Introduzione
Io so perché sono un intellettuale, uno
scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò
che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che
coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e
frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica
là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.[1]
Pier Paolo Pasolini è stato un intellettuale
estremamente poliedrico e prolifico, dotato di una sorprendente versatilità. È
pertanto difficile definire con precisione la sua figura: si è dedicato con
ugual dedizione alla letteratura, al cinema, al teatro e alla critica; ma
Pasolini è stato prima di tutto un attento osservatore, in grado di decifrare
realtà differenti e di dipanare i complessi e irreversibili cambiamenti che
stavano investendo la società a lui contemporanea.
Approfondire l’opera e il metodo di un autore dal modus operandi così multidisciplinare e inedito non può che giovare all’architetto: difatti nelle opere di Pasolini i luoghi non rivestono mai una funzione secondaria, sebbene lo scrittore non si sia mai occupato direttamente di architettura. Le tappe principali della sua vita e la conseguente evoluzione della sua produzione sono scandite, non a caso, da luoghi ben precisi: la Casarsa della giovinezza e della scoperta del mondo contadino, la Roma del sottoproletariato urbano e dell’animato dibattito intellettuale o il Terzo Mondo mitico e fantastico. Grazie ad un approccio schietto e preciso Pasolini è stato in grado di portare in superficie elementi del presente e del passato: nelle sue opere il territorio viene descritto secondo qualità formali e culturali che vanno a riflettersi anche sull’umanità che lo popola. I corpi, i volti e i luoghi narrati da Pasolini sono infatti dispiegati in un’armonica soluzione di continuità, che li rende inscindibili gli uni dagli altri. Il filo conduttore della sua produzione sembra essere la definizione di un inventario architettonico-paesistico di culture destinate a scomparire, travolte dall’incalzante avanzata della civiltà dei consumi.
Approfondire l’opera e il metodo di un autore dal modus operandi così multidisciplinare e inedito non può che giovare all’architetto: difatti nelle opere di Pasolini i luoghi non rivestono mai una funzione secondaria, sebbene lo scrittore non si sia mai occupato direttamente di architettura. Le tappe principali della sua vita e la conseguente evoluzione della sua produzione sono scandite, non a caso, da luoghi ben precisi: la Casarsa della giovinezza e della scoperta del mondo contadino, la Roma del sottoproletariato urbano e dell’animato dibattito intellettuale o il Terzo Mondo mitico e fantastico. Grazie ad un approccio schietto e preciso Pasolini è stato in grado di portare in superficie elementi del presente e del passato: nelle sue opere il territorio viene descritto secondo qualità formali e culturali che vanno a riflettersi anche sull’umanità che lo popola. I corpi, i volti e i luoghi narrati da Pasolini sono infatti dispiegati in un’armonica soluzione di continuità, che li rende inscindibili gli uni dagli altri. Il filo conduttore della sua produzione sembra essere la definizione di un inventario architettonico-paesistico di culture destinate a scomparire, travolte dall’incalzante avanzata della civiltà dei consumi.
La manifestazione di una cultura si esplicita
attraverso la sua stratificazione architettonica; di conseguenza i luoghi nella
produzione pasoliniana non sono limitati ad assumere una funzione poetico-estetica
o a segnare una tappa biografica ma si pongono come eloquenti testimoni di una
determinata epoca, con tutte le sue qualità e le sue contraddizioni. Come la
cultura di un popolo si è sempre consolidata e identificata nelle forme
architettoniche realizzate e sedimentate nel corso della sua storia, così l’operato
dell’oppressione fascista prima e dell’omologazione neocapitalista poi si sono
manifestati nell’architettura e nel paesaggio, arrivando a sfrangiare le città
in periferie senza
fine e a distruggere il territorio con
infrastrutture e edifici “senza fantasia, senza invenzione”[2].
La forma della città è stata strenuamente
difesa da Pasolini in nome di un’autenticità che coinvolge, insieme all’aspetto
esteriore di un luogo, anche la vita che lo popola. Nelle città italiane e non
che si affacciano alla modernità Pasolini si pone criticamente verso la realtà
urbana e suburbana, decifrandone i suoi aspetti più impliciti per estrapolare
gli ultimi bagliori di autenticità e per condannare quelle forze che tentano di
distruggerla. L’appello accorato alla conservazione, alla salvezza di ciò che
rimane, alla preservazione di uno stato pre-capitalista non si fonda sulla
nostalgia, ma sulla volontà di non perdere la coscienza della propria identità,
che gli uomini del suo tempo, architetti compresi, hanno tradito in nome di uno
sviluppo senza progresso. L’architettura
diventa pertanto il correlativo oggettivo della vis polemica pasoliniana, la testimonianza tangibile di un
cambiamento epocale e irreversibile.
