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lunedì 17 dicembre 2018

King Lear e la sovranità in Shakespeare


di Mimma Zuffi



KING LEAR è una tragedia che appartiene alla fase matura di Shakespeare. Fu scritta probabilmente nel 1605-6, ed ha ricevuto moltissime attenzioni dalla critica, specialmente negli ultimi anni, come una delle più grandi, se non la più grande tragedia di Shakespeare.
C'è stato un periodo, soprattutto quello romantico, in  cui King Lear era stato considerato impossibile a recitarsi; un dramma che per le sue considerazioni sulla natura dell'uomo, della storia, il senso della nostra esistenza non poteva essere messo in scena in maniera soddisfacente.
Questa era la posizione di molti critici romantici.
Certamente, se noi consideriamo le messe in scena che ci davano di King Lear nel teatro naturalistico, illusionistico dell' Ottocento, con formidabili scenografie, con questo vecchio che andava in giro per la scena con il suo bastone, tutto addobbato di parrucca e vestiti particolarmente sfarzosi, ci rendiamo conto che King Lear diventa una sorta di controsenso: se è recitato, non regge alla recitazione. King Lear resta indubbiamente una tragedia di difficilissima interpretazione, e una delle ultime conferme è venuta dal King Lear di Strehler che, a mio parere, è stato uno pseudo-fallimento anche se fortemente incensato dalla critica.
Questo dramma fu, con tutta probabilità, suggerito a Shakespeare alla stessa maniera di altre sue tragedie, da alcune fonti che  egli poteva riscontrare nella letteratura del suo tempo.


