!-- Menù Orizzontale con Sottosezioni Inizio -->

News

mi piace

venerdì 16 giugno 2017

La coercizione del bene

                 

Di Vincenzo Zaccone

                                                                                                           Alla reale G. a cui questo racconto deve tutto


Alastair e Jocey. Una coppia. Non conta se facciano sesso oppure no: lo sono nella misura in cui lo stare insieme crea un universo fatto di situazioni comuni, di scambi, di complicità. Si sono incontrati a teatro. Entrambi soli, senza amici che condividessero quel tipo di passione. Si erano ritrovati vicini stando in piedi nel cortile del Globe, a Londra, avevano scambiato qualche battuta. Avevano scoperto la passione reciproca per l'opera, erano rimasti in contatto, visti quasi regolarmente. Questi tipi d'incontri spesso seguono regole personali e difficilmente una comune, fino a che uno dei due, in genere il più emotivamente coinvolto, svela l'intenzione di voler qualcosa in più. E nello scoprirsi inerme di fronte a un rapporto impari s'impone un distacco che può evolvere in un nuovo equilibrio amicale, oppure finire nel nulla. Come se l'altra persona non abbia o abbia avuto un valore di per sé, ma solo in funzione di quello che avrebbe potuto offrire.
Jocey attendeva la rottura e le sue possibili conseguenze.
Questa sera di fine settembre, s'incontrano all'ingresso della Leighton House.







