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lunedì 17 ottobre 2016

"Il segreto delle principesse", di Emma Fenu

Illustrazioni di Chiara Civati
Milena Edizioni, 2016
(Recensione di Ilaria Biondi)

Le origini della fiaba si perdono nelle nebbie sfocate di un tempo molto remoto, agli albori della storia dell’uomo.
Le fiabe in origine non erano concepite come una forma di letteratura per ragazzi: erano raccontate dagli adulti ed erano destinate ai giovani e ai vecchi. Narravano del destino dell’uomo, con le sue luci e ombre, con le sue paure e le sue speranze, nei suoi rapporti con gli altri esseri umani e con la dimensione misterica del soprannaturale. Una narrazione che, attraverso il piacere che sapeva suscitare negli auditori, sollecitava a meditare su questioni cruciali e trasmetteva insegnamenti fondanti.
Se ci affidiamo alle parole di Bruno Bettelheim, stimato esperto di psicologia infantile e fine studioso della fiaba tradizionale, è a tutt’oggi impossibile determinare con esattezza il momento e il luogo in cui fu pensata, immaginata e creata la prima storia che poi è andata sotto il nome di Cenerentola. È certo tuttavia che ne esista una versione cinese risalente a più di mille anni fa, versione che, secondo le indicazioni del suo narratore, certo Tuan Ch’eng-shih, risalirebbe a sua volta a una storia antichissima, tramandata di generazione in generazione.[1]


Le fiabe sono pertanto antiche.
Ma esse sono al contempo moderne, e per un duplice motivo: si continua a crearne di nuove e si continua a riattualizzare quelle tradizionali, ricreandole, “traducendole” con originalità, conferendo loro una veste nuova, che pur s' innesta su motivi e temi esistenti, a testimonianza della vitalità di questa forma d’arte unica, di cui l’uomo non può fare a meno perché essa risponde a bisogni inconsci universali (la necessità di proiettare le proprie angosce e la promessa di una liberazione finale in termini positivi che apre la strada alla speranza).
Parafrasando Italo Calvino, potremmo dire che una fiaba è una storia “che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”. Da questo “gioco”, che presuppone una conoscenza approfondita e un amore appassionato per questo genere letterario, oltre ad una capacità d’invenzione raffinata, possono sgusciar fuori delle gemme preziose, che si offrono in tutta la loro radiosa bellezza a chi voglia abbeverarsi alla loro fonte magica.
Se volessimo utilizzare una terminologia attuale, debitrice in parte del linguaggio televisivo e cinematografico, potremmo definire Il segreto delle principesse di Emma Fenu un sequel o uno spin-off della fiaba di Cenerentola.
Personalmente però, a questa definizione così pragmatica ne prediligo un’altra, che evoca quell’atmosfera da focolare che nel mio immaginario è indissolubilmente legata all’universo della fiaba: la storia raccontata da Emma Fenu rappresenta un ulteriore, preziosissimo anello, in quella catena ininterrotta di racconto (prima orale, poi scritto) che unisce e intreccia secoli e generazioni, e che costituisce un patrimonio culturale nel quale affondano le nostre radici e la nostra identità.
Cenerentola, nelle sue versioni oggi più popolari,[2] è una delle fiabe che più avvince i giovani lettori, condividendo questo primato con Cappuccetto Rosso. Nella lettura di Bruno Bettelheim Cenerentola affascinerebbe profondamente i bambini perché “parla delle angosce della rivalità fraterna, di desideri che si avverano, di umili che vengono esaltati, del vero valore che viene riconosciuto anche in una persona vestita di stracci, di virtù ricompensata e di malvagità punita.”[3]
La scrittrice Emma Fenu entra nelle pieghe della celebre fiaba e con sguardo acuto scova degli angoli bui, degli anfratti deserti, dove la storia rimane silente, dove la parola si arresta, dove il racconto non penetra. Ed è lì, proprio lì, che il suo fiuto birichino va ad infilarsi, per raccontare una fiaba diversa, una fiaba parallela. Un’altra delle fiabe possibili. La fiaba di Genoveffa.

Una storia, quella de Il segreto delle principesse, che sembra sulle prime parlare anch’essa di rivalità fraterna, invidia e gelosia:

«In verità, neanche lei voleva essere se stessa, poiché invidiava la sua famosa sorellastra: non sua sorella Anastasia, bruttina e spocchiosa quanto lei, tuttavia convinta di essere bellissima e buona, ma la figlia del suo patrigno.»

