di Giorgia Cafaro
(Copertina dell'album discografico "Think Tank" dei Blur) |
Innanzi
tutto chiariamo che la vita è un vero casino.
Non
parlo degli psicodrammi da film o dei grandi misteri dell’universo. No, io
parlo delle tragedie quotidiane e dei solitari tormenti che si accalcano sui
vagoni della metro. Fantasmi convinti di essere gli unici a vedere. Pianti
soffocati nell’ombra e labbra morse per nascondere sorrisi. Parlo di quel
sottile filo di follia che a volte percepiamo in lontananza e altre seguiamo
fino alla sua matassa. Tra tutti i corpi agitati dal respiro, chi sa dire cosa
ci sia davvero nella parte più marcia e oscura del suo stesso animo, chi riesce
a dipanare pienamente i dubbi del suo passato per quanto placida e banale sia
la sua vita?
Oltre
il finestrino dell’autobus il mare inghiotte il sole, l’intonaco si scrosta
dalle pareti impregnate d’aria salmastra. Tutto crolla e io sto bene. Per la
prima volta dopo più di quanto riesca a ricordare, sto bene.
Lo
conobbi in autunno, mentre le foglie dalle bordature carminie si adagiavano al
suolo. Non fu un impulsivo amore estivo che svanisce prima ancora
dell’abbronzatura, fu avvolgente come l’inverno. Quando lo vidi mi fermai un
istante, come un cerbiatto in mezzo alla strada che vede i fari di un’auto
venirgli addosso. Era alto, folti capelli neri e la mascella squadrata. Ricordo
come mi sembrarono larghe e forti le sue spalle sotto il maglione.
-Piacere,
Lucas.
Disse
offrendomi la mano dalla pelle olivastra.
-Cecilia,
piacere mio.
Risposi
ricambiando il gesto, senza staccare gli occhi dal suo volto così particolare.
Ci
sedemmo a tavola insieme agli altri. La cena di Ognissanti, che seguiva la
festa che facevamo ogni 31 ottobre, quell’anno si teneva a casa di Matteo e sua
moglie. Lui era un mio grande amico d’infanzia e sapeva quanto mi sentissi sola
e inutile. Lo fece apposta a metterci seduti vicini? Credo di sì, ma non gliene
diedi mai colpa. Lui così tormentato dal desiderio di aiutare gli altri perché
non riusciva a ricucire i suoi strappi: deluso, ferito e sempre in lotta col
suo cuore ma ancora convinto che l’amore fosse la risposta.
Ero
in imbarazzo, mi sembravano secoli che nessuno mi guardava e Lucas lo faceva
con insistenza.
-Come
sta tua moglie?
Chiesi
a Matteo sperando di non essere indiscreta dato che non eravamo soli.
-Chi
lo sa? È di nuovo tornata da sua madre.
-Mi
dispiace.
-Va
bene così, se le fa bene che lo faccia. Io mi tengo occupato. Ti ho già
presentato Francesca?
Mi
indicò una ragazza all’altro capo della tavola, piuttosto carina e dall’aspetto
ordinato.
-Di
già?
-Lei
mi spezza il cuore ogni giorno, sono fedele al mio amore per lei ma non può
chiedermi di esserlo a lei.
Tacqui,
chi ero io in fondo per giudicare? Di sbagli ne avevo fatti molti, provo
rispetto per chiunque affronti la sofferenza a suo modo.
-Vi
siete divertiti ieri sera? - chiese Lucas passandomi la ciotola con uno dei
contorni.
-C’eri
anche tu?
-Certo,
vi ho anche presentati ma non ho detto i vostri nomi, mi sa, - confermò Matteo.
-Io
ero Deadpool col completo nero.
-Davvero?
Io Harley Quinn con il pigiama.
In
quel momento mi ricordai, fui così contenta che la mia pelle sia talmente
esangue da non arrossire. Matteo ci aveva presentati davanti al punch, io avevo
già bevuto e credo anche Lucas. Mi disse qualcosa su una particella, mi chiese
cosa sapevo dirgli di un teorema di cui non avrei capito nulla nemmeno da
sobria. Gli risposi solo: -Non me ne frega un cazzo.
