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venerdì 3 aprile 2015

Gladys

di Annalisa Petrella

Evelyn Copland aveva deciso: doveva vendere. 
Non poteva più abitare da sola a Green Apple, le sue gambe s’irrigidivano ogni giorno di più e salire le scale del cottage era diventata un’impresa impossibile. Aveva allestito nello studio, al piano terra, un ambiente dove avere tutto a disposizione: letto, scrivania, armadio, libri.



Di fianco c’erano la cucina, il bagno e il salotto con le sue meravigliose finestre che davano sul giardino.
Quando si fermava a rimirare il suo giardino le saliva dal profondo un’emozione intensa, la visione delle aiuole fiorite e degli alberi maestosi le comunicava una serenità e un senso di benessere che ormai raramente le era dato di provare. Il viale, che dal cancello portava alla casa, era bordato da cipressi molto alti: li aveva fatti piantare ai tempi suo padre che, conquistato dai paesaggi italiani, aveva sfidato i rigori del nord Europa, facendoli arrivare insieme con un quantitativo esorbitante di piante mediterranee. Da bambina l’entusiasmo del padre l’aveva contagiata e insieme avevano progettato e fatto realizzare il versante sud del parco; il giovane Erhard, figlio del giardiniere, ne era stato il miglior artefice e alla fine il miracolo si era compiuto.
Negli anni, ormai tanti, il giardino aveva raggiunto una pienezza e un fulgore che lo avevano reso famoso sulla costa, al punto che, talvolta, si fermavano comitive di turisti che chiedevano di poterlo visitare. Ma tutto ciò oggi costava una fatica immane al vecchio Erhard che ormai era rimasto solo con l’aiuto di qualche avventizio stagionale e si muoveva a passi lenti, curando con perizia le fioriture e sussurrando parole incomprensibili alle rose; ogni volta che si piegava per una potatura ci si chiedeva se sarebbe mai riuscito a rialzarsi.
Evelyn lo seguiva da vicino, seduta sulla sedia a rotelle e lavorava con lui, pulendo, tagliando e raccogliendo quanto fosse alla sua portata. 
- Erhard, per favore, togli le erbacce dal Mesembriantemo… -
- Lo faccio subito, Mrs Copland, devo ripulire anche il cespuglio di rose vicino al glicine. 
- Sì, ma lì posso arrivarci io, tu piuttosto prendi la scala e raccogli le prugne blu, ne porterai un cesto ai tuoi nipoti. -
- Mrs. Copland, lei ha sempre un pensiero per me, a lei però non pensa nessuno… -
- Taci, brontolone, tu pensi a me, e poi c’è Miss July che si sacrifica a salire fin quassù tre volte alla settimana e, infine, c’è il mio Billy che non mi lascia mai. Messi tutti insieme formiamo un bel gruppo per reclamizzare l’ospizio dei vecchi! -
- Ma lei non è vecchia, Mrs. Copland, ha ben nove anni meno di me e di Miss July e se non fosse per l’incidente… non posso dimenticare il rischio che ha corso: poteva morire in quello scontro frontale. Quando l’ho vista in rianimazione… ho temuto di perderla. E quell’incosciente ubriaco che se l’è cavata con poco. Non c’è proprio giustizia! -
- Senti Erhard, ti ringrazio, ma non voglio sentire storie, ci conosciamo da una vita ed è ora che io affronti la realtà nuda e cruda, ormai sono un’invalida, anziana e sola… col mio cane; ho soltanto due fedeli amici che non rinunciano mai ad aiutarmi anche se avrebbero potuto smettere di lavorare da anni, vista la veneranda età. Credi che non lo sappia che tua figlia ti rimprovera in continuazione perché continui a venire, come dice lei, a servizio? -
- Mrs. Copland, Diana non è cattiva, vuole solo che io mi ritiri definitivamente… -
- E tu non pensi che sia venuto il momento di farlo, finalmente? -
- Io, veramente… -
- Non aggiungere altro per favore. Ho deciso, vendo Green Apple e mi ritiro nel Centro White Roses di Plymouth. Il dottor Stirner, bontà sua, dice che è come un grande albergo, ideale, sempre secondo lui, per trascorrere serenamente il tempo che mi resta da vivere: una meraviglia, credimi! Del resto non ho più nessuno, a parte te: dopo l’incidente, lo sai, ho chiuso definitivamente un’epoca di… speranze e poi… e poi sono diventata scontrosa, me ne rendo conto, non voglio estranei tra i piedi; amici? Non ho amici… qualche conoscente appena. A White Roses mi faranno compagnia i miei libri e i ricordi e, se la salute te lo permetterà, Erhard, ogni tanto mi verrai a trovare e mi porterai una rosa Thea, la mia preferita. -
- Mrs. Copland, non posso pensare a questa casa senza di lei! E lei come potrà starne lontana? -