L’intento di questo elaborato è indagare il
ruolo che l’architettura, e più in generale i luoghi, hanno giocato nella
produzione di Pasolini: questo studio non vuole tanto analizzare tutte le città
e i Paesi visitati o descritti dall’autore, quanto piuttosto presentare,
attraverso l’analisi di alcuni luoghi significativi, il pensiero di Pasolini
rispetto all’architettura e al paesaggio. Questa evoluzione verrà esplicitata facendo
riferimento ad alcune opere dell’autore, sia quelle letterarie, ovvero saggi e
romanzi, sia quelle cinematografiche: è infatti impossibile scindere il
Pasolini cineasta dal Pasolini saggista, romanziere o poeta, poiché l’utilizzo
di generi diversi non gli ha impedito di formulare un pensiero unitario e
coerente coi suoi principi.
L’elaborato è così strutturato: nel primo
capitolo verrà presentata la città di Roma, punto focale sia per la vita che
per la produzione di Pasolini, luogo della scoperta del sottoproletariato
urbano e di osservazione dei cambiamenti della società italiana; a questa fase
appartengono opere quali i romanzi Ragazzi
di vita e Una vita violenta e i
film Mamma Roma e Uccellacci e uccellini.
Verrà poi analizzata l’influenza del viaggio in
India intrapreso dall’autore nel 1961, il cui resoconto, L’odore dell’India, rappresenta il primo approccio di Pasolini
verso un luogo altro, extra-europeo, un Paese in via di sviluppo che si
affaccia con desiderio alla modernità.
Il terzo capitolo affronterà più da vicino la
questione del luogo in rapporto ad una società in trasformazione: verranno
analizzati due documentari, Le Mura di
Sana’a e La forma della città,
dove Pasolini sottolinea l’importanza dei luoghi, depositari di memoria
collettiva, e i rischi che comporta uno sviluppo che appiattisce e distrugge,
in nome dell’omologazione consumista.
Nel quarto capitolo verrà esposto il pensiero
di Pasolini nelle ultime opere saggistiche, in particolare in Scritti Corsari e in Lettere luterane, dove la vis polemica
dell’autore si fa più accesa e non risparmia violente accuse ad una società
piegata al capitalismo, votata al consumo e dimentica delle proprie radici.
Anche in questo caso l’architettura giocherà un ruolo importante quale
manifestazione esplicita dei cambiamenti repentini susseguitisi in Italia a
partire dalla fine degli Anni ’60.
Roma
Non c’è stata scelta da parte mia, ma una specie di
coazione del destino: e poiché ognuno testimonia ciò che conosce, io non potevo
che testimoniare la ‘borgata’ romana.[3]
Nel
gennaio 1950 Pasolini giunge con la madre da Casarsa, in Friuli, a Roma, in
seguito a una
denuncia per atti osceni e alla conseguente espulsione dal
Partito comunista e dall’insegnamento nelle scuole pubbliche. I primi anni
nella capitale saranno particolarmente duri per lo scrittore, che sarà
costretto a vivere nella periferia di Roma e a fare i conti con miseria e
disoccupazione. In questo modo però entrerà per la prima volta in contatto con
il sottoproletariato delle borgate: Pasolini, pur provenendo da una famiglia
piccolo-borghese, riesce a mescolarsi in questo mondo nuovo, di cui apprezza lo
stile di vita autentico per quanto ai limiti della legalità. L’autore si pone con
piglio quasi sociologico rispetto a questa realtà a lui inedita, salvo poi
abbandonarsi ad accorate descrizioni traboccanti di ammirazione e di amore per
una cultura,
la cui stessa sopravvivenza risulta essere tanto più autentica
quanto più precaria. La grande scoperta del popolo romano si carica così di un
senso universale: Pasolini rimane colpito di fronte a questi personaggi al di
fuori della storia, spontanei e innocenti, privi dei comportamenti codificati
dei piccolo-borghesi. Questo mondo sarà la principale fonte di ispirazione per
le sue prime opere letterarie e cinematografiche: attraverso la letteratura e
il cinema infatti Pasolini riesce quasi a fondare un’altra Roma, lontana dalle
