di Heiko H. Caimi
Quando la
signora Bassi aprì l’armadio della sorella morta, l’odore di naftalina e vecchi
fiori secchi le salì alla testa come un colpo. Non era una donna facilmente
impressionabile: aveva allevato tre figli durante la miseria e ne aveva sepolti
due senza cedere a lacrime di fronte alla folla; eppure, dinnanzi a quella
cavità scura, si sentì osservata.
Le grucce
pendevano con l’indolenza di ossa disarticolate. Una camicia maschile, larga e
lisa, si fece avanti dal mucchio di gonne come un corpo fuori posto. «Che ci fa
questo qui?» borbottò, tirando il tessuto che odorava di fumo di pipa. La
sorella Eudora non aveva mai avuto un marito, né un amante, almeno che lei
sapesse.
Udì un cigolio:
una gruccia si mosse, oscillando lenta, benché la finestra fosse chiusa e
l’aria fosse immbile. Si fece il segno della croce con la stessa velocità con
cui, anni prima, aveva afferrato un coltello per scacciare un vagabondo dalla
sua cucina.
Dietro le giacche
color pastello, intravide un rotolo di carta ingiallita. Lo srotolò: erano
pagine di un quaderno, fitte di una scrittura storta e furiosa. Il Signore
non guarda ai vestiti che indossiamo, ma a quelli che ci togliamo davanti a Lui,
diceva una riga. Un’altra: Ogni stagione persa è un debito che si accumula.
Il cuore le
batteva forte, ma non di paura: di rabbia. Quelle frasi suonavano come accuse. Riarrotolò
le pagine con stizza. Subito dopo le sembrò di udire un fruscio dietro di lei. Si
voltò di scatto, come se qualcuno fosse alle sue spalle, e non vide che l’ombra
del suo stesso corpo.
«Sciocchezze»
sibilò. «Fantasie da zitella».
Chiuse
l’armadio con uno strattone. Ma, appena fuori dalla stanza, sentì ancora il
cigolio della gruccia, ritmico come un pendolo, come se qualcuno contasse il
tempo che le restava.
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