Evelyn Copland azionò la sedia a rotelle e rientrò lentamente in salotto, si sentiva stanca e demoralizzata: il ciclo si stava chiudendo, ma decise con orgoglio di non farsi travolgere dalla malinconia; prese dalla scrivania il libro sull’arte italiana e cominciò a sfogliarlo sommariamente, la parte dedicata alla Toscana conteneva alcune cartoline inserite come segnalibri nelle pagine  preferite, si soffermò con attenzione su quelle dedicate agli Uffizi, ma fu distolta dal suono del campanello della porta d’ingresso. 
Era il postino che, dopo un saluto cordiale, le consegnò due lettere: la prima era dell’agente immobiliare, incaricato della vendita della tenuta, che formulava, per iscritto, la proposta d’acquisto da parte di un affermato avvocato di Plymouth; la seconda portava come mittente il nome di uno sconosciuto. Evelyn, incuriosita, l’aprì; il testo era scritto a mano in una calligrafia chiara dal tratto deciso:

Gentilissima Signora Copland,
mi scuso per il disturbo, ma ho saputo da conoscenti comuni che ha messo in vendita la tenuta di Green Apple; io non l’ho mai vista, ma mi hanno riferito che è veramente molto appetibile, così ho pensato di chiederle un appuntamento per venirla a visitare.
 Il mio nome è Angelo Ravelli, sono italiano e il mio lavoro, che si svolge tra Roma, Milano e Londra, mi porta spesso in giro per il mondo. Anni fa ho avuto occasione di trascorrere alcuni giorni in Cornovaglia e ne sono rimasto ammaliato; da allora ho provato il forte desiderio di tornarci e recentemente ho deciso di cercare una casa proprio da quelle parti per le vacanze e i momenti di pausa dal lavoro. Sarò a Bristol la prossima settimana e mi farebbe piacere poterla incontrare.
Le lascio i miei recapiti:
Angelo Ravelli          331-446779 o 347-222852
Mi chiami pure quando preferisce, spero presto.
Distinti saluti
Angelo Ravelli
  
“Ma da dove salta fuori questo Ravelli? Un italiano che vuole comperare casa a St Ives… che stranezza! Conoscenti comuni… Roma, Milano, Londra… mah! … Lo chiamo, così mi levo subito la curiosità.” Disse tra sé e alzò la cornetta del telefono.
- Buongiorno, sono Evelyn Copland, chiamo per… -
Una voce bassa, dal tono cordiale, rispose prontamente:
- Signora Copland, sono Ravelli, grazie della tempestività, sono molto curioso di incontrarla per visitare la sua casa, i signori Asherton me ne hanno parlato così bene… quando possiamo vederci? -
- In verità sono un po’ perplessa della sua richiesta, non vedo gli Asherton da anni e… certo, erano innamorati del mio giardino… comunque, poiché ho deciso di vendere, va bene, l’aspetto martedì prossimo alle undici. Le offrirò una tazza di tè. -  
Si guardò intorno scorrendo con tenerezza i vecchi mobili di famiglia, i divani ricoperti di un classico chintz bordeaux, la sua poltrona in velluto verde, il pianoforte a mezza coda, ormai scordato, infine lo sguardo si fermò sulla foto di Gladys. Si avvicinò e prese in mano la cornice per osservarla meglio: allora aveva una cinquantina d’anni, la figura rigida e scattante, vestita con sobrietà – scarpe basse, gonna a pieghe – il volto austero, i capelli raccolti in uno chignon, ma lo sguardo era brillante e le trasmetteva, ancora oggi, una miriade di sensazioni positive: allegria, comprensione, sicurezza… non c’era stato limite alla sua devozione. Nel silenzio della stanza le parve di risentirne la voce dalla lieve inflessione scozzese. Da bambina a volte ne aveva fatto l’imitazione e Gladys, fingendo di offendersi, l’aveva rincorsa in giardino fino a raggiungerla, acchiapparla e infine, scoppiando in una risata contagiosa, stringerla in un abbraccio.
Evelyn provò a camminare, si aiutò appoggiandosi alla stampella, e avanzò a piccoli passi nel salotto verso il camino, la mente occupata da un turbine di pensieri che la mettevano in ansia: per lei decidere la vendita del suo bene più grande era stato uno strappo dell’anima. Era stata bambina in quella casa e ci era ritornata da sposa felice, anche se la felicità era durata per un tempo troppo breve.  Gladys era sempre rimasta con lei, ferma, premurosa, mai invadente, esattamente come avrebbe voluto che fosse la madre che non aveva mai conosciuto. Le aveva trasmesso serenità e le aveva dato prova di un amore incondizionato. Poi la guerra, lunga, interminabile aveva interrotto tutto. La ricerca di Rudolf svanito in un nulla di cenere… Germania, Francia e, soprattutto, Italia. 

