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giovedì 18 dicembre 2025

Il romanzo del piccolo Messia, di Storaro e Martigli

(a cura di Mimma Zuffi)

Il romanzo del piccolo Messia, di Storaro e Martigli: «Il Gesù che abbiamo raccontato è quello più vicino all’uomo» (P. Fizzarotti)



                                                          da sin. Vittorio Storaro e Carlo A. Martigli

Intervista a Carlo A. Martigli e Vittorio Storaro su Il romanzo del piccolo Messia (Solferino)

Raccontare Gesù non è mai un’impresa soltanto letteraria. È un atto di ricerca, un viaggio nella luce e nell’ombra dell’uomo, alla scoperta di un mistero che da duemila anni parla a ogni generazione. Con Il romanzo del piccolo Messia, pubblicato da Solferino, lo scrittore e storico genovese Carlo A. Martigli e il Premio Oscar Vittorio Storaro provano a compiere qualcosa di raro: dare un volto narrativo, insieme realistico e favolistico, alla infanzia e adolescenza di Gesù, a Maria e Giuseppe, alla fuga in Egitto e all’amicizia con Giovanni.

Ne è nata un’opera che unisce spiritualità e conoscenza, rigore storico e invenzione romanzesca, parola e “scrittura di luce”. Il libro ha già suscitato l’attenzione del mondo ecclesiale – è arrivato fino al Vaticano – e ha generato una sceneggiatura cinematografica che i due autori hanno scritto insieme, pensando a un futuro film.

Li abbiamo incontrati per un’intervista a due voci, dove il romanziere e il maestro della fotografia raccontano come è nato questo progetto, quale Gesù hanno scelto di narrare e quale luce sperano arrivi ai lettori.



Il romanzo del “piccolo Messia” è già un successo. Come è nato questo progetto e il vostro incontro?

Martigli: Quando Francesca Storaro mi scrisse dicendomi che Vittorio Storaro avrebbe avuto piacere di parlare con me per una proposta di lavoro, sulle prime ho pensato a uno scherzo. Ma tre giorni dopo Vittorio è venuto a trovarmi a Genova, abbiamo parlato e alla fine, tra focaccia, pesto e Pigato, ci siamo stretti la mano e abbiamo deciso di collaborare. Il romanzo è nato così. Per me è stata un’occasione unica, che è arrivata quando ho visionato il trattamento visivo pensato da Vittorio: ho capito che lì poteva nascere una storia nuova sul Gesù bambino, radicata nella tradizione ma capace di parlare al presente.

Storaro: Ho chiesto a Martigli la collaborazione per realizzare un romanzo basato sulla parte centrale della fuga in Egitto della Sacra Famiglia, avendo letto un suo libro precedente, L’eretico. Sentivo giusto che fosse stato un romanziere a scrivere questa storia e non uno sceneggiatore, perché volevo portare tutta la base di scrittura del romanzo dentro una sceneggiatura. Lui mi ha risposto: “Caro maestro, lei ha letto i miei libri, ma io ho visto i suoi film”. È vero che nei suoi libri aveva sempre studiato la vita di Gesù adulto, ma mai la sua infanzia: quindi per lui era una grande possibilità di fare nuove ricerche, in modo che tutta la struttura del romanzo potesse poi essere tradotta in sceneggiatura.

Martigli, da dove nasce il desiderio di raccontare il Gesù dell’infanzia?

Martigli: Nasce da una curiosità antica. Fin da ragazzo mi chiedevo come fosse stato davvero quel bambino che, un giorno, avrebbe cambiato la storia del mondo. I Vangeli canonici si concentrano sugli anni della predicazione, ma lasciano quasi del tutto in ombra la sua infanzia e adolescenza. Ho sentito il bisogno di colmare quel vuoto, di immaginare un Gesù che cresce, che ascolta, che impara. Un Gesù che non discende dall’alto, ma sale dalla terra, condividendo la nostra umanità.


                     Carlo A. Martigli

Qual è il segreto e la novità di questo romanzo?

Martigli: È la prima volta che viene presentato un Gesù bambino e ragazzo insieme realistico e favolistico. Così come la storia d’amore tra Maria e Giuseppe, meravigliosa e umana. Senza tralasciare il rapporto di amicizia tra Gesù e suo cugino Giovanni, che nel libro diventa uno dei fili narrativi più teneri e potenti.

