Il be bop è una delle più affascinanti avventure vissute
dalla storia del jazz: un fenomeno nato e sviluppatosi verso la metà degli anni
Quaranta del secolo scorso quando un gruppo di giovani
musicisti decise di rompere i legami con la tradizione, soprattutto con l'era
dello swing, successiva
alla crisi del 1929, orientandosi verso una creatività dominata dall'estro
inventivo e da una frantumazione polemica del linguaggio. Stravaganti anche nel
modo di vestirsi, i be bopers sostituirono all'abito tradizionale,
indossato nei concerti alla Carnegie Hall o al Madison Square Garden, un modo
diverso fatto da un abbigliamento dimesso, colletti slacciati con cravatte penzolanti,
visi non più rasati alla perfezione, ma ricoperti da accenni di barbette. Dopo aver
suonato nei locali alla moda di Broadway o di Manhattan, si ritrovavano nei
piccoli club sulla Cinquantaduesima Strada di New York dove davano il via alla
musica che amavano, rivoluzionaria sia nella forma sia nel contenuto,
caratterizzata da improvvise impennate verso i registri più alti dello
strumento, e da repentine discese in un inconscio che voleva esprimere ancora
una volta la compressione di un secolare stato di soggezione umana e civile.
Come i boppers abbandonarono i locali alla moda per isolarsi
nelle bettole di New York, anticipazione dei club maleodoranti del Village,
così i breatnicks si
lanciarono on the road, alla conquista romantica di un mondo e
di un'esistenzialità che richiedeva un prezzo troppo alto perché potesse essere
pagato per lungo tempo. Sia per gli uni sia per gli altri gli anni Cinquanta vollero dire bilancio di un passato con i boppers
e di un presente per i beatnicks chiuso
a ogni possibile sbocco, ed ecco che il dopo ha significato di nostalgia per quei
tempi irripetibili, per una stagione destinata a restare come la più esaltante
per la cultura americana.
Fu il trombettista Dizzy Gillespie a dare a tale linguaggio
così lontano dai vecchi schemi un carattere di capricciosa suggestione che
diventerà irripetibile, malgrado i numerosi imitatori. Gli appiopparono in
nomignolo di "Dizzy" per la sua divertente capacità di abbandonarsi
all'estro e all'invenzione anche gestuale, una variante dell'esecuzione
musicale che più tardi troverà il suo corrispettivo in un fraseggio
irriguardoso e provocatorio, il tutto accompagnato da acrobazie tecniche che solo
un musicista completamente padrone dello strumento avrebbe potuto compiere. Su
questa strada, il suo perfetto interlocutore fu Charlie Parker, figura tra le
più drammatiche e creative della storia del jazz, morto molto giovane e al
massimo della maturità artistica; ma non vanno dimenticati altri importanti
compagni di strada che contribuirono alla nascita e al diffondersi di questo
modo così rivoluzionario di accostarsi al linguaggio jazzistico: il pianista
Bud Powell, i batteristi Kenny Clarke e Max Roach, la cantante Sarah Vaughan,
il bassista Charlie Mingus. I brani che Dizzy esegue negli anni Cinquanta fino
agli sgoccioli del 1960 appartengono prevalentemente al più classico
repertorio del bop e si
configurano come tipici esempi del modo di eseguire il tema da parte di questi
singolari e inquieti intellettuali che riversavano nei loro strumenti una
rabbia che proveniva dalle contraddizioni sociali in cui erano costretti a
muoversi, malgrado l'apparente distacco
della loro musica.
Sarah Vaughan (soprannominata "Sassy" e "Divine One) fu "la voce"
dei boppers e rappresentò nella logica di questa
musica un elemento armonico indispensabile. In polemica con il vocalismo
tradizionale, fondato sull'esecuzione fedele del tema, e richiamandosi semmai
più frequentemente alla tecnica dello scat-chorus
modulato sui temi più prolungati, la
cantante riuscì a realizzare con la sua voce un tipo di eloquio nel quale la
parola cedeva il posto alla sensualità
sonora, sviluppata all'unisono con la tromba o con il sassofono, sì da
produrre un magmatico universo del tutto omogeneo e di grande forza persuasiva.
Era necessario possedere non comuni doti vocali per realizzare un'operazione di
questo genere e Sarah Vaughan fu realmente capace di passare senza rischio attraverso
tutta la serie dei registri con la massima sicurezza, retta da una tecnica e da
uno stile che alla dolcezza del timbro sapeva accoppiare la ricchezza
dell'ispirazione. Non a caso aveva esordito nei cori delle chiese del New
Jersey dove era nata, e proprio da questa esperienza fu in grado di
ricavare quella vibratile sonorità che
fu quanto mai necessari a uno stile come il be
bop
che necessitava, per la durezza della protesta musicale che intendeva
esprimere, di un così dolce contrappunto.
Maynard Ferguson non appartiene a quel primo gruppo di
musicisti afro-americani che alla fine della guerra contribuirono al
rinnovamento del jazz. Si mise in luce solo nel 1950 quando, come membro della sezione trombe dell'orchesta di Stan Kenton, registrò un disco che divenne
immediatamente famoso. Era intitolato Maynard
Ferguson, per tromba e orchestra, e il solista
canadese riusciva a suonare utilizzando una gamma di note nel registro acuto,
ma raggiunte prima da altri trombettisti. Successivamente, Ferguson formò una
sua big band con Slide Hampton al trombone e Rufus "Speedy" Jones alla batteria. Ebbe un gran successo, anche se di breve durata.
Charles Mingus, ultimo personaggio di questa eccezionale
galleria, è stato grande oltre che come bassista anche come compositore. Impregnato
di africanità e di un sensibile afflato poetico che sapeva trasmettere alla sua
musica, egli visse fino alla morte l'avventura creativa del jazz, realizzando
tutta una serie di composizioni sullo slancio delle prime decisive esperienze
vissute con Gillespie, Parker, Davis e gli altri boppers
che gli insegnarono, quando era ancora
agli esordi, la via da seguire e il tipo di ispirazione. Sorretto da una forte
qualità inventiva e dal rigore della messa a punto musicale, riuscì a costruire una serie di composizioni che resteranno nella storia del jazz come un pilasto dove i temi
privilegiati della matrice africana si fondono mirabilmente. Una strada duplice
e affascinante che Mingus perseguì per tutta la sua esistenza, incurante degli ismi che lo
circondavano e che il jazz continuava a produrre nello sforzo di rinnovamento,
restando sempre se stesso, un afro-americano con tanta rabbia in cuore e un
senso di protesta che solo sapeva realizzarsi grazie al tramite di un
linguaggio musicale rigoroso e sensibile, in grado di trasmettere al pubblico
una vasta gamma di emozioni rare e preziose.
Un'avventura davvero affascinante!
RispondiEliminaLa storia del jazz, spesso in secondo piano, merita conoscenza e attenzione, spero che questo articolo sia il primo di una serie. Bello!
RispondiEliminaCorinna
grazie Marina e Corinna, questo è proprio il primo di una serie! Mimma
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