Martedì alle 8 era già pronta: vestita in grigio, una camicetta bianca sulla quale aveva appuntato il medaglione in filigrana col disegno floreale che mostrava nel centro una piccola mela verde, simbolo della tenuta, i capelli argentati, folti e ondulati che le circondavano il viso ancora bello dall’espressione severa, Evelyn si mise in salotto con il suo libro ad aspettare, mentre Miss July rigovernava la cucina con l’aiuto della nipote.
L’automobile bianca si fermò sulla ghiaia, dai vetri della porta finestra del salotto lei osservò l’uomo che ne era sceso: quarant’anni, forse meno, molto alto, una certa distinzione nel vestire e nel muoversi, colori chiari, lineamenti cesellati.
Miss July aprì, incuriosita dalla visita dello sconosciuto – lassù non arrivava quasi mai nessuno – e, solerte, fece strada fino al salotto dove Evelyn, in piedi, lo ricevette e lo salutò, mantenendo un certo distacco.
La situazione era certamente singolare ed insolita. Evelyn cominciò una conversazione un po’ fredda, quasi stentata: rispondeva alle domande del visitatore con malcelato fastidio – le costava una fatica immane addentrarsi nella descrizione della propria casa – poi, finalmente, uscirono insieme in giardino. 
Evelyn si avviò sulla sedia a rotelle e Ravelli l’affiancò con discrezione –pareva si muovesse in punta di piedi per ridurre al minimo la sensazione di invasione del suo territorio –;  si diressero lentamente lungo il sentiero che portava a sud: l’uomo ascoltava con interesse la voce modulata che raccontava la storia del cottage e del suo parco dove l’oasi di piante mediterranee riusciva a superare i rigori degli inverni britannici e ad esplodere in uno splendore di colori e profumi a primavera avanzata. A quel punto lui le parlò dei giardini italiani e lei gli disse che li conosceva bene, anche se era stato molti anni prima, durante la guerra; le chiese in quale parte dell’Italia fosse stata, lei accennò al lago Maggiore, alle vacanze primaverili trascorse a Pallanza e lui, sempre più attento alle risposte, la incalzò con altre domande. Evelyn s’infastidì. Si sentì letteralmente violata e trasportata su un terreno scivoloso che le trasmetteva sofferenza: non voleva risvegliare un passato ormai sepolto. 
Ormai sulla difensiva, cambiò di colpo argomento e decise di rientrare. L’uomo, rammaricandosi d’esser stato un po’ troppo invadente e forse inopportuno, la seguì con aria contrita. L’imbarazzo di entrambi si stemperò quando Evelyn lo guardò diritto negli occhi e gli sorrise. Fu un attimo in cui una corrente inattesa li mise in contatto.
Mentre bevevano una tazza di tè e parlavano di argomenti comuni, Evelyn, pur considerando che l’uomo le risultava simpatico, si sentiva inquieta e in preda ad un incomprensibile senso di sospensione. Salutandosi si accordarono per rivedersi l’indomani per una seconda visita più dettagliata della tenuta.