immagini stereotipate del centro storico o dal gusto neorealistico troppo
imbevuto di bozzettismo. I poveri ma solari sottoproletari descritti
dall’autore abitano “uno spazio urbano precario, raffazzonato, disprezzato da
architetti e urbanisti, al quale [Pasolini] ha cercato di dare nobiltà e
poeticità attraverso l’uso sacralizzante del mezzo cinematografico ispirato ai
modelli figurativi del primo Rinascimento.”[4]
Pasolini e la madre |
Pasolini a Casarsa |
La scoperta delle borgate: le
inchieste di Vie Nuove
L’esperienza della città di Roma ha il suo punto
di partenza e il suo fulcro nelle borgate, dove Pasolini stesso visse per
alcuni anni con la famiglia; le borgate consistono in aggruppamenti organici di
edifici di abitazione, collocati in zone suburbane ma privi di rapporti di
continuità con i quartieri periferici delle città di cui fanno
amministrativamente parte. Esse hanno origine dagli sventramenti della città di
Roma voluti da Mussolini: dal 1925 infatti, per assicurare uno ‘splendido
isolamento’ ai monumenti della romanità antica, molti quartieri vennero
distrutti e migliaia di persone furono costrette a trasferirsi nelle borgate
realizzate dal fascismo. Le demolizioni riguardarono in particolare le aree
intorno Piazza Navona, oggi Corso del Rinascimento, e Spina di Borgo, oggi Via
della Conciliazione. Insieme al movimento centrifugo degli abitanti sfrattati
dal centro della città a zone suburbane si aggiunse quello dei migranti verso
la Capitale, che negli anni continueranno ad aumentare. Inoltre nell’immediato
dopoguerra la popolazione delle borgate crebbe ulteriormente a causa
dell’incessante flusso migratorio dalle campagne alla città e degli sfollati, privati
di un’abitazione sia dagli sventramenti fascisti che dai bombardamenti.
L’aumento della popolazione fu talmente vertiginoso da rendere insufficienti le
borgate previste dal regime fascista; nel 1948 si contavano 35 borgate
ufficiali e ben 87 abusive.[5]
Il fenomeno dell’edilizia spontanea a Roma ha segnato lo sviluppo urbanistico
della Capitale in maniera assolutamente inedita rispetto ad altre città europee
nel dopoguerra, in quanto ha visto la speculazione dei grandi lottizzatori
unirsi all’emergenza abitativa causata da una fortissima immigrazione.
Così i poveri e gli emarginati furono sospinti
sempre più lontani dal centro, in agglomerati informali concepiti come
brandelli
di città isolati in piena campagna: chiusi in se stessi, con comunicazioni
difficili e non autosufficienti. Le borgate non sono mai contigue, in mezzo c’è
sempre un vuoto non organizzato; vengono costruite nelle bassure per ragioni
speculative, spesso vicine a cave di tufo o pozzolana; là dove i terreni
costano meno, negli appezzamenti di minor valore dei latifondi nobiliari. La
collocazione ‘in basso’ (nelle zone che sono anche le più malsane) è funzionale
al decoro della città: chi vi arriva in auto dalle consolari, o in treno, le
borgate non le vede.[6]
All’interno di questo mondo eterogeneo e
stratificato, quasi autonomo rispetto alla vera e propria città di Roma, ha
inizio l’esperienza della Capitale da parte di Pasolini; egli risulta essere un
poeta antropologo ‘sul campo’, sempre a contatto con situazioni, persone e
luoghi reali, di cui diviene testimone e critico attento in un periodo di
profonde e improvvise trasformazioni. Roma diverrà oggetto della produzione
pasoliniana non solo per quanto riguarda i primi romanzi, Ragazzi di vita e Una vita
violenta, ma anche di numerosi articoli e inchieste, delineando
parallelamente una Roma più poetica e una più giornalistica. La continuità di
queste due rappresentazioni è determinata dalla concezione del ruolo di
intellettuale come intermediario tra l’opinione pubblica e una realtà che si
vorrebbe nascondere: l’intento di Pasolini è quello di narrare un’umanità ai
margini, autentica e ingenua, segregata in condizioni di vita disumane.
