata centrale dove avanzarono con passo marziale fino all’altare, le donne rigide come statue ai due lati del feretro.
Il parroco alzò le mani al cielo per iniziare la funzione, ma fu subito interrotto.
- Stronza, sei una stronza - sibilò la donna più giovane, volgendosi verso la madre, che finse di non sentire.
Allora la giovane rincarò la dose, alzando il tono di voce:
- Stronza e invidiosa. Non potevi lasciarlo a me che ne avevo il diritto, che era il mio primo uomo? Tu almeno, finché papà è stato al mondo... -
Don Lorenzo, il parroco, non era certo un campione di coraggio. Preparato a recitare la generica omelia di conforto, i soliti accenni alla vita vera che il defunto aveva testé intrapreso, aveva fatto appena in tempo ad iniziare il discorso quando le parole gli si erano spente in gola.
Ascoltava impietrito la giovane e si guardava intorno perplesso, mentre dai fedeli saliva un brusio sempre più forte, non tale però da coprire le parole delle due donne:
- Zitta, Arianna, non fare la stupida - aveva sibilato Rosa a sua volta - tu non sai cosa sono dieci anni di astinenza, da quando lui mi ha lasciato. E tutto per accudire te! -
- Ma proprio con lui dovevi interromperla, la tua astinenza? Non avevi notato com’era dimagrito, emaciato, consunto? -
- Brava: chi l’ha ridotto in quello stato? -
L’urlo della giovane lacerò le volte della chiesa, mentre si scagliava contro la madre puntandole l’indice contro:
- Tu l’avevi ridotto in quello stato, tu e i tuoi maledetti lavori in giardino. Non ce la faceva più a far niente. Neanche con me, ce la faceva più. -
- Con me ce l’ha fatta benissimo. Tre sole volte, ma alla grande. -
Il nuovo grido di Arianna risuonò alto davanti all’altare, mentre si avventava sulla madre:
- Stronza assassina… tre volte alla grande, ma alla terza ti è morto tra le braccia… o forse sarebbe meglio dire tra… -
- Cosa dici, scema, non ti permetto… - gridò questa volta la madre per interrompere quello sproloquio, togliendo la mano dalla bara e ponendosi in posizione di difesa. 
- Certo, ha esalato l’ultimo respiro mentre te lo godevi… -
Don Lorenzo, terrorizzato, alzò le braccia per invocare l’aiuto divino:
- Signore mio, perché non ho fatto il corso da esorcista? - si domandò mentre impugnava un crocefisso e lo agitava sopra le due assatanate, che nel frattempo erano rotolate a terra, rifilandosi unghiate e morsi e un intero dizionario di insulti.
- Dominus vobiscum - tuonò il prete nel vano tentativo di calmarle: le due si strappavano i capelli a vicenda scalciando da terra, finché un calcio dell’una o dell’altra non fece cadere la bara con un tonfo agghiacciante che rimbombò in tutta la chiesa, provocando un fuggifuggi generale tra urla di sgomento.
Al parroco non restò a quel punto che rifugiarsi in sagrestia, borbottando “Che scandalo, che sacrilegio, proprio nella mia chiesa” prima di estrarre il cellulare dalla tonaca e chiamare la polizia, che arrivò poco dopo a sirene spiegate.
I poliziotti corsero verso l’altare. I loro occhi faticarono, nella penombra della chiesa, a mettere a fuoco quella squallida scena: due donne laide che giacevano esauste, i segni della lotta ben presenti in graffi e lividi e vesti lacerate, due statue viventi dal respiro affannoso.
Con due boschetti in primo piano.




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