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lunedì 21 luglio 2014

Psicologia del cibo

di Tiziana Viganò

"Le déjeuner sur l'Herbe":
Dipinto (1862-63) di Edouard Manet.
Parigi, Musée d'Orsay
"Le déjeuner sur l'herbe"(d'après Edouard Manet):
dipinto (1960) di Pablo Picasso, Musée National Picasso
Alimentarsi è un bisogno primario cui nessuno, dal punto di vista fisico, può fare a meno. Però, mentre tra i popoli del Terzo Mondo, il significato è esattamente questo e i problemi caso mai derivano dalla possibilità di poter mangiare per sopravvivere o morire di fame, nella nostra cultura di paesi cosiddetti avanzati, il cibo cambia valenza: dove c’è ricchezza di alimenti di ogni tipo e facilità di accesso, facciamo diventare problematico qualcosa che dovrebbe essere semplice e naturale. Alcuni studi hanno verificato che gli immigrati di prima generazione dapprima non comprendono il nostro atteggiamento nei confronti del cibo, ma poi si adeguano ai nostri modelli, tendono a ingrassare molto, e già la seconda generazione presenta gli stessi nostri problemi nel rapporto con l’alimentazione. 
Invece di essere espressione di una equilibrata cura di sé, attraverso l’introduzione in giusta misura di cose salutari, il cibo può diventare un nemico, può essere fonte di angoscia perché comporta l’introduzione nel corpo di qualcosa di estraneo, e questo, in alcune persone disturbate, provoca gravi difficoltà e patologie. Rispecchia però il timore primordiale dell’uomo primitivo di essere contaminato, intossicato, oppure il desiderio/repulsione di assumere le caratteristiche di quello che si introduce nel corpo – eppure tra popoli come gli aztechi o i cannibali questo diventava un fenomeno religioso.

Il condizionamento sociale pesa enormemente sia sulle nostre scelte alimentari che sulla percezione e sulla immagine mentale del nostro corpo. Chi non aderisce ai modelli culturali imperanti prova disagi che sfociano in  disturbi del comportamento, perché si crea una frattura tra il significato simbolico e il significato fisico, tra mente e corpo. 
E’ un grave pericolo considerare il cibo come strumento per essere riconosciuti e approvati dall’ambiente circostante: solo chi è sano, bello, in forma, può essere accettato dalla società e avere successo? A Sparta, i bambini nati malformati venivano buttati dalle rupi del Taigeto…
Gli obesi oggi sono stigmatizzati perché sono sinonimo di mancanza di controllo, mentre in tempi diversi erano valutati perché portatori di opulenza, ricchezza e quindi possibilità di mangiare cibo a volontà in un mondo dove la fame regnava sovrana.
I mass-media oggi diffondono messaggi, più o meno espliciti ma sempre molto efficaci: mangiare in un certo modo, consumare determinati cibi può rendere persone perfette sane felici e di successo. Tutti questi obiettivi desiderabili sono delegati esclusivamente all’aspetto estetico e alla perfezione del corpo,  così il soggetto si sente costretto ad adeguarsi al modello sociale a ogni costo, anche a prezzo della propria salute. Per le donne soprattutto, l’immagine della bellissima, magrissima, non troppo colta e intelligente, magari anche zitta, docile, disponibile e con l’aspetto della ventenne anche a sessant’anni è uno stereotipo granitico che, anche sotto le apparenze della difesa del femminile da parte degli uomini “illuminati”, non riesce, ancora oggi, ad essere demolito.  
"Le tre età della donna": dipinto (1905)
di G. Klimt, Roma,
Galleria Nazionale d'Arte Moderna 
Il corpo femminile subisce ancora una volta il potere della cultura dominante: siamo in un momento storico in cui la donna non è più quella del modello tradizionale del Novecento, moglie madre casalinga, ma non è neppure la nuova donna che ha raggiunto le pari opportunità dopo decenni di lotte post sessantottine. E’ un periodo di transizione in cui le si chiede tantissimo a livello psicofisico, in cui domina il mito della bellezza e dell’eterna giovinezza, spesso secondo modelli irraggiungibili dalle persone comuni.
L’eccesso di controllo, la volontà di ferro che dà  il potere di sopprimere un bisogno vitale come la fame – nell’anoressia – o il contrario, l’incontinenza – nel comportamento compulsivo e nella bulimia – sono sintomi feroci di un malessere che nel mondo contemporaneo costringe le persone più fragili a fare di tutto per essere quello che gli altri si attendono da loro. 
Una sfida alla morte, la distruzione del desiderio di essere quello che si è: la società implacabile impedisce di essere se stessi se non a prezzo di gravi disagi, in una lotta continua contro ansia da prestazione e depressione.
Non è un caso che tutti i vari disturbi del comportamento alimentare, di cui l’anoressia e la bulimia costituiscono solo le forme più gravi, abbiano raggiunto negli ultimi anni livelli preoccupanti,  per di più in fasce di età sempre più basse e non solo nelle femmine adolescenti– più tradizionalmente colpite da queste gravissime forme patologiche – ma anche tra i maschi adolescenti e adulti,  e perfino tra i bambini, finora meno interessati a questi disturbi. Per non parlare dell’obesità dilagante, che fotografa una contraddizione e una sfida tra il desiderio di essere come la società impone e la rabbia, l’ansia e l’incertezza anestetizzate con la voracità: la ricerca di un godimento materiale facile e possibile, che guarda all’immediato piacere piuttosto che a un futuro incerto.
Questa voracità agita o negata sul cibo nasconde spesso l’incapacità di assaporare la vita in altri modi.
Se il cibo ha funzione di Vita, il suo rifiuto o l’autodistruzione attraverso l’eccesso sono negazione della Vita e prendono il significato della Morte.
"Il banchetto di nozze di Amore e Psiche": affresco (1532-35) di Giulio Romano. Mantova, Palazzo Te 
In un libro fondamentale del 1942, “L’ Io, la fame l’aggressività”, Fritz Pearls, fondatore della psicoterapia della Gestalt, mette in relazione la modalità di approccio al cibo con l’aggressività: questa va intesa nel senso molto positivo di ad-gredire (dal latino andare verso), è la spinta alla crescita fisica, esistenziale e all’autorealizzazione. Possiamo anche chiamarla assertività, e non ha nessun nesso con l’accezione comune negativa del termine. 
Il neonato si attacca al seno materno e introietta  il nutrimento senza uno sforzo critico; con lo sviluppo dei denti si crea l’inibizione al morso e la paura di ferire e contemporaneamente si sviluppa la capacità di mordere e masticare, quindi di distruggere e assimilare  sia il cibo che la realtà quando sia nutriente per l’Io; così come è importante che  nasca anche la capacità di disgustarsi e rifiutare la realtà nociva all’Io. 
Quindi nella simbologia cibo-comportamento la fame è la capacità dell’Io di soddisfare i propri bisogni attraverso un’attività auto affermativa – l’aggressività o assertività – che gli consente di assimilare o rifiutare l’ambiente a seconda che questo sia nutriente o dannoso all’Io, di destrutturarlo o ristrutturarlo aprendosi alla possibilità di vivere il mondo con pienezza e di adeguarsi all’ambiente con equilibrio, sapendo dire sì o no. Il nostro rapporto col cibo riflette tutto questo, è specchio della nostra crescita e della nostra psiche.   
Qualche esempio rapido e semplice serve a chiarire, anche se è meglio non generalizzare: l’inibizione forzata al seno e lo svezzamento precoce possono provocare incapacità ad afferrare quello che serve nella vita; la paura di ferire può diventare senso di colpa, paura di essere ferito, di affrontare un compito, di realizzarsi; molti adulti che ingoiano il cibo come se fosse liquido, sono impazienti, avidi, incapaci di raggiungere soddisfazioni;  le persone che ingoiano bocconi interi spesso non sanno digerire i fatti della vita, non tollerano offese, non sanno reagire assertivamente o al contrario si scaricano dannosamente su se stessi o sugli altri; quelli che hanno fame di cibo mentale e affettivo non trovano mai soddisfazione alla loro frenesia perché non sanno assimilare l’affetto che viene loro offerto, al punto che arrivano a rifiutarlo o disapprovarlo o togliergli valore se lo ottengono……gli esempi potrebbero continuare all’infinito.