Estremamente significativa in questo senso
risulta essere una serie di articoli pubblicati sulla rivista Vie Nuove, in cui Pasolini affronta la
questione delle borgate, denunciando gli intenti politici che hanno guidato la
realizzazione di queste controverse unità abitative. Pasolini introduce il
concetto di fronte della città, inteso
come quel limite che, separando la città dalla campagna, permette di conferire
ad entrambe una forma ben precisa. Questo fronte assume sempre connotazioni
differenti: “Ora è una striscia abbacinante di case che serpeggia sul contorto
orizzonte. Ora una catasta colorata, grandiosa come un’apparizione,
sull’imprevedibile costone di un’altura. Ora una enorme parete grigia che
incombe tra viadotti e cavalcavia come uno strapiombo.”[7]
Il fronte della città, così necessario per definire
la città e per renderla quindi intellegibile, è ora minacciato: a causa della
penuria di alloggi, che ha portato al proliferare scomposto di borgate abusive,
è esploso un vero e proprio boom edilizio, coordinato secondo un piano di
edilizia popolare che risponda alla richiesta di una dimora da parte di
migliaia di sfollati e, allo stesso tempo, che elimini gli insediamenti abusivi.
Questi nuovi edifici però non rispettano il limite imposto dal fronte della città, e tendono a
sfrangiarlo, a disperderlo; in questo modo città e campagna smettono di essere
due unità in contrasto ma comprensibili, lasciando spazio a un’edilizia sociale
che non risulta essere nemmeno sufficiente a coprire l’immensa e crescente domanda
di alloggio.
Malgrado l’eruzione edilizia la difficoltà
di avere una casa resta uguale. I centodiecimila vani costruiti l’anno scorso
lasciano le cose come stavano. […] Coloro che abitano sono una quantità enorme,
e, benché magari fieri dei loro nuovi appartamentini al settimo piano di uno
dei cento palazzoni che si accalcano su un’altura, dormono ancora in quattro o cinque per camera.
L’agio su cui fa leva l’influenza ideologica della classe al potere, dando
inizio all’epoca della televisione e dei flippers, […] è in realtà ancora
disordine, miseria, precarietà: e tanto più gravi, appunto, perché si
presentano sotto forma di agio, di meno peggio – mentre tutto, invece, sarebbe
ancora da incominciare.[8]
Pasolini mette in evidenza la superficialità
che ha guidato la realizzazione di questi nuovi edifici: le condizioni di vita
di queste aree periferiche non sono migliorate, nonostante l’apparenza di
ordine e di pulizia data dai nuovi edifici. La parvenza di benessere testimonia
le vere intenzioni alla base di questi programmi di edilizia sociale, che
invece di risolvere il problema delle borgate si limitano a trasferirlo dalle
baracche ai nuovi condomini, realizzati con materiali di infima qualità e
isolati dal contesto. Pasolini sottolinea infatti le motivazioni politiche
dietro a questi interventi architettonici e urbanistici: sia i fascisti negli
Anni ’20 e ’30 che i democristiani nel dopoguerra hanno voluto segregare i più
poveri, gli indesiderati, in parti della città periferiche, degradate; quindi
le borgate, nonostante l’apparenza informale, sono frutto di una decisione
coercitiva e imposta dall’alto.
Le
prime ‘borgate’ furono costruite dai fascisti in seguito agli sventramenti:
sventramenti che non obbedivano solo a un ideale estetizzante-dannunziano,
evidentemente: ma erano – in seconda istanza, ma in realtà, in sostanza –
operazioni di polizia. Forti contingenti di sottoproletariato romano,
formicolante al centro, negli antichi quartieri sventrati, furono deportati in
mezzo alla campagna, in quartieri isolati, costruiti non a caso come caserme o
prigioni.
È nato
in quel periodo lo ‘stile’ della borgata; il fondo, naturalmente, è di tipo
classicheggiante e imperiale: ma ciò che è tipico è il ripetersi ossessivo di
uno stesso motivo architettonico: una stessa casa è ripetuta in fila cinque,
dieci, venti volte: lo stesso gruppo di case si ripete anch’esso cinque, dieci,
venti volte uguale. I cortili interni sono tutti identici: lividi, arsi
cortiletti di prigioni, con file di sostegni di cemento per i bucati che
sembrano file di forche, col lavatoio e col gabinetto che serve all’intero
lotto.
Un po’
alla volta la città si è avvicinata a queste borgate che prima della guerra
erano perdute nella campagna, le ha inghiottite, le sta inghiottendo: ma esse
vi persistono, stilisticamente e psicologicamente, come ‘isole’.
Siamo
tornati in questi giorni alla borgata Gordiani: la stanno distruggendo. […]
Gruppi di casette sono ancora in piedi, sopravvissute, e destinate presto a
scomparire. Presto l’altopiano dei Gordiani sarà tutto spianato, e, della
borgata, si perderà il ricordo.