Shakespeare non inventa le sue storie, e in generale si può dire che nessuno dei drammaturghi elisabettiani inventa le sue storie. Esse sono tutte tratte dalle fonti più varie, dalle cronache di Holinshed (come è il caso di King Lear e di altri drammi di Shakespeare), da novelle continentali, per esempio quelle del Bandello  (sarà per esempio il caso della "Duchess of Malfi" di Webster),fonti disperate, come l' "Arcadia" di Sidney, che è una grande miscellanea di fatti, avvenimenti, storie e leggende che costituì un vero e proprio magazzino di idee, di intrecci per i drammaturghi del tempo.
Shakespeare si riferisce certamente alla cronaca di Holinshed, dove si legge la storia di Lear collocata in un tempo estremamente lontano; questa è la tragedia di Shakespeare che si colloca più lontano nel tempo rispetto a tutte le altre. La fonte storica abituale di Shakespeare, "The Second Booke of the Historie of England" (1577, Raphael Holinshed) riportava la storia di re Lear, ma poteva trovarsi anche in "The Mirror of Magistrates" (nella sezione aggiunta nel 1577 da John Higgins), nel poema "The Faerie Queene " (1596) di Edmund Spenser, precisamente nel canto X, libro II; oppure nel dramma anonimo pubblicato nel 1605 (ma rappresentato prima) "The True Chronicle Historie of king Lear" .
É un tempo estremamente lontano, l'anno 3105 indica l'anno dell'inizio del mondo, perché a quei tempi, fino al Seicento, pensavano di poter datare la storia del mondo, e la datavano a 4.000 anni circa  e non più.
Questo anno 3.105 corrisponderebbe a un periodo anteriore, addirittura al periodo della fondazione di Roma: cioè un periodo perso nelle brume del tempo.
La storia raccontata da Holinshed ha vari punti di contatto con il King Lear di Shakespeare; cioè la parte iniziale, la storia di antichissime ascendenze folcloristiche del re che divide il suo regno tra le tre figlie, ma una di queste non risponde adeguatamente, e il re la disereda.
Dopo, la cronaca, in effetti, cambia e Shakespeare si allontana nettamente dalla
sua fonte.
Da un'altra fonte Shakespeare ebbe, verosimilmente, un suggerimento;  si tratta di un altro grande libro del periodo, "The Fairie Queen" di Spenser, il canto X del II libro, dove viene brevemente, nel giro di sei stanze, delineata la tragica storia di Lear, in quanto si conclude con il suicidio di Cordelia che s'impicca; ma per quanto riguarda King Lear stesso, la sua storia non è tragica, anzi ha un suo lieto fine perché in questa fonte King Lear viene salvato da Cordelia che gli restituisce, addirittura, il regno che lui aveva donato alle figlie ingrate.
In King Lear si può riconoscere il subplot, l'intreccio secondario di Gloucester e dei figli Edmondo e Edgardo, ed è l'unica volta in cui Shakespeare lo usa per una tragedia in quanto non l'aveva trovato in alcuna altra fonte - plot e subplot.
Egli aveva trovato la storia nuda, e del tutto autonoma della storia di Lear, nella "Arcadia" di Sidney, e quindi la riprende per immetterla in un discorso estremamente complesso di due storie parallele, che si ricongiungono in una grande scena del quarto atto, in cui Lear incontra Gloucester cieco.
Queste sono solo alcune informazioni sommarie sul King Kear.
Vorrei usare un avvicinamento a King KLear usando in buona parte la prospettiva di J. Kott, autore di "Shakespeare nostro contemporaneo". La lettura che Kott compie di King Lear è interessante, ma è molto parziale, cioè Kott vede King Lear fianco a fianco di Beckett, cioè un drammaturgo nostro contemporaneo.
Egli lo vede come il dramma e la tragedia dell'assurdo e del grottesco; il che è senz'altro vero, però Kott tende a modernizzare oltre misura Shakespeare, e questo può essere pericoloso perché si può perdere il senso storico della crisi che Shakespeare stava vivendo in quel  suo particolare periodo.
È vero che i termini di raffronto tra la crisi di cui Shakespeare è testimone e la crisi del nostro tempo sono molto similari, però è anche vero che nel frattempo la storia si è mossa, ha cambiato prospettive, elementi e relazioni.
Perciò, per pura e semplice equazione tra la crisi del primo '600 e la crisi del primo '800, può interessare solo sul filo di un' analogia approssimativa, non ci può interessare come identità assoluta, perché tale identità non c'è.
Interessante è il discorso che Kott fa nel primo capitolo introduttivo al suo libro, dove riprendendo idee e spunti di altra critica, anche lui tende a non citare la critica, ci mostra qual è l'atteggiamento di Shakespeare nei confronti della sua storia e del suo tempo.
È un periodo estremamente complesso e difficile, è il periodo di un Rinascimento che nasce fuori tempo in Inghilterra, e nel momento in cui nasce già s'incontra con la crisi che il continente stava sperimentando da tempo.
È la crisi del barocco, della conoscenza, la crisi cosmologica dell'uomo che ha perso i suoi punti di riferimento sicuri nell'ordine dell'universo, ed è una crisi che al tempo stesso l'ordine politico, tradizionale, il senso della storia, che non è più vista in una visione teleologica, né in una visione escatologia, cioè visione di riscatto nell'al di là e che, pertanto, coinvolge la crisi della fede religiosa.