"Maternità": dipinto (1916) di Gino Severini.
Cortona, Museo dell'Accademia Etrusca

"Maternità": dipinto (1928) di Tamara de Lempicka



















Il cibo ha quindi significati psicologici molto profondi, è legato alla memoria più antica, alla mamma nutrice, con il “seno buono” o il “seno cattivo” di cui parla Melanie Klein, ai ricordi piacevoli o spiacevoli, agli odori, ai sapori, alle atmosfere, alle esperienze, alle emozioni, all’erotismo, alla dipendenza, ai rapporti, anche intimi….tutte cose che assumono un’importanza molto superiore al semplice bisogno di nutrirsi, almeno nei nostri paesi ricchi dove la sopravvivenza è garantita per tutti. 
Il primo bisogno del neonato è il cibo fornito dal seno materno, ma questo comporta anche il riconoscimento di un altro da sé che è fonte di piacere o di dolore: è la prima relazione, che condiziona il futuro sviluppo della personalità del bambino, i suoi rapporti sociali e anche, ovviamente l’approccio al cibo. La mamma premurosa accudisce, accorre e placa i bisogni del bambino, senza disconoscerli, capisce il suo pianto senza ricondurlo sempre a uno stimolo di fame – che porterebbe ad alimentarlo in eccesso – e non lo ignora – atteggiamento che causerebbe incertezza, senso di abbandono e di rifiuto -. 
Il modo in cui una madre affronta l’alimentazione del suo bambino esprime l’importanza che il figlio ha per lei: il cibo non ha solo un’importanza nutrizionale, ma affettiva e relazionale. D’altro canto il bambino impara presto che il suo pianto, il suo rifiuto o meno del cibo condizionano l’atteggiamento nei suoi confronti e gli danno un senso di potere fortissimo o, al contrario un senso di inadeguatezza e di frustrazione che durerà per sempre.

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