La
maggior parte degli abitanti di queste casette sono stati trasferiti […].
Ci
siamo andati. Nulla, in realtà, è cambiato. Anziché le misere casette a un
piano, con davanti il misero cortiletto, ci sono ora questi palazzoni nuovi di
zecca, appena costruiti tra distese di sterri, prati abbandonati e immondezzai.
Ma qual è il criterio stilistico, sociologico e umano di queste nuove
abitazioni? Lo stesso. Siamo sempre alla nozione di campo di concentramento.
Fra due o tre anni queste pareti saranno scrostate, questi cortiletti lerci: le
stanze non basteranno più, come del resto non bastano nemmeno ora. Non c’è
stato ricambio sociale, mescolanza, libertà: la stessa gente è stata trasferita
in massa da un campo di concentramento vecchio a uno nuovo.
Le
‘borgate’ democristiane sono identiche a quelle fasciste, perché è identico il
rapporto che si istituisce tra Stato e ‘poveri’: rapporto autoritario e
paternalistico, profondamente inumano nella sua mistificazione religiosa.[9]
Il
fine degli articoli pubblicati su Vie
Nuove è la denuncia sia di un sistema repressivo, che allontana
forzatamente i più poveri dalla città costringendoli a condizioni di vita
disumane, sia di una regolarizzazione dell’abitazione che ha come unico fine la
realizzazione di un modello razionale e utilitaristico, privo di qualsiasi
qualità architettonica. Pasolini lancia un vibrante atto di accusa contro il governo
a lui contemporaneo, incapace di svincolarsi dall’eredità fascista e anzi
fautore di provvedimenti che si inseriscono nel solco delle politiche di
Mussolini: “Il cancro sociale e urbanistico di quelle borgate era stato voluto
dalla dittatura di Mussolini: la guerra e il dopoguerra avevano cronicizzato la
situazione. La nuova democrazia decollava verso il benessere economico, ma
quella visibile piaga, urlante piaga umana, si estendeva sempre di più, pari a
una metastasi.”[10]
La borgata in letteratura: Ragazzi di vita e Una vita violenta
Le borgate, oltre a essere oggetto di inchieste giornalistiche, sono i luoghi dove si svolgono le vicende narrate nei primi romanzi di Pasolini, Ragazzi di vita e Una vita violenta. Al di là di considerazioni prettamente letterarie e linguistiche, le prime due opere narrative del poeta friulano costituiscono un importante documento, nel quale i mutamenti della città hanno precise e drammatiche ripercussioni sulla vita dei suoi personaggi; più che un semplice sfondo, la città diventa così vera e propria interlocutrice, in contrasto o in armonia con l’umanità che la popola. Roma viene descritta da Pasolini non attraverso immagini statiche ma piuttosto attraverso il movimento dei protagonisti dei suoi romanzi; in tale modo realtà separate seppur contigue, ovvero la borgata e la città vera e propria, sono messe in relazione. La soglia della città segna l’inizio dell’indagine di Pasolini, che non a caso sceglie proprio il punto di contatto tra due realtà estremamente differenti e quasi antagoniste: la campagna e la città. I movimenti dei ragazzi di vita sono guidati dalla volontà di soddisfare bisogni basilari, per poter raccogliere il denaro sufficiente per vivere alla giornata; gli spostamenti incessanti tra una borgata e l’altra, tra la periferia e il centro, ci permettono di seguire fisicamente i ragazzi all’interno della città di Roma secondo una singolare mappatura dettata dalle possibilità di svago o di arricchimento. Pertanto