La notte Evelyn non dormì, l’incontro con Ravelli aveva risvegliato i ricordi dell’ultimo giorno sul lago Maggiore. Risentiva le ultime parole di Gladys: “Tu non ti muovere, vado io!” e l’incubo la riassaliva… 

Tutto era pronto per il rientro in Inghilterra, ma una delazione aveva sconvolto i loro piani. L’ambasciatore, durante la notte, era riuscito ad avvertire Rudolf dell’arresto dei suoi genitori a Berlino: qualcuno aveva denunciato il dottor Spengler perché aveva offerto rifugio nella sua soffitta a due famiglie di ebrei, i cui figli erano suoi pazienti. Si era saputo che erano stati picchiati e caricati tutti sul camion destinato al convoglio per Dachau. 
Rudolf, disperato, con i documenti di addetto culturale all’Ambasciata tedesca si era precipitato sul primo treno nel tentativo di raggiungerli per poterli salvare, ma prima di partire aveva raccomandato di rispettare l’accordo sull’organizzazione del loro rientro in Inghilterra, programmato in ogni dettaglio per il giorno successivo: non dovevano esserci cambiamenti, ogni ritardo ormai rappresentava un pericolo per tutti loro, lui li avrebbe raggiunti a Londra al più presto.  
Evelyn conservava ancora dentro di sé il sapore intenso dell’ultimo bacio.   
La mattina dopo erano arrivati a tutta velocità un’ora prima della loro partenza; le due camionette avevano frenato di botto quando sul viale avevano incontrato la cuoca che stava tornando con la spesa dal paese. Saltati giù l’avevano insultata:
- Puttana ebrea, dove ti nascondi? -
La donna, con la voce tremante, aveva cercato di spiegare che stava tornando alla villa dove lavorava e in un sussurro, vergognandosi con se stessa, aveva aggiunto che suo padre non era ebreo.
- Sappiamo che sei una bastarda schifosa e i tuoi padroni lo sono ancora di più: un tedesco venduto e un’inglese protetta dall’Ambasciata. La pagheranno cara! -
Con un calcio l’avevano spinta e costretta a salire sulla prima camionetta che, sgommando, si era allontanata a tutta velocità.  
Dal giardino sul retro della casa avevano sentito tutto, le urla e gli insulti:
- Se ci prendono, Gladys, cosa facciamo? -
- Taci, bambina, risparmia il fiato, corriamo giù nel nascondiglio dietro il sottoscala della cantina. E’ il posto più sicuro. -
Dopo pochi minuti gli altri erano arrivati alla villa: comandi gridati, porte sbattute, frastuono di mobili rovesciati e di vetri infranti, urla rabbiose in ogni direzione, il tempo si era fermato in un groviglio di terrore, infine tre colpi di pistola esplosero nella zona notte, proprio sopra di loro. A questo punto Gladys si era rialzata dal suo nascondiglio e con un gesto repentino le aveva intimato immobilità e silenzio, poi l’aveva avvolta in uno sguardo morbido come una carezza e aveva sussurrato:
“Tu non ti muovere, vado io…” 
Senza indugi era uscita allo scoperto nel cortile di servizio:
- Ci sono solo io, se ne sono andati all’alba. Cercate pure… -
Con fermezza aveva fatto concentrare su di sé tutta l’attenzione della pattuglia. Quando le avevano scaricato addosso l’intero caricatore, urlando insulti in tedesco, Evelyn, rannicchiata nel sottoscala, aveva creduto di morire con lei. Era stata travolta da un pianto disperato, contratto dal terrore in un silenzio agghiacciante, e aveva continuato a tremare senza tregua per un tempo infinito. Lo scalpiccio degli stivali chiodati sulla ghiaia, il rimbombo delle urla che provenivano dalle camere al piano superiore, l’orrendo e sinistro rumore di oggetti spostati e passati in rassegna, uno dopo l’altro, fino ai primi gradini che portavano in cantina: un incubo crescente senza fine. Il suo cervello ne era devastato. Poi, finalmente, l’eco delle voci sguaiate che si allontanavano e il cigolio delle gomme che ripartivano a tutta velocità. Aveva aspettato lunghe ore prima di aprire la porta di ferro del suo nascondiglio e, nel cuore della notte, radunando tutte le sue energie, aveva intrapreso la fuga. 
Correva, guardinga, per viottoli sconosciuti che sbucavano in villaggi stravolti dai combattimenti; udiva gli echi di spari e di bombe in lontananza; per ben due volte aveva inciampato in un cadavere straziato, abbandonato sulla strada. Ma nulla la frenava. Il sacrificio di Gladys doveva pur servire a qualcosa: se la sentiva al fianco, viva e forte, pronta a spronarla verso la salvezza. Fu avvolta da un turbine di angoscia quando intravide in lontananza una colonna di carri armati che avanzavano con il loro cigolio di morte; a quel punto si era rifugiata dietro un’autorimessa abbandonata, poi aveva ripreso a correre; correva e si nascondeva e poi correva di nuovo, era senza fiato, ma un’energia rabbiosa la teneva in piedi: doveva ad ogni costo trovare un rifugio sicuro. 
Aveva perso tutte le coordinate spaziali e temporali quando, sfinita, penetrando in una boscaglia totalmente buia, si era accasciata; doveva riprendere fiato, era spossata, ma non poteva cedere, sapeva che se l’avessero presa non ci sarebbe stato più nulla…

