di Heiko H. Caimi
Sotto un cielo
terso, color carta da zucchero, la vecchia signora Tamiko aspettava il tram
numero cinque sulla banchina deserta. Il vento di marzo le sollevava il kimono
leggero, e le sue mani rugose stringevano un piccolo ombrello rosso, chiuso. Le
campane del tempio Suwa[1]
suonavano in lontananza: rintocchi soffici, quasi ammutoliti dalle voci dei
corvi.
Il tram non
arrivava mai. Ma non importava.
Tamiko chiuse
gli occhi e ascoltò. Un ticchettio di piccoli passi risuonò nel silenzio. Aprì
gli occhi e vide un bambino scalzo, vestito con un yukata[2]
di lino sbiadito. Non aveva ombra. Non sembrava avere peso. Eppure i suoi passi
ticchettavano. Era lì.
«Obaasan[3],
ti ricordi di me?» chiese il bambino.
Tamiko inclinò
la testa. Il volto del piccolo le era familiare, come un haiku imparato a
memoria e poi dimenticato. In effetti le sembrava di averlo visto da qualche
parte, forse tra i riflessi di un lago in estate, o forse tra i fili di riso
stesi ad asciugare. «Dovrei?» sussurrò.
Il bambino
annuì e fece un passo avanti. Con dita delicate, toccò l’ombrello chiuso nella
mano di Tamiko. L’ombrello si aprì con un fruscio leggero, rivelando il rosso
vivido del suo tessuto. E dentro, come un piccolo universo tascabile, c’erano
petali di sakura[4]
sospesi nell’aria, senza peso, senza tempo.
Tamiko sentì
un nodo alla gola. Nel cuore dell’ombrello aperto si specchiava un cielo dell’agosto
1945: il cielo di un mattino denso di cicale, il cielo che si era sciolto in
una luce bianca e che aveva lasciato ombre impresse sul selciato.
Il bambino
sorrise. «Ora ti ricordi?».
Tamiko annuì
piano. Le mani non le tremavano più. Guardò il bambino, poi il vuoto lasciato in
fondo alla strada dal tram che non arrivava, poi l’ombrello rosso che le
offriva un cielo nuovo, diverso, di un altro colore ancora, azzurro sfumato di
un rosa tenue. Un cielo che questa volta non bruciava.
Il bambino le
prese la mano. «Vieni, Obaasan. Il tram sta arrivando».
Nel momento in
cui Tamiko salì, il tram numero cinque svanì nell’aria, lasciando solo un’eco
di campane e petali di ciliegio che danzavano nel vento di marzo.
Tutto ritorna
alla sua forma, ma nulla rimane uguale.
Heiko H. Caimi, classe 1968, è scrittore, sceneggiatore, poeta e docente di scrittura narrativa. Ha collaborato come autore con gli editori Mondadori, Tranchida, Abrigliasciolta e altri. Ha insegnato presso la libreria Egea dell’Università Bocconi di Milano e diverse altre scuole, biblioteche e associazioni in Italia e in Svizzera. Dal 2013 è direttore editoriale della rivista di letterature Inkroci. È tra i fondatori e gli organizzatori della rassegna letteraria itinerante Libri in Movimento. ha collaborato con il notiziario "InPrimis" tenendo la rubrica "Pagine in un minuto" e con il blog della scrittrice Barbara Garlaschelli "Sdiario". Ha pubblicato il romanzo "I predestinati" (Prospero, 2019) e ha curato le antologie di racconti "Oltre il confine. Storie di migrazione" (Prospero, 2019), "Anch'io. Storie di donne al limite" (Prospero, 2021) e, insieme a Viviana E. Gabrini, "Ci sedemmo dalla parte del torto" (Prospero, 2022) e "Niente per cui uccidere" (Calibano, 2024). Svariati suoi racconti sono presenti in antologie, riviste e nel web.
[1] Il
tempio Suwa (諏訪神社, Suwa Jinja) è un importante santuario shintoista
situato a Nagasaki. Nel contesto del racconto, le campane del tempio Suwa
evocano un senso di continuità e spiritualità, legando il presente con il
passato di Nagasaki.
[2] La
yukata (浴衣) è un tipo di kimono leggero e informale, solitamente
fatto di cotone o lino, indossato principalmente in estate.
[3] “Obaasan”
(おばあさん)
in giapponese significa “nonna” o “anziana signora”. È un termine rispettoso e
affettuoso, spesso usato per rivolgersi a una donna anziana, anche se non è
necessariamente una parente.
[4] I fiori
di ciliegio giapponesi, simbolo di bellezza effimera e transitorietà. La loro
caducità rappresenta la fragilità della vita e l’idea buddhista dell’impermanenza
(mujō).
Nessun commento:
Posta un commento