di Mimma Zuffi
KING LEAR è una tragedia che appartiene alla fase matura di
Shakespeare. Fu scritta probabilmente nel 1605-6, ed ha ricevuto moltissime
attenzioni dalla critica, specialmente negli ultimi anni, come una delle più
grandi, se non la più grande tragedia di Shakespeare.
C'è stato un periodo, soprattutto quello romantico, in cui King Lear era stato considerato
impossibile a recitarsi; un dramma che per le sue considerazioni sulla natura
dell'uomo, della storia, il senso della nostra esistenza non poteva essere
messo in scena in maniera soddisfacente.
Questa era la posizione di molti critici romantici.
Certamente, se noi consideriamo le messe in scena che ci
davano di King Lear nel teatro naturalistico, illusionistico dell' Ottocento, con
formidabili scenografie, con questo vecchio che andava in giro per la scena con
il suo bastone, tutto addobbato di parrucca e vestiti particolarmente sfarzosi,
ci rendiamo conto che King Lear diventa una sorta di controsenso: se è
recitato, non regge alla recitazione. King Lear resta indubbiamente una
tragedia di difficilissima interpretazione, e una delle ultime conferme è
venuta dal King Lear di Strehler che, a mio parere, è stato uno
pseudo-fallimento anche se fortemente incensato dalla critica.
Questo dramma fu, con tutta probabilità, suggerito a
Shakespeare alla stessa maniera di altre sue tragedie, da alcune fonti che egli poteva riscontrare nella letteratura del
suo tempo.
Shakespeare non inventa le sue storie, e in generale si può
dire che nessuno dei drammaturghi elisabettiani inventa le sue storie. Esse
sono tutte tratte dalle fonti più varie, dalle cronache di Holinshed (come è il
caso di King Lear e di altri drammi di Shakespeare), da novelle continentali,
per esempio quelle del Bandello (sarà
per esempio il caso della "Duchess of Malfi" di Webster),fonti
disperate, come l' "Arcadia" di Sidney, che è una grande miscellanea
di fatti, avvenimenti, storie e leggende che costituì un vero e proprio
magazzino di idee, di intrecci per i drammaturghi del tempo.
Shakespeare si riferisce certamente alla cronaca di
Holinshed, dove si legge la storia di Lear collocata in un tempo estremamente
lontano; questa è la tragedia di Shakespeare che si colloca più lontano nel
tempo rispetto a tutte le altre. La fonte storica abituale di Shakespeare,
"The Second Booke of the Historie of England" (1577, Raphael
Holinshed) riportava la storia di re Lear, ma poteva trovarsi anche in
"The Mirror of Magistrates" (nella sezione aggiunta nel 1577 da John
Higgins), nel poema "The Faerie Queene " (1596) di Edmund Spenser,
precisamente nel canto X, libro II; oppure nel dramma anonimo pubblicato nel
1605 (ma rappresentato prima) "The True Chronicle Historie of king Lear"
.
É un tempo estremamente lontano, l'anno 3105 indica l'anno
dell'inizio del mondo, perché a quei tempi, fino al Seicento, pensavano di poter
datare la storia del mondo, e la datavano a 4.000 anni circa e non più.
Questo anno 3.105 corrisponderebbe a un periodo anteriore,
addirittura al periodo della fondazione di Roma: cioè un periodo perso nelle
brume del tempo.
La storia raccontata da Holinshed ha vari punti di contatto
con il King Lear di Shakespeare; cioè la parte iniziale, la storia di
antichissime ascendenze folcloristiche del re che divide il suo regno tra le
tre figlie, ma una di queste non risponde adeguatamente, e il re la disereda.
Dopo, la cronaca, in effetti, cambia e Shakespeare si
allontana nettamente dalla
sua fonte.
Da un'altra fonte Shakespeare ebbe, verosimilmente, un
suggerimento; si tratta di un altro grande
libro del periodo, "The Fairie Queen" di Spenser, il canto X del II
libro, dove viene brevemente, nel giro di sei stanze, delineata la tragica
storia di Lear, in quanto si conclude con il suicidio di Cordelia che s'impicca;
ma per quanto riguarda King Lear stesso, la sua storia non è tragica, anzi ha
un suo lieto fine perché in questa fonte King Lear viene salvato da Cordelia
che gli restituisce, addirittura, il regno che lui aveva donato alle figlie
ingrate.
In King Lear si può riconoscere il subplot, l'intreccio
secondario di Gloucester e dei figli Edmondo e Edgardo, ed è l'unica volta in
cui Shakespeare lo usa per una tragedia in quanto non l'aveva trovato in alcuna
altra fonte - plot e subplot.