Storaro: La novità è non essere un romanzo realistico in senso stretto, e quindi, di conseguenza, nemmeno il film che ne potrebbe nascere lo sarebbe. È una storia favolistica, poiché in realtà è la storia di due bambini: Gesù e Giovanni. Questo sguardo infantile, e insieme universale, è il cuore di tutto.

Nel libro si parla anche di una grande congiunzione astrale. È un simbolo o un segno?

Martigli: Entrambe le cose. La narrazione si apre con l’allineamento di Marte, Giove e Saturno, un evento rarissimo che nel mondo antico veniva letto come presagio di rinnovamento. Oggi potremmo dire che è un invito a rialzare lo sguardo, a riconoscere che la luce non viene solo dal cielo ma anche da dentro di noi. È il tema che attraversa tutto il romanzo: la scoperta della propria luce interiore.

Che tipo di ricerca ha accompagnato la scrittura?

Martigli: Una ricerca molto rigorosa. Ho consultato fonti storiche e testi religiosi poco noti, in particolare i manoscritti di Qumran e alcuni Vangeli “apocrifi”, non per sostituirli a quelli canonici, ma per integrarli. Gli apocrifi contengono racconti e riflessioni che mostrano un Gesù più vicino, più umano, e questo mi interessava. Volevo restituire la dimensione spirituale senza perdere quella terrena, perché credo che l’una non esista senza l’altra.

 


Lo scaffale con gli Oscar e gli altri premi vinti da Vittorio Storaro

Fantasia e rigore storico: quali sono state le fonti e il metodo di lavoro?

Martigli: Non ci si può inventare un romanzo del genere. Vittorio e io avevamo in comune la passione e la conoscenza degli argomenti trattati, maturate in tanti anni. Ma siamo anche due artisti, ognuno nel proprio campo, e l’arte è sempre rigore e fantasia al tempo stesso: ci siamo mossi su questo doppio binario, rispettando la storia e nello stesso tempo lasciando spazio all’immaginazione narrativa.

Storaro: Credo che alla base ci siano tutte le ricerche fatte in tantissimi anni, sia mie sia di Carlo. È un patrimonio comune che abbiamo riversato nel romanzo e nella futura sceneggiatura, cercando di tenere insieme tradizione e linguaggio visivo contemporaneo.

Nel romanzo emergono anche figure centrali come Maria e Giuseppe, e il legame con Giovanni.

Martigli: Sì, e ci tenevamo molto. Giuseppe è il padre silenzioso, l’uomo che protegge e insegna senza mai imporsi. Maria è la forza dolce che accompagna il figlio nella scoperta del mondo. In loro abbiamo voluto rappresentare la sacralità della famiglia, la fede che si esprime attraverso la cura, il sacrificio, la quotidianità. E accanto a loro c’è il rapporto di amicizia tra Gesù e suo cugino Giovanni, che fa emergere la dimensione più semplice e insieme profonda della crescita: crescere significa anche imparare ad amare e a confrontarsi con l’altro.

Lei parla spesso di “cammino verso la consapevolezza”. Cosa significa in questo contesto?

Martigli: Significa comprendere che la spiritualità non è un dono riservato a pochi, ma un percorso che ciascuno può intraprendere. Gesù, nella nostra narrazione, non è un bambino già “investito” della sua missione, ma un ragazzo che cresce nella conoscenza di sé e nella compassione verso gli altri. È proprio questo che lo rende universale: la sua umanità, non la sua distanza.

Il libro a chi si rivolge? Qual è il vostro pubblico ideale?

Martigli: Come ha detto don Davide Milani, responsabile per lo spettacolo della Conferenza Episcopale Italiana, è un libro che tutti dovrebbero leggere, credenti e non credenti. E per i due piani di lettura con cui è scritto, può essere letto da una famiglia davanti a un camino, così come da chi è appassionato della vera infanzia di Gesù. È davvero un libro per tutti.

Storaro: Credo che questo tipo di lettura sia per tutte le età. Me lo ha confermato, per esempio, l’avvocato Assumma, che ha 90 anni ed è “impazzito” nel leggere il romanzo. Nello stesso tempo io spero che i giovani di oggi, che spesso non hanno nessun tipo di identificazione, possano riconoscersi nel carisma della storia di questi due bambini.