La
musica era alta e la maschera gli copriva il volto per intero, non contenta continuai:
-Sai
parlare d’altro oltre alla chimica?
-No,
al momento mi interessa solo quella e il rugby.
-Questo
è più interessante.
-Ti
piace il rugby?
-No,
ma mi piacerebbe farmi un rugbista.
Scoppiai
a ridere, bevvi un altro sorso e me ne andai.
Che
figura di merda. Mi rendo conto sarebbe più poetico descriverla in altri
termini, ma nessuno è più calzante.
Lucas
sorrise.
-Sei
stata simpatica.
-No,
per nulla.
-È
vero, ma diciamo che era l’alcol a parlare.
-Meglio,
grazie.
Mi
vergognai e abbassai lo sguardo sul mio piatto, avevo lo stomaco chiuso, feci a
pezzetti una patata al forno e masticai il più lentamente possibile un boccone
di arrosto.
-Voi
come vi conoscete?
Chiesi
prendendo coraggio, non avevo detto che ne avrei avuto?
-I
nostri dipartimenti all’università sono vicini, abbiamo collaborato a un
progetto qualche tempo fa.
Matteo
parlando mi diede un calcetto sotto il tavolo che sembrava dirmi: “Ti sei
scavata la fossa ma non sei ancora ricoperta di fango”.
-Insomma
avete giocato con le provette insieme da bravi nerd.
Vidi
le spalle del mio amico animarsi da un sospiro, forse perse le speranze.
-Diciamo
di sì, - disse Lucas senza dar segno di imbarazzo. –Ci divertiamo a giocare al
piccolo bombarolo.
-Ah
giusto, ora l’università studia quello per racimolare fondi. Che tragedia.
-Non
me ne parlare, volevo scoprire le leggi dell’universo non progettare di
distruggerlo.
Matteo
alzò gli occhi al cielo finendo di parlare, Lucas si schiarì la voce.
-A
me piace. Da piccolo volevo fare il militare ma non mi presero. Mi piacciono le
armi.
-Qualcuno
non stava sveglio a lezione di storia, - dissi.
-Amo
molto la storia e gli eserciti l’hanno fatta.
-Tu
lo sai che la si studia per evitare di perpetrarla, non per prendere
ispirazione dal genocidio?
-Non
voglio distruggere il mondo, mi piacciono le cose pericolose.
-Cos’hai,
sedici anni?
-Ma
ne sa una più del diavolo!
Esclamò
rivolgendosi a Matteo.
-Inventa
un’arma più veloce della sua lingua e il dipartimento avrà abbastanza soldi per
campare più di noi.
Ridemmo
entrambi, lui mi guardava ancora, mi si sciolse il nodo allo stomaco e mangiai
di gusto.
La
serata andò avanti più o meno serena, Francesca era una ragazza un po’ sciocca
e guardava Matteo come fosse un adone. Forse era una studentessa, scacciai il
pensiero. Poi la mia attenzione era concentrata su un altro soggetto.
Lucas,
dopo il dolce, tirò fuori dalla tasca un pacchetto di Philip Morris e andò sul
balcone, lo seguii.
-Me
ne offri una?
Lui
si girò lentamente e mi porse una sigaretta, la misi fra le labbra e me la
accese. Che gesto terribilmente di classe. Aspirai profondamente e, alzando lo
sguardo, vidi una specie di piccolo tizzone ardente cadergli dalle dita, giù
nel parcheggio.
-Cos’era?
-Nulla,
- rispose e con noncuranza accese un’altra sigaretta, questa volta dalla parte
del tabacco e non del filtro. Lo avevo distratto io?
-Tu
invece che fai nella vita?
Mi
chiese dopo un istante di silenzio.
-Lavoro
in un ufficio, seguo l’archivio.
-Deve
essere stimolante.
-È
tranquillo. Mi piace starmene da sola. Tanto stanno chiudendo la mia sede e la
prima testa a cadere sarà la mia dato che sono in apprendistato, meglio se non
mi affeziono troppo.
-Capisco.