Era ancora buio pesto quando finalmente riconobbe il casolare nel bosco; bussò con insistenza e avvertì subito il rumore dei passi di Iris che raggiunse velocemente la porta e la socchiuse con prudenza:
- Entri pure, ma cosa è successo? Vi aspettavo questa mattina!
Evelyn, seguita dalla donna, si precipitò nella cameretta e si fermò in silenzio a guardare il suo bambino, così fragile, che stava dormendo. Poi parlò sottovoce, continuando a tenere fisso lo sguardo su suo figlio: voleva imprimersi indelebilmente sulla retina ogni minuscolo tratto di quel piccolo volto innocente.
- Una tragedia! Sono venuti alla villa e hanno ammazzato Gladys. Rudolf è dovuto partito per Berlino. I suoi… Dachau. Sicuramente stanno cercando me. Non posso restare, ucciderebbero anche lui, te e tuo figlio… -
Evelyn guardò con trepidazione il giovane volto di Iris e con voce rotta aggiunse:
- Soltanto tu puoi salvarlo. Ti prego, aiutaci! Abbi cura di lui… per me! Tieni il denaro che ho e, dopo questo inferno, tornerò a riprenderlo. - 
Uno sguardo intenso unì le due donne, le mani si strinsero in una sorta di abbraccio potente. Poi bruscamente Evelyn scappò via, uscendo dalla porta della cucina. Si voltò un’ultima volta per un attimo:
- Grazie, Iris, ritornerò… -
Lo strappo fu totale, ogni molecola del suo corpo fu travolta da fitte così dolorose che la paralizzarono per un’eternità. La mente anestetizzata fu attraversata da echi di tuoni lontani. Nel buio assoluto cercò di raccogliere i frantumi dell’anima e di far affiorare l’istinto di sopravvivenza. Era indispensabile. Quindi riprese la fuga con la morte nel cuore: polvere, lacrime, lampi … il vuoto.

Ancora oggi, dopo un’intera esistenza, la mente di Evelyn era sconvolta al pensiero di quella notte. E di tutte le notti e i giorni sprecati che erano seguiti.

Cacciò via i ricordi e tentò di dominare la disperazione che aveva rotto tutti gli argini costruiti negli anni al fine di poter sopravvivere. C’era riuscita a fatica, aveva investito tutto il suo patrimonio nella ricerca e ci aveva quasi lasciato la vita. L’unica cosa che le era rimasta era Green Apple.