Shakespeare è un uomo molto tormentato e dubbioso per quanto riguarda l'ordine universale, metafisico.
Shakespeare è un grande, non soltanto perché ha capacità straordinarie nella
Locandina della riduzione televisiva
con Anthony Hopkins
composizione del linguaggio, ma è un grande proprio perché mette queste capacità formali al servizio di uno stravolgimento di tutti i codici conoscitivi che gli venivano in eredità dal Tardo Medioevo, dallo strano Rinascimento inglese.
È grande nella misura in cui si fa testimone di queste crisi fino in fondo,  Shakespeare, nelle sue grandi tragedie ne tocca tutte le parti. Egli vede progressivamente sfaldarsi qualsiasi disegno della storia, qualsiasi senso della vita, e soltanto occasionalmente riesce a trovare un ancoraggio in una visione ancora cristiana; occasionalmente, si è detto, perché sono pochi i luoghi in cui Shakespeare viene fuori con un riscatto, con una fede che possa placare  questa visione tragica della vita.
Uno di questi luoghi è proprio, stranamente, "Hamlet", la più grande tragedia della crisi intellettuale che conosce, nell'ultimo atto, secondo la prospettiva di Amleto, una qualche possibilità di salvezza nell'assoggettamento ai disegni della "Providence", della provvidenza ancora in senso cristiano.
Ma è un caso: Shakespeare, in genere, con contempla l'al di là, lo si nota anche nei Sonetti, non c'è questa misura di un al di là che dovrebbe conferire significato alle vanità dell'esistenza umana.
Nella sua produzione tragica, fin dall'inizio, Shakespeare sonda il senso della fine della crisi, dello stravolgimento dei valori; anche nei suoi drammi della prima fase, nel drammi romantici come "Romeo e Giulietta, il suo senso della storia è profondamente pessimistico.
Basti pensare al ruolo che gioca il destino in questa amarissima favola che è "Romeo e Giulietta", ma ancor più ci si può rendere conto di questo nelle tragedie storiche, nei "Chronicle Plays" che sono un po' la piattaforma di Shakespeare, prima di passare alle tragedie che non rientrano più nello schema storico.
Una certa critica ottocentesca aveva pensato che la prima fase di Shakespeare, cioè la fase che includeva anche le tragedie storiche, fosse una fase ottimistica; ma non aveva fatto i conti con i veri significati di questi drammi.
Non si tratta affatto di una fase ottimistica, ed è una fase che bisogna conoscere per rendersi conto della progressiva scalata della crisi nelle grandi tragedie "Hamlet", "Macbeth" e "King Lear" in particolare.
Per Shakespeare, dice Kott, la storia è ferma, nel senso che ogni capitolo incomincia e finisce nello stesso punto e, in ogni dramma storico, sembra descrivere un cerchio per tornare di nuovo al punto di partenza.
Questi cerchi ricorrenti sono, uno dopo l'altro, i regni dei vari re storici (anche se poi la resa storica di Skakespeare non è affatto precisa), che regnarono in Inghilterra tra la fine del XIV secolo  e gli ultimi anni del XV, cioè in quel secolo che viene prima del regno del Tudor, che sarà poi la storia vicinissima a Shakespeare. Ognuna di queste grandi tragedie storiche, che sono "King John", "EnricoIV, V e VI" e soprattutto " Riccardo II e III", inizia con la lotta per la conquista del trono, o per il suo consolidamento, e finisce con la morte del re, e con una nuova incoronazione: questo è lo schema che ci presenta sempre.
Il sovrano legittimo, dice Kott, si tira dietro una catena di delitti: egli ha schiacciato i grandi feudatari che l'avevano aiutato a impadronirsi della corona; egli ha ucciso prima i suoi nemici, poi i suoi antichi alleati, ma non è riuscito a eliminarli tutti.
Un giovane principe, nipote o fratello o figlio delle vittime, ritorna dall'esilio, difende la legge violata, raccoglie intorno a sé i signori scacciati, personifica le speranze di un ordine nuovo e della giustizia.
È significativo il fatto che, in questi drammi storici i nomi stessi si ripetano ossessivamente insieme agli stessi titoli, di dramma in dramma: c'è sempre un Riccardo, un Edoardo, un Enrico, e di volta in volta, sono il sovrano, il pretendente, il villain, ecc.
Essi hanno gli stessi titoli: c'è sempre un Duca di York, un principe di Galles, il Duca di Clarence, e a seconda delle volte, tocca ora all'uno ora all'altro, di essere coraggioso, astuto o crudele.
C'è un passo caratteristico in "Riccardo III", che è una delle più grandi tragedie storiche, insieme a "Riccardo II", in cui la Regina Margherita e la Duchessa di York parlano tra di loro e la prima dice: " Io avevo un Edoardo, finché un Riccardo non lo uccise.. Tu avevi un Riccardo, finché un Riccardo non lo uccise."
E la Duchessa di York risponde:" Io avevo un Riccardo pure e tu l'hai ucciso: Io pure avevo un Rutland e tu hai aiutato ad ucciderlo"