Egli aveva trovato la storia nuda, e del tutto autonoma della
storia di Lear, nella "Arcadia" di Sidney, e quindi la riprende per
immetterla in un discorso estremamente complesso di due storie parallele, che
si ricongiungono in una grande scena del quarto atto, in cui Lear incontra
Gloucester cieco.
Queste sono solo alcune informazioni sommarie sul King Kear.
Vorrei usare un avvicinamento a King KLear usando in buona
parte la prospettiva di J. Kott, autore di "Shakespeare nostro
contemporaneo". La lettura che Kott compie di King Lear è interessante, ma
è molto parziale, cioè Kott vede King Lear fianco a fianco di Beckett, cioè un
drammaturgo nostro contemporaneo.
Egli lo vede come il dramma e la tragedia dell'assurdo e del
grottesco; il che è senz'altro vero, però Kott tende a modernizzare oltre
misura Shakespeare, e questo può essere pericoloso perché si può perdere il
senso storico della crisi che Shakespeare stava vivendo in quel suo particolare periodo.
È vero che i termini di raffronto tra la crisi di cui
Shakespeare è testimone e la crisi del nostro tempo sono molto similari, però è
anche vero che nel frattempo la storia si è mossa, ha cambiato prospettive,
elementi e relazioni.
Perciò, per pura e semplice equazione tra la crisi del primo
'600 e la crisi del primo '800, può interessare solo sul filo di un' analogia
approssimativa, non ci può interessare come identità assoluta, perché tale
identità non c'è.
Interessante è il discorso che Kott fa nel primo capitolo
introduttivo al suo libro, dove riprendendo idee e spunti di altra critica,
anche lui tende a non citare la critica, ci mostra qual è l'atteggiamento di
Shakespeare nei confronti della sua storia e del suo tempo.
È un periodo estremamente complesso e difficile, è il
periodo di un Rinascimento che nasce fuori tempo in Inghilterra, e nel momento
in cui nasce già s'incontra con la crisi che il continente stava sperimentando
da tempo.
È la crisi del barocco, della conoscenza, la crisi cosmologica
dell'uomo che ha perso i suoi punti di riferimento sicuri nell'ordine
dell'universo, ed è una crisi che al tempo stesso l'ordine politico,
tradizionale, il senso della storia, che non è più vista in una visione
teleologica, né in una visione escatologia, cioè visione di riscatto nell'al di
là e che, pertanto, coinvolge la crisi della fede religiosa.
Shakespeare è un uomo molto tormentato e dubbioso per quanto
riguarda l'ordine universale, metafisico.
Shakespeare è un grande, non soltanto perché ha capacità
straordinarie nella
composizione del linguaggio, ma è un grande proprio perché
mette queste capacità formali al servizio di uno stravolgimento di tutti i
codici conoscitivi che gli venivano in eredità dal Tardo Medioevo, dallo strano
Rinascimento inglese.
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Locandina della riduzione televisiva con Anthony Hopkins |
È grande nella misura in cui si fa testimone di queste crisi
fino in fondo, Shakespeare, nelle sue
grandi tragedie ne tocca tutte le parti. Egli vede progressivamente sfaldarsi qualsiasi
disegno della storia, qualsiasi senso della vita, e soltanto occasionalmente
riesce a trovare un ancoraggio in una visione ancora cristiana;
occasionalmente, si è detto, perché sono pochi i luoghi in cui Shakespeare
viene fuori con un riscatto, con una fede che possa placare questa visione tragica della vita.
Uno di questi luoghi è proprio, stranamente,
"Hamlet", la più grande tragedia della crisi intellettuale che
conosce, nell'ultimo atto, secondo la prospettiva di Amleto, una qualche
possibilità di salvezza nell'assoggettamento ai disegni della
"Providence", della provvidenza ancora in senso cristiano.
Ma è un caso: Shakespeare, in genere, con contempla l'al di
là, lo si nota anche nei Sonetti, non c'è questa misura di un al di là
che dovrebbe conferire significato alle vanità dell'esistenza umana.
Nella sua produzione tragica, fin dall'inizio, Shakespeare
sonda il senso della fine della crisi, dello stravolgimento dei valori; anche
nei suoi drammi della prima fase, nel drammi romantici come "Romeo e
Giulietta, il suo senso della storia è profondamente pessimistico.
Basti pensare al ruolo che gioca il destino in questa
amarissima favola che è "Romeo e Giulietta", ma ancor più ci si può
rendere conto di questo nelle tragedie storiche, nei "Chronicle
Plays" che sono un po' la piattaforma di Shakespeare, prima di passare
alle tragedie che non rientrano più nello schema storico.