Londra ha già voltato le spalle a giornate smaglianti, irretite da un sole ancora estivo, che ormai tramonta presto e presto lascia spazio al buio, all'incalzare di un autunno inglese fatto di grigio,  vento e desolante stupore e bellezza. Quando Jocey arriva davanti all'ingresso della casa-museo, Alastair è già lì ad aspettare, con gli auricolari nelle orecchie e la musica ad alto volume. Come al solito ha un intenso e dolce profumo addosso, la pelle ancora scura per la recente vacanza al mare, la guarda dritta negli occhi, con uno sguardo vivace, contento, accogliente, di chi stava aspettando proprio lei. Di una costanza e pertinacia che mette Jocey a disagio, quasi a esigere una presenza emotiva da parte sua, alla quale lei non riesce a rispondere. Lei è presa in contropiede, sempre, da quell'attenzione, da quell'essere vista. Un decentramento da sé che non sa gestire, per una situazione che le risulta emotivamente nuova e se ne sottrae parlando d'altro:
-          Bella la tua vita! Hai ancora la pelle bruciata dal sole.
Lui ride spiegandole che tornato dalle vacanze ha iniziato a fare qualche doccia solare per mantenere l'abbronzatura. Intanto entrano. Alastair vuole pagare il suo biglietto, è il suo modo di farla sentire accolta. Lui è del tutto presente a se stesso: non ci sono interruzioni tra quello che sente e quello che fa, esterna il suo piacere nel vederla nell'entusiasmo di gesti e di sguardi, che non hanno un pensiero pregresso, una strategia relazionale: è del tutto onesto con sé e, quindi, con lei. Jocey si distacca dalla scena, si allontana da quell'attenzione, da quella richiesta, vive il disagio di farsi accogliere come se quello implichi dover dare qualcosa in cambio e in quello scambio l'amicizia non sia abbastanza. E si sottrae, si sottrae ancora, parla dello spettacolare ingresso, in stile orientale, degli smaglianti mosaici, addita la fontana in marmo che si apre come un buco nero nel pavimento e la volta a cupola con parole arabe inscritte nelle pareti laterali e rilievi dorati che rispecchiano lo stile a cui si rifanno. Jocey continua a essere impersonale e scherza:
-    Ma che gusto un po' pacchiano però, con tutto questo oro, cuscini e fiori dovunque. Io non ci abiterei in una casa così!
Ridono, ridono insieme, e continuano a guardarsi intorno, ad andare in giro per le stanze appartenute all'artista morto a metà del XX secolo. La casa trasuda passione per il bello, nella collezione di quadri che riempie gli ampi spazi, negli oggetti esposti nelle stanze, nei mobili antichi di legno intagliato,  nel senso di magnificenza che si respira dovunque. Il concerto jazz ancora non è iniziato, loro ne approfittano per dare un'occhiata alle stanze e a quello che vi è esposto, dai quadri dipinti dall'autore stesso a quelli semplicemente posseduti, alle statue, agli oggetti di vasellame, ai libri antichi e agli antichi scrittoi. Ovunque ci sono colori caldi e spenti, come il ricordo di un antico affetto, ormai sbiadito, o il memento di una passione che non si è mai accesa.
 Nell'ampio salone che dà accesso al giardino, un tavolo è imbandito per servire del vino. Lei prende
un calice di bianco, lui di rosso, si dividono, nella stanza, lei si avvicina all'enorme porta-finestra che dà sul giardino. Quel giorno è piovuto, non vi si può accedere. Lei osserva oltre i vetri, cerca di guardare con attenzione a quella natura senza luci, mentre regge il suo calice. Il tramonto si sta consumando e gli ultimi residui di chiarore rimangono trattenuti nei rami che non lo lasciano filtrare nel giardino. C'è una casa dalla parte opposta, di cui i contorni si perdono nell'ombra, solo con due finestre illuminate. Sembra un quadro di Magritte, con la netta distinzione tra il mondo immerso nel buio e quello che vive nel riverbero, in una dicotomìa di colori e sensazioni, che coesistono. Jocey lo nota, resta intrappolata in quell'immagine di vita che si staglia altrove, oltre il vetro, guarda alle luci nella casa di fronte, al sentore di una vita che esiste e brama e arde. Altrove. Lontano, al di là di quella finestra, dove accade e finisce, in silenzio; percepita ma non sentita. Come un quadro, appunto, alla cui vita si attende, dall'esterno. Come Jocey fa con la sua immagine riflessa nel vetro.
Alastair si avvicina, la desta, le dice che il concerto sta per iniziare al piano di sopra, che tutti si avviano al grande salone. Loro fanno lo stesso. La tromba delle scale è immersa in un blu scuro, opaco, che tinteggia le pareti intorno. Un enorme quadro della Creazione di Michelangelo campeggia su una delle pareti e al piano di sopra tutto sembra partecipare dell'attesa: ragazzi, uomini e donne si introducono nell'ampio salone e prendono posto seduti su panche di legno e poi per terra, in piedi, poggiati di fianco ai quadri del secolo precedente, tutti riuniti per l'inizio del concerto. Alastair è in silenzio, non la guarda, lei si chiede se sia lì per farle compagnia o per un interesse reale per la serata. C'è qualcosa in lui che non sa di lei, che non la vede, quindi non la conosce. Qualcosa per cui la ama, ma di quell'amore che ne vuole altrettanto in cambio. E quella disponibilità nell'essere un compagno a quel concerto, quello sguardo negli occhi, sono l'esigenza di un'attenzione, sono il pegno di una presenza che si aspetta in cambio di non rimanere sola. Che prescinde da quello che l'altra persona è.
Entrano nel grande salone, sono già seduti ad ascoltare. La musica inizia, si spezza nell'aria come i ricordi cui sembra additare. Il piano, il violoncello, la tromba cominciano a suonare. I due ragazzi iniziano di nuovo a guardarsi intorno; mentre ascoltano, ammirano le decorazioni dei camini, le statue esposte su un tavolo vicino a una delle finestre, gli antichi mobili. La musica continua per più di un'ora, Jocey e Alastair intanto bevono il loro vino, scambiano qualche battuta e osservazioni sulla musica. A un certo punto lui va in strada a fumare una sigaretta. Lascia che la musica suoni per lei, per lei sola. Lui in qualche modo non è partecipe di quello che succede. È partecipe di quello che vuole.
C'è qualcosa di stanco in quella casa, qualcosa di già sconfitto, di assente, che non esiste più, che è venuto meno per qualche motivo. C'è qualcosa di avvilito, nei pavimenti che sembrano voler cedere a ogni incombere di passi, nel colore spento delle pareti, nelle cornici dei quadri di un dorato opaco, nella musica della tromba che strazia il silenzio.