Se non costruiamo qualcosa di cattivo entro la fine del prossimo anno ci
toccherà la stessa sorte, addio borse di studio e dottorati di ricerca.
-Immagino
che il precariato sia il nuovo Punk.
-No future for you,
Nancy.
-No
future, Sid.
Non
sentivamo le voci degli altri, stavano nel soggiorno mentre al balcone si
accedeva dalla camera da letto. Solo i rombi delle auto giù in strada facevano
tremare il silenzio. Sentivo il suo profumo intenso di tabacco e fissavo il
pozzo color pece dei suoi occhi. Le sigarette finirono, si avvicinò lentamente
e mettendomi una mano sul fianco mi baciò una guancia.
-Puoi
fare di meglio.
Sussurrai
vicina al suo orecchio.
Mi
strinse, mi baciò. Ricordo ogni brivido, i suoi capelli tra le dita, il suo
corpo che mi premeva contro la ringhiera, il morso che gli diedi al labbro e il
suo respiro caldo e affannoso.
Certe
volte vorrei tornare lì con lui, alla perfezione assoluta di un bacio tra due
sconosciuti che non si spiegano la reciproca attrazione.
Dopo
un po’ tornammo dagli altri, facendo finta di nulla. Ogni tanto sentii la sua
mano scivolarmi sul fianco. Ci ritrovammo da soli in cucina e mi rubò un altro
bacio, allontanandosi subito prima che entrasse un altro ospite. Non ci
scambiammo i numeri a fine serata, per quanto ne sapevo non ci saremmo mai più
rivisti.
La
cosa strana era che mi andava bene così, avrei cristallizzato quel ricordo
nella mia memoria certa che niente potesse distruggerlo. Ma poi ricevetti la
sua telefonata.
-Ho
chiesto il tuo numero a Matteo. Non sapevo se farmi sentire o no, ma il fatto è
che mi piaci.
-Mi
piaci anche tu.
Risposi
mentre un enorme sorriso mi tese le labbra. Continuavo a pensare a lui, mi
ossessionavo col suo ricordo senza sperare di rivederlo e sapere che provava lo
stesso era una sensazione bellissima.
Nonostante
il passato, nonostante i dolori e le gioie, non mi ero mai sentita amata come
in quel momento. A volte credo non mi ci sentirò mai più ma poi ricaccio il
pensiero giù per la gola.
Iniziammo
a frequentarci, non pecco di superbia nel dire che lui era davvero preso da me.
Dopo pochissimi giorni mi definì la sua ragazza, diceva a tutti i suoi amici
che si era fidanzato, mi fece conoscere i più stretti e spesso mi portava con
loro al pub o sulla spiaggia. Non avevamo molti interessi in comune, a lui
piaceva la storia, il modellismo e lo sport; tutta roba che a me non tangeva ma
mi piaceva la passione con cui ne parlava. Ridevamo delle stesse cose, usavamo
la stessa cattiveria nelle prese in giro, fin da subito c’erano giochi e
scherzi solo tra noi. Andavamo costruendo un nostro linguaggio di metafore e
sguardi, sapevo che entrando in una stanza avremmo notato lo stesso
particolare.
A
volte dovevano passare diversi giorni tra un incontro e l’altro perché entrambi
eravamo presi dal lavoro, quando finalmente ci rivedevamo lui non sapeva bene
come muoversi, cosa fare. All’inizio lo presi per distacco, poi capii che era
nervoso. Che io lo rendevo nervoso. Non credevo di poter avere tanto effetto su
qualcuno. Mi stringeva, mi sorprendeva, si soffermava a guardarmi dall’altro
capo del tavolo mentre cenavamo. Quel suo modo premuroso di fare l’amore,
sentivo il suo desiderio di avermi e di appagarmi. Riusciva sempre a farmi
ridere, mi bastava averlo accanto per sentirmi ristorata. A Capodanno mi disse
“ti amo”. Successe tutto così in fretta, misi da parte i miei dubbi e le mie
paure, li ignorai perché preferivo correre con lui senza capire se stessimo
davvero andando da qualche parte. Mi feci trascinare, mi persi.