E che invece parla di una fanciulla che si “trasforma”, acquisisce sicurezza e prende coscienza delle proprie qualità, imparando a non specchiarsi nelle altrui virtù ma a conoscere e coltivare le proprie.
Una storia che decide di percorrere una strada laterale, marginale, non battuta, per lasciare spazio e parola a chi, nella fiaba tradizionale, gioca un ruolo secondario e per giunta scomodo, quello della cattiva.
Emma Fenu strizza con fare complice l’occhio al lettore (giovane, ma anche adulto!) e, pur ricalcando (almeno in apparenza) lo schema classico della fiaba di principesse, lo conduce in un mondo capovolto rispetto alla fiaba canonica, dove la contrapposizione recisa tra gli estremi opposti si stempera fortemente, dove le differenze sembrano annullarsi, dove i parametri e i valori di riferimento sono altri.
Decadono (finalmente, mi sento di dire!) «i binomi “Bella/Buona” e “Brutta/Cattiva” che non lasciano spazio alla coesistenza e alla dicotomia “Buono/Cattivo”, fondamentale per l’adeguato sviluppo psichico del bambino», come sottolinea nella sua piacevolissima e acuta Prefazione ai genitori che apre il volume la psicologa Tatiana Pagano.
L’autrice Emma Fenu sollecita il lettore a riflettere, a diffidare delle apparenze, a guardare oltre la superficie, che spesso si rivela un fallace e facile inganno. La scrittrice, con benevola e generosa ironia, scavalca con abile guizzo la proverbiale bruttezza di Genoveffa, se la lascia scivolare dagli occhi e inventa per lei una fragilità, una ritrosia, una insicurezza, una infelicità tutte umane che la riabilitano dal ruolo di malvagia che la tradizione le ha incollato addosso come una seconda pelle e che ci ha trasmesso e imposto con forza. È come se, mi si passi il termine, con moto di umana compassione, l’autrice scavasse nel cuore e nell’anima del personaggio da sempre bistrattato e si chiedesse il perché della sua ruvida cattiveria.
Scoprendo, dietro «il naso a patata, grosso e pieno di punti neri; i dentoni sporgenti; i capelli crespi e spettinati; il sederone cicciotto e i piedi… i piedi enormi», una bellezza sconosciuta. Imprevista. Insospettabile. Una bellezza del cuore e della mente. Una bellezza fin qui ignorata e taciuta, perché nascosta dietro un’apparenza che i comuni canoni designerebbero come “non gradevole”.    
Con moto non dissimile da quello del Poeta, anche Emma Fenu possiede uno sguardo stupito, che nell’ordine ovvio e quotidiano della cose sa vedere la bellezza lucente che si nasconde, si esilia e si sottrae.
Ne cattura il vero, eppur semplice, mistero:

«Ecco, dunque, il segreto delle principesse: la vera bellezza sta nel cuore e nel cervello e si manifesta nell’Amore

La “nuova” principessa di Emma Fenu ci invita pertanto, piccoli e grandi, a diffidare dei facili e banali stereotipi che incatenano il pensiero e rendono gracile il nostro sentire. Perché “non è tutto oro quello che riluce”:

«A dire il vero, Cenerentola neppure era mai stata perfetta: le si formavano sempre le bozze sui piedini ed era alta quanto Pollicino, ma era tanto buona, talentuosa e piena d’amore, come lo era diventata Genoveffa

Una fiaba gustosa, allegra e divertente, grazie anche alle illustrazioni morbide e avvolgenti di Chiara Civati. Una fiaba saggia che, in linea con la tradizione, rappresenta una forma di consolazione e di riscatto per il lettore (non credo di essere l’unica a essermi identificata con la goffa Genoveffa e di avere gioito, con lo scorrere delle pagine, delle imperfezioni della luminosa, dolce, buona e incantevole Cenerentola!) e gli offre al contempo spunti per riflettere, per crescere, per imparare.
Lo dimostrano, a chiare lettere, i commenti a caldo, registrati a fine volume, dei bambini di una terza classe elementare ai quali è stata letta la fiaba. Commenti che dimostrano quanto questi giovani lettori abbiano accolto la morale della fiaba, con disarmante e sincera profondità, facendola propria.
Ne valga uno per tutti:

«Dice che Cenerentola è bella, ma anche lei ha qualche difetto. Ma non importa quello che è fuori, ma dentro

Un esperimento alquanto significativo, che meriterebbe di essere ripetuto e ampliato. Personalmente vedo infatti in questo testo, che coniuga sapientemente tradizione e innovazione[4], rispetto dei canoni classici della fiaba e capacità di essere originale, piacere del narrare e intento educativo, un ottimo candidato per chi pratichi la lettura ad alta voce con i bambini, in contesti diversi ma ugualmente importanti: in biblioteca, in libreria, in ospedale e, naturalmente, nell’intimo tepore della propria casa. Si riannoda, in questo modo, con semplicità, emozione e naturalezza, quel cordone ombelicale mai spezzato con la tradizione orale, con il racconto attorno al focolare che rappresenta la prima, vera culla della fiaba.
Un altro aspetto essenziale de Il segreto delle principesse, che ulteriormente inserisce questa storia nella scia della fiaba tradizionale, è il desiderio di infrangere quella scomoda e artificiosa barriera che relega le fiabe nel ghetto di una letteratura “minoritaria”, destinata solo ad un pubblico specifico di destinatari, nel suo tentativo di parlare anche agli adulti su una questione cruciale per noi tutti:

«La fiaba è finita, il punto finale è un tatuaggio sul cuore. E Genoveffa mi manca già: le ho dato voce per sfatare l’atavico mito “kalòs kai agathòs”, ossia bello e buono, nell’accezione di virtuoso, che, soprattutto per le donne, ha portato, nel passare dei secoli, a un ideale sessista che identifica nell’aspetto fisico ed esteriore la dote femminile primaria, mettendo in secondo piano ciò che davvero ci rende unici, speciali e amabili, ossia l’intelligenza, il coraggio, la gentilezza, l’altruismo, la capacità di accettazione del diverso.         

La magia della fiaba si è compiuta e ancora si compirà. Il lieto fine di questa storia è solo il preludio di un’altra storia che ancora deve essere narrata e presto, forse, lo sarà. E noi la attendiamo con cuore e orecchi impazienti…

«Il mio non è un tentativo di accusa alla fiaba tradizionale, espressione d' identità e cultura popolare, che affonda le radici nell’albero vetusto e sempreverde del Mito, ma un omaggio a essa, cercando di dare voce a chi, per secoli, ha avuto troppe poche battute nel copione finale. La fiaba, in realtà, non è mai finita: non siamo mai sazi di storie, e una in più genera la voglia di un’altra ancora, in un racconto infinito.»

Dopo Vite di Madri e le Dee del Miele, Emma Fenu ci fa dono di un pezzo di scrittura diverso. Una fiaba. Ma identico è il sentire. Autentico. Appassionato. Impegnato. Teso a cogliere la necessaria verità e bellezza. La bellezza della verità. La verità della bellezza.
Qualunque sia il genere con il quale si cimenti, la penna di Emma Fenu è sempre convincente, ammaliante, aggraziata. Con tocco di piuma, che qui si vena di un bonario sorriso, solletica il pensiero. Coccola il cuore. Abbraccia l’anima.

Una fiaba, per sognare.
Una fiaba, per sperare.
Una fiaba, per capire.
Una fiaba, per imparare a cambiare.
Piccoli e grandi.

Sottraendosi alla tipizzazione caratteristica della fiaba, che affida ai personaggi l’incarnazione di valori e qualità, o viceversa di difetti e aspetti negativi, Emma Fenu, da raffinata esploratrice e conoscitrice dell’universo femminile qual è, crea con Genoveffa un ritratto di donna di grande interesse, viva e vera. Una figura che, con la sua ombra e luce, riflette una complessità e contradditorietà molto umana e, soprattutto, molto femminile.
  

[1]  B. Bettelheim, Introduzione in C. Perrault, I racconti di Mamma Oca, MI, Feltrinelli, 1993, cit. pag. 8.
[2] Le due versioni più note sono quella di Perrault e quella dei fratelli Grimm, che presentano importanti     differenze, pur essendo entrambe imperniate sul tema della rivalità fraterna.
[3] B. Bettelheim, Il mondo incantato, MI, Feltrinelli, 1976, cit. pag. 230.
[4] Originalissima, ad esempio, la scelta di affidare la voce narrante a un animale (il cavallo del “principe”).
  

   







  

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