Il libro è adatto anche a chi non è credente?

Martigli: Assolutamente sì. Lo ha ricordato anche don Davide Milani, Presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo e direttore della Rivista del Cinematografo della CEI: è un romanzo che parla al cuore, non ai dogmi. Chi crede vi troverà una conferma; chi non crede, forse, una domanda. Ma entrambi possono ritrovarsi nella storia di un giovane che cerca il proprio posto nel mondo e che, attraverso la fragilità, scopre la forza.

Il Papa ha ricevuto il romanzo. Quali sono state le reazioni del Vaticano?

Martigli: Come accennavo prima, la risposta di don Milani è stata entusiasta e da questa è nata anche la consegna a Papa Leone del nostro romanzo. Direi che, come risposta, è sufficiente. Ma ripeto: è un libro per chiunque, credenti o meno, e il fatto che sia arrivato fino al Vaticano è un segno di questa apertura.


Storaro: Quando ho presentato per la prima volta questo progetto a monsignor Milani, addetto per il Vaticano per la cultura, lui non solo mi ha confermato che siamo in linea con i Vangeli, ma ci ha scritto anche una bellissima risposta, molto poetica. È stato un incoraggiamento importante a proseguire su questa strada.

Come è nata la vostra collaborazione, questo dialogo tra parola e luce?

Martigli: Da una stima reciproca e da una visione comune: raccontare la luce. Io con la parola scritta, Vittorio con la luce del cinema. È stata una sinergia naturale, perché entrambi crediamo che la luce non sia solo un fenomeno fisico, ma anche un principio spirituale. Ogni pagina, ogni scena immaginata, è costruita come un dialogo tra parola e immagine.

Avete anche scritto insieme la sceneggiatura di un prossimo film tratto dal romanzo. Qual è la differenza di scrittura?

Martigli: Avere come compagno di scrittura il più grande maestro del mondo della luce come Vittorio mi ha permesso di vivere la sceneggiatura, ancora più che scriverla. Nel film Vittorio prenderà quella luce e, ne sono certo, sarà uno dei suoi capolavori.

Storaro: La scrittura della sceneggiatura prende il campo dell’immaginazione e di una emozione visiva fatta di immagini cinematografiche. Si tratta di trasformare la parola in visione, senza perdere lo spirito del romanzo.


Da sin. Carlo A. Martigli e Vittorio Storaro

C’è stato un momento in cui avete sentito il peso di questa responsabilità nel raccontare Gesù?

Martigli: Ogni volta che scrivevo il nome “Gesù”. Perché si tratta di una figura che appartiene all’umanità intera e che va trattata con rispetto. Non volevo reinventarlo, ma riscoprirlo, riportandolo alla sua dimensione più vera. E questo, in fondo, è anche il compito di chi racconta storie: ricordare che la verità non è mai lontana, ma vicina, quotidiana, possibile.

C’è un messaggio che vorreste arrivasse ai lettori?

Martigli: Sì: che la fede non è qualcosa di astratto, ma una forma di amore attivo. Amare, perdonare, comprendere, cercare giustizia: sono gesti concreti che costruiscono la pace. Gesù non predicava solo dottrine, ma mostrava un modo di vivere. Se c’è un messaggio che mi piacerebbe rimanesse, è che ognuno di noi può essere portatore di luce, se lo sceglie consapevolmente.

Il titolo parla di “piccolo Messia”: perché questa scelta?

Martigli: Perché è nell’infanzia che si formano le radici dell’anima. Il “piccolo Messia” è il bambino che ciascuno di noi è stato, e che ancora abita dentro di noi. È la parte pura, capace di credere, di sperare, di meravigliarsi. Raccontare la nascita della luce in Gesù è, in qualche modo, raccontare la possibilità di ritrovarla anche in noi.

Prossimi progetti? Ancora insieme?

Martigli: Io ho in mente qualcosa, ma non gliel’ho ancora detto…

Storaro: Non al momento, ma mai dire mai. Le storie, come la luce, trovano sempre nuove strade per tornare.

Pubblicato con l'autorizzazione de "Il faro
di Paolo Fizzarotti

 

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