Un
giorno, tornata dal lavoro stanca e depressa, mi avvicinai al pianoforte, scoprii
i tasti e li sfiorai ma non osai premere. Ero stata così occupata da quando lo
conoscevo, anche se non avevo nulla da fare preferivo pensare a lui e
fantasticare, progettare, piuttosto che suonare. Mi venne un brivido quando lo
realizzai, decisi di ignorare la cosa, dovevo solo abituarmi all’idea.
Abituarmi
all’idea, concetto spesso sottovalutato. Mi ero sempre affidata solo a me
stessa, affrontavo da sola i miei drammi, raramente mi sfogavo con qualcuno.
Ora era diverso, c’era qualcuno con cui dividere i momenti, il pensiero mi
riempiva di gioia ma mi era del tutto estraneo.
-Ancora
non mi pare vero che ci sei.
Gli
dissi un giorno mentre stavo ancora abbracciata a lui nel letto.
-Nel
senso che non ci credi?
-Già.
Cosa ho fatto per meritarmi qualcuno che mi vuole così bene?
Lui
si irrigidì, mi tolse il braccio dalle spalle.
-Mi
da fastidio che non creda a quello che provo per te.
Mi
spaventai, non era quello che intendevo.
-No,
no aspetta non è questo quello che ho detto.
-Hai
detto che non credi ancora che ti ami.
-No!
Mi sono espressa male. Ci credo che mi vuoi bene, mi riesce difficile credere
che sia reale nel senso che è troppo bello. È una cosa che sono più abituata a
sperare che a vivere.
Non
accennava a tornarmi vicino, nemmeno mi guardava in faccia.
-Non
mi piace quello che dici. Sono paranoie tue e mettono in dubbio la mia
sincerità.
-Ma
io ti credo! Ti prego torna qui. Perché ti rivesti?
Si
era alzato dal letto e stava prendendo i pantaloni. Perché non mi capiva? Era
come se ormai avesse deciso che avevo detto una cattiveria e non si potesse
spiegare il fraintendimento.
-Meglio
se ti lascio ragionare da sola sulle tue paure.
-Ma
io non voglio stare da sola, mi fa bene averti vicino. Abbiamo corso come un
treno e mi ci vuole un attimo a riassestarmi.
-Corso?
Se non ti sentivi pronta potevi fermarmi.
-Aspetta,
stiamo degenerando. Sì, è successo tutto all’improvviso ma nessuno ci ha
forzati, è stato naturale e va bene così. Mi piace dove siamo e come ci siamo
arrivati.
-Non
ne sembri sicura.
-Lucas,
ti prego. Ti amo, torna a letto.
Lui
mi guardò e il suo sguardo non mi piaceva. Era davvero così terribile chiedere
del tempo per capire cosa stesse succedendo?
Decise
di tornare a casa. Rimasi sola e la mia stanza mi sembrò molto più fredda.
La
mattina dopo, prima di colazione, mi pesai, era di nuovo quel giorno del mese
in cui mi costringevo a farlo. Andai in bagno e mi sedetti sul gabinetto chiuso
a fissare la bilancia. Coraggio. Presi un respiro profondo, mi tolsi il golf e
le ciabatte, ci salii. Avevo preso tre chili.
Tre
chili di immensa gioia, volevo saltare e agitarmi, addirittura mi fermai perché
non volevo muovermi troppo e perderli! Chiamai la psicologa che ancora ogni
tanto vedevo, mi fece i complimenti e mi chiese cosa era cambiato.
-Sto
con una persona, mi vuole bene, - le dissi quasi commossa.
-Ma
allora la tua era solo fame d’amore, - rispose ridendo.
Velocemente
mi lavai e vestii, avvisai al lavoro che facevo tardi e corsi da lui.
Citofonai
e mi rispose.
-Lucas
sono Lia. Mi dispiace per ieri, ti va di fare colazione?
-Ora
scendo ma non ho molto tempo.
-Non
importa voglio solo vederti.
Ritornò
affettuoso come i giorni precedenti, dimenticai l’accaduto. Che sciocca ero
stata.
Al
lavoro ero sempre più contenta di starmene da sola, potevo immergermi nei miei
pensieri. C’erano giorni in cui nessuno veniva a disturbarmi.