Una certa critica ottocentesca aveva pensato che la prima
fase di Shakespeare, cioè la fase che includeva anche le tragedie storiche,
fosse una fase ottimistica; ma non aveva fatto i conti con i veri significati
di questi drammi.
Non si tratta affatto di una fase ottimistica, ed è una fase
che bisogna conoscere per rendersi conto della progressiva scalata della crisi
nelle grandi tragedie "Hamlet", "Macbeth" e "King
Lear" in particolare.
Per Shakespeare, dice Kott, la storia è ferma, nel senso che
ogni capitolo incomincia e finisce nello stesso punto e, in ogni dramma storico,
sembra descrivere un cerchio per tornare di nuovo al punto di partenza.
Questi cerchi ricorrenti sono, uno dopo l'altro, i regni dei
vari re storici (anche se poi la resa storica di Skakespeare non è affatto
precisa), che regnarono in Inghilterra tra la fine del XIV secolo e gli ultimi anni del XV, cioè in quel secolo
che viene prima del regno del Tudor, che sarà poi la storia vicinissima a
Shakespeare. Ognuna di queste grandi tragedie storiche, che sono "King
John", "EnricoIV, V e VI" e soprattutto " Riccardo II e
III", inizia con la lotta per la conquista del trono, o per il suo
consolidamento, e finisce con la morte del re, e con una nuova incoronazione:
questo è lo schema che ci presenta sempre.
Il sovrano legittimo, dice Kott, si tira dietro una catena
di delitti: egli ha schiacciato i grandi feudatari che l'avevano aiutato a
impadronirsi della corona; egli ha ucciso prima i suoi nemici, poi i suoi
antichi alleati, ma non è riuscito a eliminarli tutti.
Un giovane principe, nipote o fratello o figlio delle
vittime, ritorna dall'esilio, difende la legge violata, raccoglie intorno a sé
i signori scacciati, personifica le speranze di un ordine nuovo e della
giustizia.
È significativo il fatto che, in questi drammi storici i
nomi stessi si ripetano ossessivamente insieme agli stessi titoli, di dramma in
dramma: c'è sempre un Riccardo, un Edoardo, un Enrico, e di volta in volta,
sono il sovrano, il pretendente, il villain, ecc.
Essi hanno gli stessi titoli: c'è sempre un Duca di York, un
principe di Galles, il Duca di Clarence, e a seconda delle volte, tocca ora
all'uno ora all'altro, di essere coraggioso, astuto o crudele.
C'è un passo caratteristico in "Riccardo III", che
è una delle più grandi tragedie storiche, insieme a "Riccardo II", in
cui la Regina Margherita e la Duchessa di York parlano tra di loro e la prima
dice: " Io avevo un Edoardo, finché un Riccardo non lo uccise.. Tu avevi
un Riccardo, finché un Riccardo non lo uccise."
E la Duchessa di York risponde:" Io avevo un Riccardo
pure e tu l'hai ucciso: Io pure avevo un Rutland e tu hai aiutato ad
ucciderlo"
Da questa concetto della storia non risulta una visione
ottimistica, e neppure teologica, cioè la storia che si dirige verso qualcosa,
ma deriva una concezione estremamente pessimistica della storia, come una serie
di avvenimenti che inevitabilmente si ripetono, seguendo lo stesso tracciato,
in cui il nuovo potere spodesta il vecchio che si è reso responsabile di una
serie di fatti e di cose, nel momento in cui ha trovato il suo luogo di
elezione.
Questo nuovo potere deve, necessariamente, sottostare alla
stessa legge di crudeltà, dell' alienazione, del favoritismo, del clientelismo,
a cui il vecchio sovrano aveva già ceduto, di modo che, anche il nuovo potere
diventa vecchio, e verrà sradicato da un altro nuovo potere che sarà destinato
alla stessa storia di corruzione e di fine.
Come è evidente, non potrebbe essere più pessimistica la
visione di Shakespeare, e Knott usa a questo proposito un'immagine che dovrebbe
diventare una metafora ossessiva: l'immagine del "Grande Meccanismo"
che è la storia.
Questo "Grande Meccanismo" si potrebbe chiamare,
usando una metafora che forse toccherebbe, il meccanismo d' incenerimento collettivo,
cioè la necessità della distruzione della morte attraverso questa farsa del potere
e dell'ambiente.
Nessuna visione teologica, nessuna visione escatologica:
cambiano i sovrani, ma la scala dei valori è sempre la stessa.