Alla fine la musica si spegne, tutti vanno via, Alastair e Joyce si trovano a camminare per le strade di South Kensington, nel vento. Fa freddo, il cielo è terso, è una notte di luna piena e, accanto, le stelle del triangolo estivo sono l'ultimo ricordo della stagione che sta per terminare. Alastair propone di rimanere a cena fuori, un ristorante thailandese lì vicino. Jocey è stanca dalla giornata, dalla settimana, ma non riesce a non sentire quella voglia che lui ha di non far finire la serata. Sente il desiderio di cenare con lui e allo stesso tempo che quel sentimento non è del tutto suo, è indotto, nasce dall'affetto che prova per lui e dal non riuscire a non sentire quello che lui vuole. La chiamano empatìa, ma come tutte le emozioni è utile solo quando sotto controllo. Ma a lei va bene, perché nel rapporto di amicizia che li lega scendere a compromessi fa parte della relazione. Sente di non voler frustrare quell’aspettativa, in maniera sincera, perché gli vuole bene.
Mentre raggiungono il ristorante chiacchierano; lui dice:
-           La scorsa notte ho dormito male, ho fatto un brutto sogno e poi non sono più riuscito a riaddormentarmi. Ero sveglio già alle 6.30 del mattino!
-           Uhm, interessante! E cosa hai sognato? - chiede Joyce.
-           È un sogno ricorrente fin da quando ero bambino. Sogno  di essere per le strade del mio paese, giù in Essex, ed esco per comprare qualcosa. Lungo la strada incontro molte persone che conosco, ma non ci rivolgiamo la parola. Poi a un certo punto le strade iniziano a bruciare, io mi guardo intorno e non vedo più nessuno, né riesco a orientarmi per tornare a casa. Continuo ossessivamente a guardarmi intorno, senza sapere cosa fare esattamente… e mi sveglio in ansia!
-           Fico! Ci piacciono i sogni.. .soprattutto quelli ricorrenti e ansiogeni – dichiara lei, interessata.
-           Sì, guarda belli che non so dirti quanto! - risponde lui, non sicuro se lei stia scherzando o no.
-           Ma sì, perché evidentemente è un pensiero di cui non riesci a liberarti. Come una coazione a ripetere, un'esperienza pregressa che “metti in scena” per cercare di venirne a capo, di elaborarla.
-           Tu dici?
-           Beh, scusa, altrimenti perché dovresti continuare a tornarci sopra? Ma dimmi, dimmi, che idea ti sei fatto del significato del sogno? - chiede lei entusiasta.
-           Ti dirò, in realtà nessuna! Perché comunque non mi ci sono mai soffermato più di tanto a pensarci.
-           Allora lo possiamo fare adesso noi. Non riesci a fare nessun tipo di associazione mentale rispetto al sogno?
-           Di che tipo?
-           Qualsiasi tipo. Per esempio fare delle associazioni mentali su quello che la strada infuocata può rappresentare per te o quello che rappresenta il tuo paese può aiutare a capire di cosa parli in realtà.
-           No, guarda, ogni volta che lo faccio mi crea talmente disagio che mi rifiuto poi di pensarci –risponde asciutto, e dal tono si capisce che è realmente infastidito dall'idea di doverci ripensare seriamente.
Lei lo percepisce e decide di lasciarlo in pace:
-         Ma è proprio per quello che continui a fare questo sogno. Vabbé, comunque... - cercando di  cambiare discorso -  invece io un paio di notti fa ho sognato di uccidere mia nonna! - e ride della faccia che il ragazzo fa.
-         Ma sul serio?
-         Sì, giuro, non ricordo bene ma mi sembra che l'abbia sgozzata o qualcosa del genere.
-         No, ma bello anche il tuo sogno! -  dice Alastair, ridendo.
-         Sì, devo cercare di capire mia nonna cosa rappresenta per me, quindi cosa ho veramente ucciso. O chi…
-         Magari il sogno vuole dire semplicemente che non vuoi diventare vecchia! - dice Alastair, tranciando il discorso.
Joyce vorrebbe andare avanti e approfondire il discorso, sarebbe curiosa parlandone con lui di arrivare all'associazione mentale giusta, ma lui guarda già altrove, non aggiunge nessuna domanda; è in momenti tipo quello che lei si chiede quale tipo di scambio ci possa essere con lui. Oltre la passione per musica e teatro.
Intanto arrivano al ristorante, si siedono.
Lui sembra contento di essere lì a cena insieme, commenta il posto, lo trova accogliente, le domanda se a lei piace; lei annuisce. Mentre aspettano di ordinare Jocey inizia a parlare di lavoro, dice che ne sta cercando un altro, che non si trova bene con l'azienda per cui lavora al momento. Gli espone i suoi dubbi su come organizzarsi a cambiare, sull'eventualità di dare già la disdetta o aspettare. Gli parla di un paio di annunci che ha visto e ai quali ha risposto. Lui nel frattempo sembra distratto, sembra pensare a qualcosa d'altro, guarda attorno, ogni tanto lascia andare un “sì” tra l'assertivo e l'interessato che appare per quello che è: qualcosa d'altro dall'essere mentalmente presente al discorso.