A
volte scendeva il capo, cercava documenti e rapporti il che significava che
dovevo mostrargli per la trilionesima volta il file dell’archivio, come
risalire al documento in rete e accompagnarlo anche al faldone con l’originale.
Ebbi l’istinto di prendergli la mano come si fa coi bambini. Se pensavo che
stava in quell’azienda da molti anni più di me mi chiedevo chissà quante
archiviste, poi lasciate a casa, avevano dovuto fare la stessa cosa.
Più
spesso scendeva Dorica, un donnone che poteva effettivamente reggere un tempio
con l’espressione rabbiosa di un cane da guardia. Tutto la stressava e
deprimeva; a ogni “Come stai?” seguivano frasi incoraggianti come: “Al solito,
male, andiamo avanti che indietro non si può”. Fosse stato per la tragedia
cronica che le aleggiava intorno o per l’aspetto poco confortante avrei quasi
provato simpatia per lei; quello
che non sopportavo era la supponenza con cui mi trattava. Curava i rapporti di
fine transazione e i preventivi, me li portava nell’archivio e ogni volta mi
ripeteva quanto fossero importanti, quanto fosse stressata e quanto poco si
fidasse del mio lavoro.
-Chissà
in tutto quello che non ti controllo quanti errori ci sono, - mi diceva. Megera
rabbiosa, avrei voluto schiacciarle la testa a metà di un faldone e lasciarla
archiviata sotto la lettera sbagliata, per spregio.
Quel
giorno ricevetti una telefonata interna, il capo mi chiedeva di salire nel suo
ufficio, nulla di buono.
Mi
disse che in base ai recenti cambiamenti
e tagli in particolare a seguito del
cambio Country Manager teneva ad avvisarmi che ero caldamente invitata a
mandare curricula in giro.
-Come
saprai in questa sede, essendo piccola, non abbiamo mai avuto un lavoratore
affetto da disabilità come però impone l’articolo 18; il nuovo manager lo vuole
fortemente e gli daremo il tuo lavoro. In più, sai come da prima che arrivassi
andiamo avanti a stagiste e quanti colleghi non hai conosciuto perché
trasferiti, licenziati, mandati in pensione anticipata. Ti dissi già
all’assunzione che nulla era certo.
Rimasi
interdetta, non tanto perché mi stava lasciando a casa quanto perché assicurava
che nessuno dei miei colleghi era un effettivo minorato mentale.
-La
ringrazio di avermi avvisata. Il mio contratto scade fra sei mesi, arriverò
alla fine?
-Sì,
quello sì, non preoccuparti.
Vivevo
da sola, l’economia era in crisi, ormai avevo ventotto anni di cui quattro
spesi in un posto deprimente che però mi dava l’unica esperienza significativa,
non ho una laurea né contatti sfruttabili, nessuna prospettiva se non quella di
tornare da mamma e papà che, per altro, non avevano nessuna voglia di
accogliermi. E chi si preoccupa?
Scesi
nel mio archivio, mi nascosi dietro uno scaffale sedendomi rannicchiata con le
ginocchia al petto. Chiamai Lucas, era l’unica cosa bella a cui riuscivo a
pensare.
-Mi
hanno detto che tra sei mesi mi licenzieranno.
-Beh
ma te lo aspettavi.
-Sì
è vero, ma sai…
-Poi
non ti piaceva più di tanto l’ambiente.
-Era
un posto, non sono ambiziosa.
-Fai
male. Ora rilassati e pensa a cosa devi fare.
-Lo
so cosa devo fare non ho bisogno me lo dica tu. Volevo solo un po’ di conforto.
-Dai,
coraggio.
-Va
beh, ci sentiamo, ciao.
Riagganciai.
Era sempre stato così stronzo?
Pranzai
con Eleonora, l’unica collega che mi piacesse sul serio. Una ragazza alta dai
capelli arruffati e lo sguardo furbo, chetamente arresa alla tragicomicità
della vita, che si sentiva più a suo agio nella solitudine di un libro che con
chiunque altro.
-Sul
serio? Sapevo che le cose andavano a rotoli ma…
-Ma
poi diventano vere e lo realizzi.