All’alba avvertì dentro di sé un palpito nuovo. Estrasse dalla scrivania i fascicoli legati con un nastro verde e li pose delicatamente sul piano; erano dodici, numerati in ordine di data e non aveva bisogno di aprirli per ripercorrerli, li conosceva a memoria: i suoi viaggi e le sue indagini estenuanti erano registrati tutti lì. Il semplice contatto con quei documenti un po’ sgualciti la faceva sentire ancora viva dentro. 
Decise di muoversi con le proprie gambe, aiutandosi con le stampelle. Voleva mettersi alla prova alla ricerca di un vigore da tempo sopito; bevve una tazza di tè molto concentrato poi, lentamente, andò in salotto ed estrasse dalla libreria due album di fotografie dalla rilegatura consumata; si sedette sul divano e, guardando con trepidazione la luce del nuovo giorno, attese.

Quando l’uomo arrivò non era più uno sconosciuto per Evelyn. Lei lo fissò con i suo occhi penetranti e incontrò il suo sguardo aperto e vibrante, poi gli sorrise con cautela e una scintilla di calore si fece strada dal profondo e lentamente la riportò alla vita. Lo fece accomodare al suo fianco sul divano; lui prese dalla tasca un piccolissimo medaglione in filigrana e lo appoggiò sul tavolino lì accanto. Evelyn, trattenendo a stento l’emozione, incominciò a raccontare, a voce bassa, una storia che veniva da molto lontano, e mentre parlava, sfogliava lentamente, con delicatezza, una dopo l’altra, le pagine degli album colmi di fotografie, mostrando quello che erano stati secoli prima. Il tempo si era annientato in un’immobilità totale nella quale esistevano soltanto loro due, seduti l’uno accanto all’altra su quel divano un po’ sbiadito, null’altro. 
Alla fine Evelyn si soffermò sopra un’immagine vagamente sfuocata, ma bellissima, che pareva un quadro dipinto nel mese di maggio: sullo sfondo si vedeva un giardino nel pieno del suo fulgore e in primo piano apparivano due donne, una in età matura, molto composta, timidamente un po’ di lato, lo sguardo sorridente e rivolto verso una donna giovane attraente che rideva radiosa, tenendo le braccia alzate, quasi in segno di trionfo, per presentare al mondo il suo bambino.

36 commenti:

  1. Bellissimo e travolgente. Nadia

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  2. Il racconto mi ha commosso e ha messo in moto i ricordi. Giulia

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  3. Il racconto mi ha commosso e ha messo in moto i ricordi. Giulia

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  4. Il giardino inglese affascina e fa sognare. Vera

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    1. Adoro il paesaggio britannico con i suoi parchi e giardini, in particolare la Cornovaglia. Annalisa

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  5. La storia mi piace molto, ha dei colpi di scena iinteressanti e il finale stupendo. Rachele

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  6. Finalmente un bel racconto sulla rivista

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    1. Sono contenta che le sia piaciuto. Ne usciranno altri. Annalisa

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  7. Bellissimo racconto dai toni eleganti in un paesaggio meraviglioso. I sentimenti sono profondi e commoventi. Giusy

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  8. Vorrei abitare in un posto così bello! Clelia

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    1. Sapesse quanto piacerebbe anche a me! Annalisa

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  9. Annalisa sai passare da saggi approfonditi a racconti coinvolgenti. Brava.
    Miriam

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  10. Poetico ed emozionante. L.I.

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  11. Che bel racconto! Lina Rizzi

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    1. Gentile Lina, grazie del bel commento. Annalisa

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  12. La sua narrazione è di atmosfera e sentimento, delicata e forte. Bruna Parisi

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  13. Bellissimo racconto che sfiora tutte le corde delle emozioni e infonde speranza. Agata

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  14. Te lo ripeto: devi scrivere un romanzo perché sei bravissima! Gloria

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    1. Cara Gloria, ci sto lavorando e ti ringrazio della stima. Annalisa

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  15. Brava, davvero! Sara B.

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  16. Mi ha colpito il cuore, il suo racconto è bellissimo. C.S.

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  17. Ne sono contenta, grazie. Annalisa

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  18. Commovente, profondo, delicato ed elegante. Grazie Annalisa delle emozioni che regali con la tua scrittura.
    Ludmilla

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  19. Grazie a te, Ludmilla, del bellissimo commento. Annalisa

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  20. Gladys è un'eroina dei tempi bui, mai finiti, raccontata con delicatezza e maestria. Graziella Buy

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  21. Gentile Graziella, la ringrazio del commento generoso. Annalisa

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