Lui è presente a se stesso, sente quello che vuole, lei si osserva e semplicemente sa quello che vuole. L'uno abita il proprio corpo e percepisce le proprie emozioni, l'altra vive ritirata nei chiostri della sua mente e da lì considera cosa è meglio o giusto per sé. Nel suo sentirsi lui è egocentrato, vuole bene perché ne vuole in cambio, un affetto arelazionale che si cura dell'altro nella misura in cui ne ha un ritorno attentivo. Uno scambio egoistico, teso all'ottenere. Tutti i rapporti lo sono. L'importante è esserne consapevoli. Almeno a tratti.
Lei è sul polo opposto di relazione, per come le è stato insegnato: protesa verso l'altro, capace di sentirlo più di se stessa, intuire quello che lui vuole e percepirlo come una sua volontà allo stesso tempo.
Lei capisce, interrompe il discorso che gli sta facendo, senza che lui se ne accorga, si sente quasi in dovere di parlare d'altro, di fargli domande, riportare l'attenzione su qualcosa di cui a lui importi.
Intanto Alastair ha iniziato a scrivere qualcosa sul suo smartphone e dice:
-         Scusa ma ho scaricato quest'App che ti consente di calcolare il tuo fabbisogno energetico giornaliero, in base alla tua età, al peso, alla tua attività fisica.
-         Cavolo, utile! E quindi cosa stavi scrivendo? - chiede lei per dargli corda.
-         Sto segnando i piatti che ho ordinato così mi dà il calcolo della calorie contenute nel pasto e mi dice poi domani quanto devo mangiare o non mangiare per bilanciare le calorie di oggi! - spiega lui mostrandole la schermata del telefono. Lei ride di questa cosa, in qualche modo si sente sollevata dalla leggerezza del discorso. Poi inizia un discorso che riguardi tutti e due:
-         Alla fine sono andata a vedere Il Barbiere di Siviglia! Non ne abbiamo ancora parlato -  esordisce.
-         É vero, non ci siamo visti dalla scorsa settimana. Allora cosa te n'è parso?
-         Bellissimo! Quando l'orchestra ha iniziato a intonare l'Ouverture ho provato una sensazione fortissima ed è stato incredibile il fatto di riuscire a percepire il suono dei violoncello in mezzo a tutti gli altri strumenti. Mi ha emozionato davvero! - dice lei entusiasta.
-         Sapevo ti sarebbe piaciuta quest'opera, l'ho sempre trovata molto coinvolgente.
-         Sì, è vero è molto divertente e poi avevo letto il libretto prima della serata, quindi ero molto curiosa di vedere come le musiche avrebbero accompagnato le parole.
-         Tra l'altro Rossini è famoso per il suo crescendo rossiniano, appunto, e anche per aver introdotto l'uso di un italiano meno aulico nell'opera e comunque i suoi soggetti sono per lo più buffi, come ne Il Barbiere di Siviglia.
-         Infatti, il problema è stato quello, cioè il fatto che il tema dopo un po' non mi trascinava più, perché preferisco soggetti più drammatici, più intensi. Tre ore di opera su un soggetto così frivolo dopo un po' mi hanno stancata. Anche perché anche la musica, ovviamente, ne rispecchia lo stile e quindi è altrettanto leggera. Insomma, dopo un paio d'ore per me era abbastanza – spiega Jocey sorridendo.
-         Ma tu devi venire assolutamente con me a vedere Il Trovatore di Verdi! Son convinto ti piacerà di più.
-         Non l'ho mai visto in effetti; credi mi possa piacere? - chiede incuriosita.
-         Senza dubbio! Ci sono delle frasi bellissime e Verdi risente molto del Romanticismo wagneriano.
-         Uhm, sono curiosa...
-         A un certo punto Leonora, riferendosi al conte De Luna che ha imprigionato il suo amato Manrico, dice “Mira, di acerbe lagrime spargo al tuo piede un rio: non basta il pianto? Svenami, ti bevi il sangue mio. Calpesta il mio cadavere, ma salva il Trovator!”.
-         Sì, sembra proprio un'opera che fa per me -  risponde entusiasta, Jocey.
Lui sorride, ma di un sorriso diverso, non divertito ma riflessivo. Aspetta un attimo, poi ne spiega il perché. Dice:
-         Trovo affascinante l'idea di amare qualcuno così tanto da essere disposto a morire per l'altra persona. Un amore così forte da farti dimenticare la paura della morte, amare così tanto da non sentire più quello che tu sei o quello che temi.
-         Dici sul serio? Credi che un amore del genere possa avere un senso al di fuori di un libro o di un'Opera?
-         No, certo; nel senso che un annientamento così totale è qualcosa che non appartiene alla natura umana. Dico solo che mi affascina l'idea di un amore così totalizzante.
Lei distacca gli occhi, per un attimo ripensa alla serata, alle dinamiche che ne hanno mosso i fili, al motivo per cui è seduta lì a tavola piuttosto che a casa a riprendersi dalla settimana intensa o a cercare lavoro. Per un attimo le torna in mente il passato, quel comportamento acquisito di percepire quello che le succede intorno, le dinamiche che lo agitano e in quel contesto perdersi, non sentirsi più, per cercare il migliore modo per relazionarsi agli altri.
-        In realtà credo che questo tipo di rapporti possa anche esistere, ma li considero del tutto morbosi e insani. Perché amare qualcun altro a discapito di te stesso credo che comunque fallisca il senso dell'amore – afferma Jocey risoluta.