Le borgate, oltre a essere oggetto di inchieste giornalistiche, sono i luoghi dove si svolgono le vicende narrate nei primi romanzi di Pasolini, Ragazzi di vita e Una vita violenta. Al di là di considerazioni prettamente letterarie e linguistiche, le prime due opere narrative del poeta friulano costituiscono un importante documento, nel quale i mutamenti della città hanno precise e drammatiche ripercussioni sulla vita dei suoi personaggi; più che un semplice sfondo, la città diventa così vera e propria interlocutrice, in contrasto o in armonia con l’umanità che la popola. Roma viene descritta da Pasolini non attraverso immagini statiche ma piuttosto attraverso il movimento dei protagonisti dei suoi romanzi; in tale modo realtà separate seppur contigue, ovvero la borgata e la città vera e propria, sono messe in relazione. La soglia della città segna l’inizio dell’indagine di Pasolini, che non a caso sceglie proprio il punto di contatto tra due realtà estremamente differenti e quasi antagoniste: la campagna e la città. I movimenti dei ragazzi di vita sono guidati dalla volontà di soddisfare bisogni basilari, per poter raccogliere il denaro sufficiente per vivere alla giornata; gli spostamenti incessanti tra una borgata e l’altra, tra la periferia e il centro, ci permettono di seguire fisicamente i ragazzi all’interno della città di Roma secondo una singolare mappatura dettata dalle possibilità di svago o di arricchimento. Pertanto
…la città nasce dai movimenti dei
personaggi tesi a impadronirsene, sono essi stessi a produrla nel loro
movimento incessante. […] Quello che viene messo in scena [nella città],
dunque, non è lo spettacolo della metropoli, le fantasmagorie delle merci, ma
l’individualismo egoistico del cittadino che neutralizza il territorio
metropolitano per imporgli i propri improbabili e irrazionali significati. […]
[La metropoli] diventa così un semplice contenitore d’oggetti, esperienza,
potenzialità pronti per essere saccheggiati.[11]
Nel
primo romanzo, Ragazzi di vita,
nell’arco di tempo compreso tra l’occupazione tedesca di Roma e l’immediato
dopoguerra, il lettore assiste a una lenta trasformazione dei personaggi e del
contesto dove abitano. Se all’inizio la capitale presenta tratti ancora
contadini e le scorribande dei suoi giovani borgatari, dettate dalla fame e
dalla miseria, ispirano tenerezza più che condanna, al termine del romanzo i
protagonisti perdono in spontaneità e innocenza, influenzati da un modello
borghese estraneo alle loro origini, ma a cui non possono fare a meno di
adeguarsi. Pasolini, come commosso dalla irriducibile vitalità di questi
‘regazzini’, li osserva impotente cambiare, “nella consapevolezza che saranno
spazzati via dalla storia, o più precisamente che diventeranno ben altra e
infelice cosa.”[12]
Così come i suoi abitanti, anche la città di Roma perde quella patina povera ma
autentica, figlia di un mondo contadino ben saldo alle sue tacite regole
interne, in nome di uno sviluppo solo epidermico ben rappresentato dai nuovi
palazzi dell’INA Case, il piano di intervento concepito subito dopo la seconda
guerra mondiale per realizzare edifici residenziali popolari.
In Una
vita violenta la vicenda della famiglia del protagonista Tommaso Puzzilli è
emblematica, in quanto riassume il percorso di molti altri emigrati giunti a
Roma durante la seconda guerra mondiale: la famiglia lascia l’entroterra laziale, e
con esso una vita dura ma dignitosa, per dirigersi nella capitale in cerca di
fortuna. Dopo essere stati sfrattati più
volte da alloggi di fortuna messi a disposizione dai fascisti prima e dagli
Alleati poi, si trovano costretti a vivere in una baracca tra Pietralata e
Montesacro, in una delle tante borgate non ufficiali sorte capillarmente nella
periferia di Roma. Il passaggio da una vita contadina, povera ma dignitosa,
alla vita di borgata, misera e precaria, testimonia l’inevitabile corso della
storia, che travolge i più deboli sballottandoli da un luogo all’altro,
privandoli di riferimenti.