Shakespeare non riesce a trovare nella crisi di cui è
testimone una nuova concezione del mondo e della società che possa rimpiazzare
quella vecchia, questo vecchio ordine, e
qui sta la sua grandezza: aver saputo spalancare la porta su questo senso della
fine senza proporre dei facili rimedi, delle piccole utopie.
Questa è la prospettiva che porterà, infine, ad
"Hamlet", il dramma in cui il potere viene ad essere sovrastato dal
dramma ben più moderno, ben più assillante della risposta che l'uomo deve dare
al ruolo che gli viene imposto dentro questo Grande Meccanismo.
Amleto rifiuta il ruolo: qui sta la ragione fondamentale del
suo ritardo, non è una visione psicologica, puramente narrativa; Amleto non può
entrare in in questa drammaturgia del vecchio ordine.
E per capire Amleto, effettivamente, bisogna partire dal
Riccardo II e III.
In un altro punto, dice ancora Kott, la tragedia
shakespeariana è l'antico dramma della tragedia classica di Eschilo e Sofocle,
in maniera particolare.
Non c'è il fato che determina il destino dei personaggi: la
grandezza dell'idealismo di Shakespeare sta nella sua capacità di percepire il
diverso grado in cui gli uomini sono impegnati nella storia.
Gli uni la creano e ne cadono vittime, altri credono di
crearla e ne cadono vittime, altri ancora non creano la storia, né credono di
crearla, ma cadono vittime lo stesso.
I primi sono i re, i secondi sono i confidenti dei re e gli
esecutori del loro ordine, le ruote dentate del Grande meccanismo; i terzi sono
semplicemente i cittadini del regno, sempre vittime, "carne da
cannone" come dirà Shakespeare in una sua tragedia.
Kott fa giustamente notare che Brecht ha preso molto da
Shakespeare. Questo grande Meccanismo diventa una specie di vortice, e proprio
per il suo ferreo realismo spalanca l'angoscia di Amleto, perché rivela la
vanità di questo agitarsi nella storia, agitarsi sulla scena.
Ecco la metafora del mondo come teatro che si è vista nei
Sonetti, e diventare pervasiva nel teatro shakesperiano, e di cui bisogna
ricordare la famosa battuta finale di Macbeth: "Che cosa siamo noi, che
cosa veniamo a fare su questo palcoscenico di folli? A recitare la storia piena
di urla e di furore che significa nulla".
Sorge la metafora del mondo come teatro, e siamo di fronte
al baratro della prospettiva barocca, nel senso del grottesco, dell'assurdo di
essere pupazzi della storia, non più governata da un dio che abbia un progetto
per questi attori, ma governata da forze irrazionali, che si possono ben
chiamare, per usare la metafora di Kott, le forze di un grande meccanismo
extrapersonale, extradivino, che ha sollecitato anche la fantasia di autori più
moderni, come Congreve, per esempio.
Se questa è la prospettiva, risulta chiara una cosa: che
l'uomo, il personaggio dentro la storia, dentro il teatro shakespeariano, che più ha consapevolezza della vanità della
storia, non può che rifiutarsi di recitarla.
Ed è il caso di Amleto, da un punto di vista intellettuale.
Oppure non può che misurare la sua fondamentale nullità, nel caso di King Lear,
attraverso la prospettiva della pazzia.
La follia, nel teatro elisabettiano, e particolarmente in
Shakespeare, non è altro che la risposta di una mente sana alle imposture della
cosiddetta verità.
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Locandina per King Lear - interprete Laurence Olivier |
La verità è veramente folle, la verità è la fine, la verità
dell'ordine costituito è la morte; rispondere a questa verità non potrà essere
altro che porsi nella prospettiva della follia, cioè stravolgere questa verità.
Questo è il paradigma fondamentale di King Lear, la tragedia
dei pazzi da tutti i punti di vista: da Edgardo a King Lear, a Gloucester; sono
tutti presi nel vortice, che è un vortice di annullamento dei valori
tradizionali, di stravolgimento di questi valori, che si risolve attraverso il
linguaggio della follia.
Naturalmente si può capire quanto sia moderno Shakespeare da
questa prospettiva, perché veramente si può assimilare tutta l'esperienza
moderna.
Una risposta, una volta che si sia rotta la fiducia nella
storia, la fiducia negli uomini, non porterà altro che nel paradosso, che
rovescia la verità; è molto più vero della cosiddetta verità, però resta
sostanzialmente improduttivo, un segno di assenza, di inazione, di passività
(vedi di nuovo Amleto e King Lear); non è un segno dell'azione, perché l'azione
viene inevitabilmente commessa dal male.