-        Ma sì, senza dubbio è un'esagerazione. Però è anche vero che quando t’innamori sul serio di una persona, soprattutto all'inizio, sei talmente coinvolto che, di fatto, non percepisci più le tue esigenze come in condizioni normali, ma inevitabilmente senti più l'altra persona che te – replica, Alastair.
Lei si ferma un attimo a pensare, valuta un punto di vista che suona come ragionevole, poi ritorna su se stessa ed esterna:
-        Credo che l'abilità di amare consista anche nella capacità di “uscire” da sé e capire il partner ma poi riuscire a “tornare” in sé e sentire anche quali sono le tue esigenze in quel momento. Così che il rapporto possa essere un compromesso tra te e l'altro e non un abbandonarsi per vivere della vita dell'altro, che sia un noi in cui si è entrambi presenti. - S'interrompe lei, fa una pausa, pensa, senza guardarlo, poi ricomincia:
-        Perché l'amore è così: un pendolo che oscilla tra l'egoismo e l'accoglimento dell'altro, così come tra il sadismo e il masochismo, un sentimento che vive di eccessi e di equilibri che poggiano su tutte le sfumature che stanno in mezzo a essi, ma instabili, che continuamente si spezzano per diventare altro, e altro ancora. Dipendentemente alla persona che s'incontra e al periodo della propria vita.
Alastair non risponde subito, capisce che sta parlando di qualcosa di personale, non di un concetto generico; percepisce che dietro quella consapevolezza non c'è la teoria di qualcuno che sta astraendo sul momento, ma c'è l'amarezza della pratica, c'è un vissuto patìto più che agito, c'è il dolore di non volersi più riavvicinare. E decide di darle una mano a non farlo.
-        Allora quando andremo a vedere Il Trovatore, non appena Leonora finisce l'aria, alzati in piedi e tira giù un casino, urlale che è una sfigata! – irrompe Alastair, con una risata fragorosa.
Jocey scoppia a ridere anche lei e gli dà corda:
-        Facciamo come le bische clandestine, i tavoli da ribaltare non ci sono ma tipo tiriamo un petardo e scappiamo!
Il discorso si perde in mezzo a mille altri, l'atmosfera si rasserena, lei è di nuovo rilassata, lui di nuovo perso nel pensare alle sue questioni. Finita la cena si alzano, escono, il vento non ha smesso di soffiare, la Luna si è persa oltre i comignoli di qualche palazzo. Si fermano a fumare vicino a un lampione, in mezzo al fragòre dello stradone che porta alla fermata di Earl's Court.
Lo sguardo di lei torna a incresparsi, a turbarsi improvvisamente, di nuovo. Come se una strana associazione mentale l'abbia percossa. Alastair se ne accorge; lei, questa volta, non si accorge di lui e pensa, riflette su quanto sia assurdo il discorso fatto da lui nel suo contenuto e anche se riferito al suo atteggiamento durante la serata. Jocey inspira profondamente e decide improvvisamente di parlare. Lo fa come se la cosa non la riguardasse, come se non la riguardasse più. Parla di quello che le è successo, molti anni prima, con il suo ex fidanzato.
-        Sei anni fa ero fidanzata, non è andata avanti per molto, ma ero davvero innamorata. Lo eravamo entrambi. Ci siamo conosciuti ed è stato un inizio intenso quanto imprevisto, coinvolgente, trascinante e disarmante, in qualche modo. Sono stati mesi complicati quanto entusiasmanti, in cui lui ha affrontato anche dei duri colpi famigliari, la decisione di sua madre di cacciarlo di casa dopo un furente litigio, la perdita del lavoro. E, come al solito, i momenti di entusiasmo iniziale poi si decimano, si arrendono alla realtà, e viene fuori il peggio di ognuno. Anche perché è proprio nelle relazioni più intime che si riversano i sentimenti più forti, le persone più emotivamente vicine diventano surrogato, nel bene e nel male, degli altri personaggi della tua vita. É come la tecnica delle Costellazioni in psicoanalisi.
-        Cosa intendi? - chiede Alastair.
-        Hai notato la scritta in latino che c'è nel Globe? Dice “Totus mundus agit histrionem”, era il motto di Shakespeare e la sua compagnia. Ed è vero, tutti quanti recitiamo un ruolo, indossiamo una maschera che ha una funzionalità sociale ed è anche una corazza che ci protegge. A volte la indossiamo anche nella vita privata, perché quando ci sono dinamiche del passato che non si superano, allora preferiamo non guardarle e agiamo sulla base di schemi acquisiti, appresi, a volte subiti, tanto da non sapere chi siamo veramente.  - Si interrompe -  Dopo alcuni mesi ho capito quanto fosse subdolo, quanto cercasse di tenere ogni situazione sotto controllo e quindi anche me, il nostro rapporto.
-        Ti seguiva quando uscivi? Ti controllava il telefono?
-        Forse anche quello, non so. Il punto è che anche quando banalmente si litigava, lui non era mai schietto, cercava di raggirarmi, di inventarsi motivazioni false per agire sul mio senso di colpa e spingermi ad assumermi la responsabilità delle questioni che sollevavo, oppure, se non voleva che facessi qualcosa, non era mai diretto ma inventava situazioni e motivazioni per cui era meglio non fare quella cosa. Quando ho capito quello che continuamente faceva, mi sono sentita tradita e ho capito in maniera distinta di non potermi fidare di lui, che non avrei potuto più farlo. Gliel'ho detto. Gli ho detto questo e che quindi era finita. Lui non l'ha mai accettato, ha cercato di farmi riavvicinare in ogni modo, tra ragionamenti, abbracci, promesse, attenzioni; ma io non sono più riuscita a tornare da lui.