Finalmente
alla famiglia di Tommaso viene assegnato un appartamento in uno dei palazzi
realizzati dall’INA Case. È evidente la volontà di questa famiglia di elevarsi
socialmente, ed è importante sottolineare come questo desiderio si possa
avverare unicamente ottenendo una nuova abitazione: di conseguenza la casa non
viene più considerata come semplice rifugio, ma come mezzo attraverso il quale acquisire
coscienza della propria condizione sociale. Per la prima volta in tutto il
romanzo Tommaso si vergogna del suo stile di vita precario e misero da ragazzo
di borgata ed ambisce ad un modello piccolo-borghese di pulizia e ordine
totalmente estraneo al suo mondo. L’abitazione di proprietà diventa l’emblema
di un desiderio di elevarsi socialmente estraneo all’umile vita dei borgatari. Andando
avanti nel racconto Tommaso si sforzerà di aderire ai doveri e ai miti
borghesi, necessità insorta appunto dopo il trasferimento nella nuova casa: ora
che vive all’INA infatti non ha più nulla da spartire con il suo vecchio stile
di vita e, di conseguenza, con le sue vecchie conoscenze. Tommaso si dedica
tenacemente a questa personale scalata sociale, cercando di far propri riti
piccolo-borghesi, ma con scarso successo. Il passaggio a un nuovo stile di vita
comporta per Tommaso
un apprendimento dei significati sociali
del contesto che circonda l’individuo. Ecco che dunque agli occhi di Tommaso
ricompare la città dei luoghi. Impara
che quell’edificio a cui non aveva mai fatto caso è il Comune, in cui deve
ritirare i documenti per il matrimonio; che quel locale in cui era andato
sempre solo per ballare e fare ‘cagnara’ in realtà è una sezione di partito e
può tornare utile per trovare un lavoro fisso. Comincia a fare paragoni tra se
stesso e gli altri, scopre di vestire male, impara a riconoscere il significato
degli spazi urbani dallo status
sociale delle persone che li abitano, gli appaiono i muri simbolici che
delimitano i luoghi della città, comincia a pensarsi in relazione all’ambiente
che lo circonda.[13]
In
entrambi i romanzi la purezza iniziale dello stile di vita dei borgatari va
inteso come irriducibilità a omologarsi a tutto ciò che proviene dall’alto, sia
dal mercato che dalle istituzioni; con l’arrivo di una certa forma di
benessere, ben esemplificato dalle nuove abitazioni, si manifesta anche
l’asservimento ad un modello di sviluppo piccolo-borghese, da sempre escluso
dalla mentalità sottoproletaria, di cui comprometterà vitalità e autenticità.
Dal punto di vista spaziale, ad una prima fase dell’ ‘innocenza’ corrisponde
un’idea di città come pura potenzialità, che ciascuno può dotare di un suo
personale significato; alla seconda fase di ‘presa di coscienza’ la città
inizia a definirsi, a stratificarsi di significati imposti da una forza esterna
ed estranea al mondo dei protagonisti. Emergono così due città dai romanzi di
Pasolini: la prima, la città senza luoghi,
è tracciata dai movimenti stessi dei personaggi, che si muovono in uno spazio
deterritorializzato, senza centro né periferia; la seconda, la città dei luoghi, si delinea quando si
concretizza il tentativo di inserimento sociale da parte dei protagonisti, che
iniziano così a classificare la città in luoghi significativi e polarizzati.[14]
La borgata nel cinema: Mamma Roma e Uccellacci e uccellini
La borgata nel cinema: Mamma Roma e Uccellacci e uccellini
La trasformazione di Roma da città sottoproletaria, depositaria di modi e culture, a piatta città borghese verrà affrontata anche nelle prime opere cinematografiche di Pasolini: seppur tratterà più diffusamente questo tema in seguito, l’autore già delinea gli effetti della nuova cultura e dei suoi valori omologanti sulla città e sui suoi abitanti. Esemplare in questo senso è la nuova identità sociale ambita dalla protagonista di Mamma Roma, una ex prostituta che anela al benessere e alla rispettabilità piccolo-borghese per poter essere riabilitata socialmente. In questo film il rapporto tra città e abitanti si fa profondo, viscerale: l’ascesa sociale, sogno della protagonista interpretata da Anna Magnani, comporta anche lo spostamento fisico, che porterà Mamma Roma e suo figlio Ettore dalla campagna alla borgata, e infine al quartiere INA Case, simbolo del cambiamento di classe sociale e allo stesso tempo della violenta avanzata della città verso la campagna. Mamma Roma, che nel suo sogno di ascesa sociale sacrificherà inconsapevolmente il figlio, diventa l’emblema stesso della città che, noncurante, mette al mondo i suoi figli per poi abbandonarli al loro destino, condannandoli ad una vita di fame, ricatti e fango.
Come
prima nelle opere letterarie, anche in quelle cinematografiche Pasolini conferisce
alla città connotazioni simboliche, che vanno al di là delle sue fattezze
esteriori: per l’autore infatti la scelta del luogo dell’azione ha una funzione
fondamentale nella struttura narrativa, in quanto esso contiene già il
messaggio che il film vuole trasmettere:
La borgata come luogo invalicabile. La
borgata-città è madre del dramma, i personaggi sono come generati
dall’agglomerato urbano e da esso reinghiottiti. […] La città, quindi, anche
vista come è il più delle volte nel suo aspetto marginale, non ha mai funzione
paesaggistica, ma funge da controcanto ai personaggi.[15]
Il passaggio dalla letteratura al cinema porta
a degli esiti felici per Pasolini, che grazie a questo nuovo medium riesce a
rappresentare la ‘realtà con la realtà’, spinto dal “desiderio di veder
realizzati fatti, persone, scene, proprio come io, scrivendo, li vedo”[16].