-Mi
dispiace.
-Fa
niente. Me la caverò in qualche modo.
-I
tuoi genitori ti possono aiutare?
-Non
abbiamo ‘sto gran rapporto; dubito mi lascino in mezzo a una strada in ogni
caso.
Addentò
il suo panino pensierosa, sinceramente dispiaciuta per me. L’empatia: che
meraviglia, la mia era completamente spanata.
-Almeno
con il fidanzato, Luca?
-Lucas,
è cileno. Tutto bene, qualche screzio ma siamo ancora felici.
-Screzio?
-Sì.
Una settimana fa abbiamo mezzo litigato perché gli ho detto che ancora mi devo
abituare ad avere qualcuno nella mia vita e sembrava gli avessi detto che non
mi amava, è stato brutto. Poi oggi l’ho chiamato per un po’ di consolazione ed
è stato utile come una trivella su una nave che affonda.
-Insomma,
non è uno che ascolta un gran che.
-Già,
mi sa che è quello il punto.
Il
pomeriggio tornai a casa senza più sapere nemmeno cosa provavo. Credo di aver
avuto paura, paura che tutto mi sfuggisse di mano di nuovo, che mi sarei
ammalata di nuovo. Mi sedetti sul divano, guardai il pianoforte. Gli spartiti
mal riposti appoggiati sopra di esso, lo sgabello foderato di verde, i pedali
dorati ormai opachi. Mi dava la stessa sensazione di un vicolo buio e desolato.
Trascorse
un altro mese, Lucas alternava insensata dolcezza a spietata freddezza. Avevo
smesso di chiamarlo se mi sentivo triste perché non mi ascoltava, non gli
parlavo mai né di musica né dei film che mi piacevano o delle uscite con le mie
amiche. Ogni volta cambiava argomento, mi interrompeva, parlava di cose
successe a lui. Credevo avesse bisogno di spazio e a me non disturbava farmi
più piccola. Anche la passione iniziale si era un spenta, mi dissi che era
normale che dopo un po’ subentrasse la monotonia, in fondo era solo più
tranquillo non meno bello. Mi scriveva tutti i giorni al mattino appena sveglio
e la buonanotte la sera, mi scriveva stupidaggini durante il giorno solo per
farmi sapere che mi pensava. Gli suggerivo gite e uscite più stimolanti ma non
voleva mai.
-Io
non ho un soldo, tu tra poco sei a casa, non possiamo spendere. In più non
abbiamo mai tempo e non posso permettermi di rinunciare a troppe notti di
sonno.
Diceva.
Così risoluto e pragmatico. Cominciai a chiedermi se non fosse solo l’innamoramento
iniziale a essere svanito, se non fosse qualcosa di peggio che era cambiato.
Chiamai
Matteo e uscimmo insieme a bere una birra, sua moglie non era ancora tornata.
-Come
stai?
-La
solita merda, che vuoi che ti dica? Mi dice che le manco e sistemeremo le cose
ma poi non torna a casa.
-Se
ti fa stare così male forse dovreste renderla ufficiale.
-Cecilia
io la amo. Potrei dirti che il divorzio non è facile, che i beni si devono
dividere, che lei sta male e non voglio darle un altro dispiacere e tutto il
resto. Ma la verità è che la amo e se lei mi dice che vuole sistemare io mi
rimbocco le maniche.
Sorrisi,
gli presi la mano e la strinsi.
-Con
Francesca invece?
-Solo
sesso, lo sai. Credo si stia affezionando quindi a breve la mollerò. Tu invece?
Come stai?
-Tutto
bene… Con Lucas le cose si sono fatte un po’ strane ma quando ci vediamo stiamo
bene quindi credo sia okay. Forse dovrei affrontarlo di petto oppure aspettare
e vedere se si risolve. Non lo so.
-Cosa
è successo?
-Non
saprei dirti di preciso, sono particolari che man mano noto. Tipo che se
propongo una cosa io non si fa o se ho bisogno di lui non ha tempo, però se è
triste o arrabbiato mi chiama. Se corro da lui non va bene, se lo lascio solo
nemmeno. Poi ogni tanto cerco di aprirmi, di dirgli le mie preoccupazioni o
raccontargli cose di me, lui si ritira fino ad andarsene.