-        Era del tutto finita – commenta, rafforzando, Alastair.
-        Sì, con la fiducia è venuto meno tutto, per me. Poi una sera era venuto a casa. Non era ubriaco, era solo lucidamente folle, furioso, ferito dal mio atteggiamento. Appena ho aperto la porta e l'ho guardato negli occhi ho capito: non mi perdonava per averlo rifiutato, per non avere capito le motivazioni che lo avevano spinto a comportarsi in quel modo con me, m'incolpava di aver deciso di andarmene senza considerare che lo lasciavo da solo e in quel particolare momento della sua vita. Quando ho visto i suoi occhi e quella cattiveria, quella sera ho visto davvero lui, l'ho incontrato, oltre tutto quello che poteva essere negli stati stuporosi indotti dall'amore, oltre quel fingere il ruolo da brava persona, che giocava anche con se stesso, oltre tutte le belle parole.
Alastair la guarda, corruga la fronte, socchiude gli occhi in aria interrogativa, aspetta che dica altro. Lei lo dice:
-        Subito dopo essere entrato, mi ha afferrato violentemente, sbattuta contro il muro. Mi guardava negli occhi, non parlava ma sentivo il respiro infuriare dalle sue narici allargate, dai suoi denti digrignati. I tratti del viso erano contratti, completamente trasformati, trattenevano a stento qualcosa di più furioso. E io lo percepivo addosso, contro il mio corpo, il mio viso, sentivo la minaccia di qualcosa che non è fisico, non solo, ma è l'incutere sensazioni così forti ed eccessive che non te ne libererai più. Sentivo sulla pelle la violenza che si stava consumando per il semplice fatto che lui avesse deciso di agirla, e non solo perché io non ero in grado, in termini di forza, di difendermi. Una brutalità aumentata dal tradimento inferto da una persona che avevo amato, e dalla dimostrazione che la persona che ti ama può anche volerti distruggere. Che l'amore e il desiderare la morte dell'altro, una non-vita oltre a sé, accadono insieme, coesistono: Eros e Thanatos.
Alastair tace, non sa cosa dire, né se lei abbia smesso di parlare. La guarda, ma lei non ricambia e prosegue:
-        Poi mi ha afferrato per la gola, con una mano mi ha dato un pugno nello stomaco per levarmi le forze, mentre con l'altra mi teneva sospesa per il collo contro il muro. Io lo guardavo fisso negli occhi, non ricordo altro. Credo di averlo scrutato, mio malgrado, con sguardo incredulo, incredula che tutto quello fosse possibile. Percepivo il suo respiro spasmodico e rapace, altèro e volitivo, ossessivo e possessivo. Folle. Io non sentivo, non sentivo più, ero preda di azioni che non riuscivo a concepire, quindi ad anticipare, a combattere, né avevo l'energia per farlo. Non riuscivo nemmeno a pensare o capire se stavo per morire o sarei sopravvissuta.
Alla fine lui ha preso la scelta che gli avrebbe dato una soddisfazione più duratura: aveva un  cacciavite con sé. Mi ha stuprata con quello, fino a farmi perdere i sensi e risvegliarmi nel sangue. -
Lei non piange. Non piange più. É calma. Il ricordo emotivo di quanto successo è ben nascosto in qualche angolo di se stessa con cui lei non può né vuole entrare in contatto. Racconta di quello che è successo e di quello che non succederà più. Come se non la riguardasse in prima persona. Non c'è un totale accesso al ricordo, lei non ha memoria di come sono andati esattamente i fatti.
Quella sera, Lui bussa ripetutamente, dice che ha bisogno di parlarle. Lei apre e lui le sbatte la porta addosso facendola indietreggiare. Lui entra deciso, ghigna, la guarda con furore, lei capisce, vede i suoi occhi evidentemente alterati e che non sanno perdonare, sa che quello che vedono in lei non è un essere umano ma qualcuno che cerca di abbandonarlo e che non vuole ascoltare le sue ragioni: lei è un oggetto cui dare indietro il male subìto, che al di fuori della vita con lui non ha valore. Jocey cerca di voltargli le spalle e correre in camera sua, lui l'afferra, la blocca, serra la mano contro il suo collo, le da un pugno nello stomaco per levarle le forze e con la stessa mano la sbatte contro il muro e la solleva per la gola. Inizia a stringere, lei annaspa, spalanca la bocca alla ricerca di aria, graffia con le mani le sue per cercare di liberarsi ma la forza diventa sempre più debole, non sente più il suo corpo, lui lo percepisce cadere sotto la forza delle sue mani, quindi allenta la presa, la fa inspirare, la fa contorcere dal male, al secondo ampio respiro lui la soffoca di nuovo, stringe e allenta, la sbatte ancora contro il muro e la bacia, le si riversa addosso e la guarda negli occhi, le respira in faccia e ansima, le serra la gola, guarda Jocey con violenza, la osserva collassare sotto le sue mani e per