Da questa concetto della storia non risulta una visione ottimistica, e neppure teologica, cioè la storia che si dirige verso qualcosa, ma deriva una concezione estremamente pessimistica della storia, come una serie di avvenimenti che inevitabilmente si ripetono, seguendo lo stesso tracciato, in cui il nuovo potere spodesta il vecchio che si è reso responsabile di una serie di fatti e di cose, nel momento in cui ha trovato il suo luogo di elezione.
Questo nuovo potere deve, necessariamente, sottostare alla stessa legge di crudeltà, dell' alienazione, del favoritismo, del clientelismo, a cui il vecchio sovrano aveva già ceduto, di modo che, anche il nuovo potere diventa vecchio, e verrà sradicato da un altro nuovo potere che sarà destinato alla stessa storia di corruzione e di fine.
Come è evidente, non potrebbe essere più pessimistica la visione di Shakespeare, e Knott usa a questo proposito un'immagine che dovrebbe diventare una metafora ossessiva: l'immagine del "Grande Meccanismo" che è la storia.
Questo "Grande Meccanismo" si potrebbe chiamare, usando una metafora che forse toccherebbe, il meccanismo d' incenerimento collettivo, cioè la necessità della distruzione della morte attraverso questa farsa del potere e dell'ambiente.
Nessuna visione teologica, nessuna visione escatologica: cambiano i sovrani, ma la scala dei valori è sempre la stessa.
Shakespeare non riesce a trovare nella crisi di cui è testimone una nuova concezione del mondo e della società che possa rimpiazzare quella vecchia, questo vecchio  ordine, e qui sta la sua grandezza: aver saputo spalancare la porta su questo senso della fine senza proporre dei facili rimedi, delle piccole utopie.
Questa è la prospettiva che porterà, infine, ad "Hamlet", il dramma in cui il potere viene ad essere sovrastato dal dramma ben più moderno, ben più assillante della risposta che l'uomo deve dare al ruolo che gli viene imposto dentro questo Grande Meccanismo.
Amleto rifiuta il ruolo: qui sta la ragione fondamentale del suo ritardo, non è una visione psicologica, puramente narrativa; Amleto non può entrare in in questa drammaturgia del vecchio ordine.
E per capire Amleto, effettivamente, bisogna partire dal Riccardo II e III.
In un altro punto, dice ancora Kott, la tragedia shakespeariana è l'antico dramma della tragedia classica di Eschilo e Sofocle, in maniera particolare.
Non c'è il fato che determina il destino dei personaggi: la grandezza dell'idealismo di Shakespeare sta nella sua capacità di percepire il diverso grado in cui gli uomini sono impegnati nella storia.
Gli uni la creano e ne cadono vittime, altri credono di crearla e ne cadono vittime, altri ancora non creano la storia, né credono di crearla, ma cadono vittime lo stesso.
I primi sono i re, i secondi sono i confidenti dei re e gli esecutori del loro ordine, le ruote dentate del Grande meccanismo; i terzi sono semplicemente i cittadini del regno, sempre vittime, "carne da cannone" come dirà Shakespeare in una sua tragedia.
Kott fa giustamente notare che Brecht ha preso molto da Shakespeare. Questo grande Meccanismo diventa una specie di vortice, e proprio per il suo ferreo realismo spalanca l'angoscia di Amleto, perché rivela la vanità di questo agitarsi nella storia, agitarsi sulla scena.
Ecco la metafora del mondo come teatro che si è vista nei Sonetti, e diventare pervasiva nel teatro shakesperiano, e di cui bisogna ricordare la famosa battuta finale di Macbeth: "Che cosa siamo noi, che cosa veniamo a fare su questo palcoscenico di folli? A recitare la storia piena di urla e di furore che significa nulla".
Sorge la metafora del mondo come teatro, e siamo di fronte al baratro della prospettiva barocca, nel senso del grottesco, dell'assurdo di essere pupazzi della storia, non più governata da un dio che abbia un progetto per questi attori, ma governata da forze irrazionali, che si possono ben chiamare, per usare la metafora di Kott, le forze di un grande meccanismo extrapersonale, extradivino, che ha sollecitato anche la fantasia di autori più moderni, come Congreve, per esempio.
Se questa è la prospettiva, risulta chiara una cosa: che l'uomo, il personaggio dentro la storia, dentro il teatro shakespeariano,  che più ha consapevolezza della vanità della storia, non può che rifiutarsi di recitarla.
Ed è il caso di Amleto, da un punto di vista intellettuale. Oppure non può che misurare la sua fondamentale nullità, nel caso di King Lear, attraverso la prospettiva della pazzia.
La follia, nel teatro elisabettiano, e particolarmente in Shakespeare, non è altro che la risposta di una mente sana alle imposture della cosiddetta verità.
Locandina per King Lear -
interprete Laurence Olivier
La verità è veramente folle, la verità è la fine, la verità dell'ordine costituito è la morte; rispondere a questa verità non potrà essere altro che porsi nella prospettiva della follia, cioè stravolgere questa verità.
Questo è il paradigma fondamentale di King Lear, la tragedia dei pazzi da tutti i punti di vista: da Edgardo a King Lear, a Gloucester; sono tutti presi nel vortice, che è un vortice di annullamento dei valori tradizionali, di stravolgimento di questi valori, che si risolve attraverso il linguaggio della follia.