La storia che Shakespeare mette in scena, non è la storia
convenzionale. Dice molto giustamente Kott ad un certo punto: "Molto
spesso in teatro la storia non è altro che una grande scenografia, sul cui
sfondo i personaggi amano, odiano, soffrono, vivono il proprio dramma e
risolvono le proprie faccende personali."
Evidentemente, questa è una storicità solo apparente.
Ci sono, invece, dei drammi in cui la storia non è né uno
sfondo, né una decorazione, cioè non è un dramma storico secondo i cliché dei
"colossal" hollywoodiani, è ancora la storia in quanto scenografia,
falsa ricostruzione.
Ci sono, invece, dei drammi in cui la storia non è uno
sfondo, né una decorazione, e in cui essa viene riprodotta sulla scena da
attori travestiti da personaggi storici.
Sono attori che conoscono la storia, lo sappiamo a memoria,
e difficilmente vanno fuori parte.
Un classico di questo genere drammatico era Schiller.
Marx definiva i suoi personaggi i portavoce delle idee
contemporanee: I personaggi interpretano la storia perché ne conoscono lo
svolgimento.
Tuttavia, neanche in questo caso si ha una vera
drammatizzazione della storia.
È stato drammatizzato soltanto un manuale di storia, un
manuale che può essere idealista, come in Schiller, oppure materialista come in
certi drammi di Georg Büchner, Brecht, ma che resta sempre un manuale.
La storia di Shakespeare differisce da entrambi i generi
sopra descritti: essa si svolge sulla scena, non è mai recitata.
Essa non è né uno sfondo, né una decorazione e neppure una
grande scenografia; la storia è protagonista stessa della tragedia.
Ma di quale tragedia?
Qui viene il senso della tragicità storica di Shakespeare
che scaturisce dalla convinzione che la storia non ha un senso, resta immobile,
oppure ripete in continuazione il suo ciclo crudele.
C'è un passo nel Riccardo II, in cui questo è reso
esplicitamente.
Riccardo II medita sulla sua condizione di re detronizzato:
"Entro nel cavo della corona che cinge le tempie di un re, la morte tien
corte e là siede beffarda schernendo con un suo ghigno la maestà, e la pompa di
lui, concedendogli un breve respiro, una breve scena, in cui egli recita la
parte del monarca.
Si fa temere ed uccidere con gli sguardi. E dopo averne così
assecondato gli umori, la morte vien da ultimo e così uno spillino trapassa il
muro del castello, ed addio re."
È una visione in cui tutta la scala della grandezza umana è
immediatamente soffiata via dal senso della morte, dal senso della fine della
morte, cioè la morte non vista attraverso un riconoscimento dell'azione che
l'uomo ha compiuto nel mondo, nelle prospettive che erano state le prospettive
medioevali di Dante.
No, qui c'è un totale senso di assenza dei significati, per
cui tutti questi grandi personaggi si agitano in una sorta di farsa crudele: si
spodestano, si uccidono, s'ingannano, ma inevitabilmente, conoscono un destino
affine.
Come "Amleto", "King Lear" è la tragedia
dell'uomo contemporaneo a Shakespeare. In Shakespeare tutti i valori umani sono
fragili, e il mondo è più forte dell'uomo.
Il rullo implacabile della storia schiaccia tutto e tutti;
l'uomo è definito dalla situazione, dal gradino della scala su cui si trova e
che determina tutte le sue libertà di scelta.
Per quanto Shakespeare veda la storia come una grande farsa,
è soltanto nei rapporti reciproci degli altri e della propria posizione dentro
questi rapporti, della propria collocazione dentro una scala che l'uomo si definisce.
La tragedia di King Lear è la tragedia dell'uomo che abdica,
e nel momento in cui abdica non è più niente, e affronta l'esperienza di questo
niente, che non può approdare a qualcosa, che non può approdare alla follia.
Non esiste più l'ordine, non esiste più l'identità di Lear
"Io non sono Lear, chi sono io?"
Questo, a mio avviso, può essere considerato il paradigma
fondamentale di King Lear che d'altra parte, governa tutta la scena del Primo
Atto.
analisi acuta di un testo difficile. Brava.
RispondiEliminaAnnarita
Saggio interessantissimo sul capolavoro di Shakespeare. Fragilità, strategia, finzione, follia. Disfacimento. "insegnami a mentire".
RispondiEliminaGrazie Annalisa, in fondo è un ritratto della nostra società.
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