sua volontà, lei socchiude le palpebre per il male e si lascia cadere, lui si avvicina contro la sua faccia, Jocey sente il suo respiro furente, sente allentare la presa per lasciarla respirare, lasciarla resistere e prolungare la propria eccitazione. Lui apre piano la mano e poi con le dita cerca ancora le vertebre del suo collo, lei respira violentemente e si dibatte, cerca di allontanarlo con le braccia, ma sono prive di energie. I suoi polpastrelli cercano la pelle, fremono e la tormentano, si nascondono dietro i suoi capelli e si avvinghiano improvvisamente, ancora, e di nuovo ancora, mentre si avvicina istintivamente al suo corpo che cede sempre più, vinto dallo spasmo delle sue mani che si contraggono e si allentano, la lasciano andare e poi la riafferrano, la guardano arrendersi e godono del suo tentativo vano di opporsi, le fanno capire che il suo accesso alla vita e alla morte dipendono da esse. Lui poi stringe fino a quando la pelle di Jocey non si irrigidisce e diventa rossa come per dover esplodere,  poi lascia per poco la presa per concederle fiato, per farla piangere e resistere ancora, fino a sentire i suoi muscoli che riacquisiscono forza e cercano di opporsi, e quindi lui ricomincia a strangolarla, a sopprimere il suo istinto di sopravvivenza. Allenta e contrae, ancora e ancora, e la trascina lungo il corridoio strattonandola per la gola, la scortica con le unghie, le sbatte la testa contro il pavimento; sente la sua giugulare pulsare forte, in maniera convulsa, gonfiarsi, vede i suoi occhi ingrossarsi dentro le orbite, iniettarsi di sangue, il respiro diventare affannoso e poi pian piano sempre più debole e risolversi in un colpo di tosse quando l'aria comincia ad arrivare violenta nell'attimo in cui lui lo permette. La guarda fissa negli occhi terrorizzati e vinti e ne gode. Le dice chiaramente che non ci sarà altra vita dopo di lui. Si distende sopra di lei e la ricopre con il suo corpo per percepire distintamente che la situazione è sotto il suo controllo. Le sottrae l'aria fino a intorpidirla. Nel frattempo le strappa i pantaloni con il cacciavite, lo ficca negli slip, come se la stesse scopando. È un cacciavite a punta corta; il suo intento non è quello di ferirla a morte. Il suo piano è lucido, non è la risposta a un raptus ma una volontà maturata, sentita, pianificata e agita. Lui si muove in maniera spasmodica, ansima, gode nel violentarla in quel modo, di quel potere assoluto che lo fa inturgidire. Continua a infilare il cacciavite e a strapparlo via, sempre con inclinazioni diverse, va avanti a fenderlo mentre le sue mani si erano aperte abbastanza da ammirarla accartocciarsi, obnubilata dal dolore, devastata dalle sue intenzioni, annichilita da quello che la vita possa essere. Lei non sente più nulla per il male, è completamente dissociata da se stessa, in preda all'intensità fisica con cui quel peccato si consuma. Snaturata da quell'orrore. Per sempre. Lui non si ferma, la stupra con il cacciavite, fino a penetrarla a fondo e rigirarlo nelle sue viscere, contro le pareti interne così da farne un indistinto insieme di brandelli e sangue.
Lei non ce la fa più poi, il dolore è così acuto da doversi assentare anche fisicamente: sviene. Lui eiacula.
Si era poi svegliata nel suo sangue, con la faccia in giù mentre il respiro increspava quello specchio rosso. Era tornata in sé con una sensazione di debolezza e anche di impotenza, che non si sarebbe più levata da dosso. Come i segni di quanto accaduto.
-        Adesso le mie mucose non sono che cicatrici, indurite, dolenti, insensibili. -  Aveva ripreso a dire Jocey - Non riesco più ad avere un rapporto sessuale o averne la voglia, perché mi fa male e basta. E non sento, non sento nulla. Sento come se le persone non possano entrare in contatto con me, e non debbano nemmeno. Sento che io non ci riuscirei più. Di tutto quello che è successo è rimasta un'impossibilità fisica di entrare in contatto con qualcun altro, che è concretizzazione di un sentore distinto.
Lei un giorno scriverà di questa serata. Scriverà di quello che le è successo. Ed è qualcosa che dà un valore a tutto, dà un senso oltre l'insensata contingenza di episodi che possono essere ilari o tragici, ha un valore che va oltre la transitorietà della vita. Oltre i suoi momenti d'intensa felicità. E il suo estinguersi prematuro.
Alastair è ammutolito da quello che ha ascoltato, dal suo passato, da quello che lei può essere diventata e non riesce ad avvicinarsi. Lui la ama, di un amore che si nutre di se stesso più che di quello che l'altra persona è. Quindi non è innamorato di lei.
Lei lo potrebbe amare ancora di quell'amore che è perdersi di vista, che non si sa prendere cura di sé, che non è disposta più a provare. Quindi non lo amerà mai.
Senza dirsi nulla si avviano verso la stazione della metropolitana. Lui prende la Piccadilly Line, lei la District.
Succederà che si rivedranno e che non si incontreranno più. Ma continueranno a condividere passioni ed esperienze, a preservare il loro universo.