Naturalmente si può capire quanto sia moderno Shakespeare da questa prospettiva, perché veramente si può assimilare tutta l'esperienza moderna.
Una risposta, una volta che si sia rotta la fiducia nella storia, la fiducia negli uomini, non porterà altro che nel paradosso, che rovescia la verità; è molto più vero della cosiddetta verità, però resta sostanzialmente improduttivo, un segno di assenza, di inazione, di passività (vedi di nuovo Amleto e King Lear); non è un segno dell'azione, perché l'azione viene inevitabilmente commessa dal male.
La storia che Shakespeare mette in scena, non è la storia convenzionale. Dice molto giustamente Kott ad un certo punto: "Molto spesso in teatro la storia non è altro che una grande scenografia, sul cui sfondo i personaggi amano, odiano, soffrono, vivono il proprio dramma e risolvono le proprie faccende personali."
Evidentemente, questa è una storicità solo apparente.
Ci sono, invece, dei drammi in cui la storia non è né uno sfondo, né una decorazione, cioè non è un dramma storico secondo i cliché dei "colossal" hollywoodiani, è ancora la storia in quanto scenografia, falsa ricostruzione.
Ci sono, invece, dei drammi in cui la storia non è uno sfondo, né una decorazione, e in cui essa viene riprodotta sulla scena da attori travestiti da personaggi storici.
Sono attori che conoscono la storia, lo sappiamo a memoria, e difficilmente vanno fuori parte.
Un classico di questo genere drammatico era Schiller.
Marx definiva i suoi personaggi i portavoce delle idee contemporanee: I personaggi interpretano la storia perché ne conoscono lo svolgimento.
Tuttavia, neanche in questo caso si ha una vera drammatizzazione della storia.
È stato drammatizzato soltanto un manuale di storia, un manuale che può essere idealista, come in Schiller, oppure materialista come in certi drammi di Georg Büchner, Brecht, ma che resta sempre un manuale.
La storia di Shakespeare differisce da entrambi i generi sopra descritti: essa si svolge sulla scena, non è mai recitata.
Essa non è né uno sfondo, né una decorazione e neppure una grande scenografia; la storia è protagonista stessa della tragedia.
Ma di quale tragedia?
Qui viene il senso della tragicità storica di Shakespeare che scaturisce dalla convinzione che la storia non ha un senso, resta immobile, oppure ripete in continuazione il suo ciclo crudele.
C'è un passo nel Riccardo II, in cui questo è reso esplicitamente.
Riccardo II medita sulla sua condizione di re detronizzato: "Entro nel cavo della corona che cinge le tempie di un re, la morte tien corte e là siede beffarda schernendo con un suo ghigno la maestà, e la pompa di lui, concedendogli un breve respiro, una breve scena, in cui egli recita la parte del monarca.
Si fa temere ed uccidere con gli sguardi. E dopo averne così assecondato gli umori, la morte vien da ultimo e così uno spillino trapassa il muro del castello, ed addio re."
È una visione in cui tutta la scala della grandezza umana è immediatamente soffiata via dal senso della morte, dal senso della fine della morte, cioè la morte non vista attraverso un riconoscimento dell'azione che l'uomo ha compiuto nel mondo, nelle prospettive che erano state le prospettive medioevali di Dante.
No, qui c'è un totale senso di assenza dei significati, per cui tutti questi grandi personaggi si agitano in una sorta di farsa crudele: si spodestano, si uccidono, s'ingannano, ma inevitabilmente, conoscono un destino affine.
Come "Amleto", "King Lear" è la tragedia dell'uomo contemporaneo a Shakespeare. In Shakespeare tutti i valori umani sono fragili, e il mondo è più forte dell'uomo.
Il rullo implacabile della storia schiaccia tutto e tutti; l'uomo è definito dalla situazione, dal gradino della scala su cui si trova e che determina tutte le sue libertà di scelta.
Per quanto Shakespeare veda la storia come una grande farsa, è soltanto nei rapporti reciproci degli altri e della propria posizione dentro questi rapporti, della propria collocazione dentro una scala che l'uomo si definisce.
La tragedia di King Lear è la tragedia dell'uomo che abdica, e nel momento in cui abdica non è più niente, e affronta l'esperienza di questo niente, che non può approdare a qualcosa, che non può approdare alla follia.
Non esiste più l'ordine, non esiste più l'identità di Lear "Io non sono Lear, chi sono io?"
Questo, a mio avviso, può essere considerato il paradigma fondamentale di King Lear che d'altra parte, governa tutta la scena del Primo Atto.

 
Ennio Fantastichini nei panni di King Lear 

3 commenti:

  1. analisi acuta di un testo difficile. Brava.
    Annarita

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  2. Saggio interessantissimo sul capolavoro di Shakespeare. Fragilità, strategia, finzione, follia. Disfacimento. "insegnami a mentire".

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  3. Grazie Annalisa, in fondo è un ritratto della nostra società.

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