Non a caso l’opera che sancisce una svolta nella produzione e nel pensiero
pasoliniani è proprio un film, Uccellacci
e uccellini, la storia di un pellegrinaggio solo in apparenza senza meta
che simboleggia la presa di coscienza della fine di un’epoca, della morte
dell’ideologia e dell’impegno. Uccellacci
e uccellini delinea un itinerario che, dalle borgate romane, si snoda fra
campi, cantieri, cave, strade, sempre ai margini di una città in progressiva
espansione: “L’ambito spaziale in cui è girato il film è quello delle frange
periferiche […]. Il viadotto in costruzione fa da emblematico sfondo al vagare
dei due sottoproletari, Ninetto Davoli e Totò, e del corvo”[17].
Significativo è il confronto tra questa desolata periferia e la città di
Assisi, immagine di quell’antico paesaggio in grado di dare una dimensione e
una dignità a chi vi abita. Questo centrifugo allontanamento dalla città di
Roma simboleggia la crisi che sta per abbattersi sulla cultura e sulla società,
e il conseguente ‘genocidio culturale’ perpetrato ai danni del
sottoproletariato urbano. Attraverso questo viaggio centrifugo, che annovera “le
baraccopoli in mezzo alle quali spuntano poveri edifici di cemento, il grande
cantiere del RA [Raccordo Anulare], i pochi resti della campagna e delle
fattorie, destinati a scomparire in fretta”, il regista
mostra una Roma in
piena trasformazione non solo dal punto di vista ideologico, ma anche fisico;
una capitale che sta per ‘colonizzare’ la campagna e il resto d’Italia.
Filmando il RA e l’autostrada per Fiumicino (l’aeroporto fu costruito per le
Olimpiadi del 1960), Pasolini descrive la sua Roma come una città dal cui
futuro deve ormai fuggire il più lontano possibile, andando magari a cercare
un’alternativa nel terzo mondo: Cuba, Istanbul, Africa, Asia…[18]
L’avanzata
dei valori conformistici e uniformanti propri della civiltà dei consumi scatenerà
una profonda crisi in Pasolini, che d’ora in poi rivendicherà l’importanza dei
valori arcaici contro il divenire di una società che ha perso il senso del
sacro e del mito. Roma, pur continuando ad occupare un posto privilegiato nella
vita e nelle opere di Pasolini, rappresenterà il punto di partenza per un
viaggio alla ricerca di un’autenticità perduta, che lo farà approdare in luoghi
lontani, non ancora contaminati dal progresso.
[1] P.P. Pasolini, Scritti Corsari, edizioni Garzanti, 2015, pag. 89.
[2] La
forma della città, P.P. Pasolini, Italia, 1974.
[3] P.P. Pasolini, Storie della città di dio: racconti e cronache romane 1950-1966, a
cura di W. Siti, Einaudi, Torino 1995, pag.136.
[5] Cfr. http://www.borgate.it/archivio/index.htm
(consultato il 29 agosto 2015).
[6] http://www.internazionale.it/notizie/2014/11/13/tor-sapienza-la-borgata-con-il-nome-di-un-fortino-militare
(consultato il 29 agosto 2015).
[7] P.P. Pasolini, Storie della città di dio: racconti e cronache romane 1950-1966,
op. cit., pag.120.
[9] Ibidem,
da pag. 124 a pag. 126.
[10] E. Siciliano, Vita di Pasolini, Milano, Mondadori, 2005, pag. 211, in R. Carnero,
Morire per le idee. Vita letteraria di
Pier Paolo Pasolini, edizioni tascabili Bompiani, Milano 2010, pag. 89.
[11] E. Ilardi, Il senso della posizione: romanzo, media e metropoli da Balzac a
Ballard, Meltemi editore, Roma 2005, pagg. 155-156.
[12] P.P. Pasolini, Ragazzi di vita, edizioni Garzanti, 2014, pag. 9.
[13] E. Ilardi, op. cit.,
pag. 158.
[14] Cfr. Ibidem, pag. 160.
[15] A. Licata, E. Mariani-Travi, La città e il cinema, Collana Universale
di architettura, edizioni Testo & Immagine, Torino 2000, pag. 70.
[16] P.P. Pasolini, Il 4 ottobre, in “Il Giorno, 16 ottobre 1960, in J. Ballò, G.
Borgna, A. Bergala (a cura di), op. cit., pag. 121.
[17] A. Licata, E. Mariani-Travi, op. cit.,
pag. 71.
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