6 commenti:

  1. Come il vino migliora invecchiando cosi col passare del tempo i tuoi racconti aumentano di spessore. Leggere i tuoi pezzi e' sempre un'esperienza forte e soprattutto mai convenzionale. La terminologia adottata e' sorprendente cosi come la capacita' di creare personaggi complessi in un arco narrativo relativamente breve. Hai mai pensato di scrivere un romanzo?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie mille, davvero un bel commento. Credo che scrivere un romanzo sia l'idea più o meno inconscia d tutti quelli che scrivono dei pezzi. Anche solo per il piacere di farlo. Vedremo.
      Grazie ancora

      Elimina
  2. Sono daccordo, leggere i tuoi racconti è sempre un'esperienza emozionante. Juanito.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ciao Juanito, grazie mille anche a te per l'apprezzamento.
      Un saluto. Vincenzo

      Elimina
  3. Ho letto i tuoi precedenti saggi. E questo racconto conferma che sei molto bravo "di penna". Dedicati un po' più spesso a questa attività. C'è tanta "fuffa" in giro, e leggerti è sempre un gran piacere.
    M

    RispondiElimina
  4. Ciao M.
    È davvero un bellissimo commento, nonché uno grande sprone. Grazie mille! Conto di scrivere presto un articolo su Twin Peaks.
    Vincenzo

    RispondiElimina