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domenica 22 agosto 2021

Vera

 (di Marisa Vidulli)

DIO non poteva fare tutto allora ha creato la madre

proverbio ebraico

 Vera ha solo ventiquattro anni, due lunghe trecce bionde e gli occhi color pervinca, che mentre parla ora mandano bagliori ora si abbassano mansueti. Sta attaccata al manubrio della bicicletta con cui è giunta al confine presidiato dai partigiani, ha tanta paura ma parla al giovane comandante che l’ha fermata con voce ferma. La notte è buia, lontano s’odono colpi di mitraglietta. Lei temeraria e impavida a stento si trattiene dal far valere con forza le sue ragioni, ben conscia, o forse no, della situazione di pericolo in cui si trova, ma l’incoscienza della gioventù è la sua arma segreta.


Spiega con calma che deve passare il confine per raggiungere il marito insegnante che l’ha preceduta a Pola, dove entrambi hanno vinto la cattedra. Lì l’aspetta anche la sua bimba di solo un anno. Ma il comandante non vuole sentire ragioni : "Siamo in guerra, si rende conto di cosa chiede? Le ragioni del cuore non esistono più, ora valgono solo quelle delle armi e fare giustizia… bla bla bla.”

Allora come spesso avviene a chi è disperato la mente escogita un’astuzia un qualcosa che aiuti a trarsi d’impaccio, a salvarsi la vita in questo caso. La giovane si ricorda le parole in lingua slava studiate di malavoglia alla scuola italiana bilingue dove erano d’obbligo e subito cambia atteggiamento e lingua, gli risponde in slavo facendogli credere di essere dalla sua parte.

Usa molto la parola giustizia ed esprime non più la sua disperazione ma recita la parte di chi è caduto in un equivoco. "Si la resistenza è giusta; loro saranno vincitori e giustizia sarà fatta. Lei vorrebbe tanto raggiungere marito e figlia per poi tornare a dare una mano per la causa."

Nel frattempo alcuni giovani, suoi ex scolari delle elementari, hanno riconosciuto la loro giovanissima maestra di San Vincenti, Vera aveva iniziato ad insegnare in quel paesino a soli diciassette anni, e con cautela perorano la sua causa.

La notte è fredda ed assassina, come nella canzone, la giovane ha paura, non vede l’ora di andarsene.

Nessuno saprà mai perché il comandante l’abbia lasciata andare, fatto sta che il lasciapassare viene concesso seduta stante e lei risale sulla bicicletta lasciando finalmente il confine: si sente ancora addosso gli occhi di tutti quei soldati e comincia solo ora a rendersi conto del gravissimo pericolo scampato.

Ricorda le orribili storie che circolavano in paese sugli orrori perpetrati dai soldati, la tensione nervosa che ha sotteso il suo coraggio l’abbandona all’improvviso, perle di sudore le bagnano la fronte nonostante il freddo intenso, scende dalla bicicletta e si appoggia al tronco di un albero respirando a pieni polmoni l’umidità della notte.

Risale, il bosco le appare minaccioso, la strada sterrata più faticosa mentre le pedalate accompagnano i battiti del cuore: è conscia di andare verso la libertà!

Le gambe sono intorpidite dalla stanchezza, ma non importa, tra poco, ventiquattro ore al massimo, potrà riabbracciare lo sposo dai capelli rossi e la sua piccola Marisa con gli occhi pervinca come i suoi. Il loro pensiero la sostiene, la paura piano piano svanisce insieme al nodo che le attanagliava il petto, anche il corpo sembra riacquistare vigore.

Questa donna era la mia mamma: temeraria e ostinata, indomita e astuta all’occorrenza, dotata di grande intelligenza, avvezza alle fatiche del corpo ed ai dolori dell’anima, e a cui la vita non risparmiò proprio nulla. La sua mamma, la mia nonna materna, non era invece riuscita a venire via dall’Istria dopo il trattato di Osimo che arbitrariamente cedeva le terre italiane alla Iugoslavia, era rimasta nella sua casa natia ed era morta poi nelle famigerate foibe, ma questa è una lunga storia troppo triste per essere narrata.



 

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