Matteo
distolse lo sguardo, arricciò le labbra.
-Per
me è che vi state ancora conoscendo, magari è fatto così. Credo sia solo
egocentrico, ti chiederà di dare più di quanto dia ma non significa non ci
tenga.
-Può
anche darsi.
La
domenica successiva lo vidi e la situazione tracollò di nuovo.
Gli
dissi che avevo un pomeriggio libero in ufficio, che sarei potuta andare a
trovarlo in università per pranzo, conoscere i suoi colleghi e il resto, per
poi lasciarlo lavorare.
-Meglio
di no, non voglio che vieni a distrarmi; poi ho poco tempo e sarebbe
complicato, non vorrei ignorarti.- Fece una pausa, mi guardò. -Ci sei rimasta
male?
-Sì,
molto. Mi parli sempre dei tuoi colleghi, ma a loro non dici mai nulla di me e
non vuoi che li conosca. Sento che ci sono tante cose che non mi dici.
Soprattutto molte che non mi chiedi.
-Ci
sono cose che non voglio tu sappia.
-Come
faccio a fidarmi di te allora? Io cerco di conoscerti e anche di aprirmi ma sei
così occupato a nascondere i tuoi segreti che non mi hai mai chiesto un
accidenti del mio di passato. A volte sei dolce, altre freddo, non ci sei mai,
se hai la luna inversa mi tratti male e poi dici che mi ami. Non ti capisco.
-Nemmeno
io capisco te e la cosa mi fa allontanare. Hai le tue paranoie, dici che ti
devi abituare a noi e io non so come prenderla.
Non
mi guardava in faccia, io lo fissavo ribollendo di rabbia e delusione.
-Potresti
venirmi incontro invece che vedere solo te stesso. Non mi fido più di te.
-E
io non ti trovo più attraente come prima.
-Vaffanculo.
Sbattei
anche la porta per finire con grazia, per la prima volta lo odiai
profondamente. Mi stava rendendo gelosa, mi sembrava di non essere mai
abbastanza per uno che non dava nulla. Quanto avevo perso di me per fare posto
a lui? Avevo perso la musica per questo?
Corsi
a casa, piansi, mi sentivo stupida e ferita. Non avrebbe dovuto essere così,
era il primo ad avermi fatta stare bene. Gli altri non erano riusciti ad amarmi
né io avevo provato troppo affetto per loro, credevo di non esserne capace.
Pensavo di non essere fatta per donarmi a un’altra persona e che nessuno
avrebbe avuto voglia di soffrire per me. Per quello mi sentivo sola, inutile,
volevo solo scomparire.
Lui
era stato capace di farmi rivalutare tutto in così poco tempo, non solo avevo
qualcuno che mi voleva ma riuscivo a mettermi da parte per lui. Ora non sapevo
nemmeno chi fosse l’uomo con cui stavo. Forse nemmeno ci stavo più.
A
notte fonda mi squillò il telefono.
-Lia
sono qua sotto, mi apri?
-Per
me puoi crepare.
-Ho
detto un sacco di stupidaggini. La verità è che non ho mai provato quello che
provo per te e non so come si fa. Mi lamento sempre che è tutto un disastro ma
tu sei l’unica cosa bella e la sto rovinando. Fammi entrare per favore, ti farò
fidare di nuovo di me. Ti amo, scusa se non sono capace a dimostrarlo.
Aprì
il portone principale e lo aspettai sulla porta del mio appartamento.
-Hai
anche detto che non ti piaccio più.
Non
rispose, mi baciò e basta chiudendo la porta. Tornammo a comportarci come prima
ma non avevo perdonato, ora lo so, facevo finta di non vedere ma non avevo
perdonato.
Appena
provavo a raccontargli qualcosa, o lui accennava alle uscite monotone, ad un mio difetto per
piccolo che fosse mi risalivano la rabbia e il disgusto; come un boccone amaro
che non riuscivo a digerire e mi tornava su per la gola. Gli ringhiavo contro
prima ancora che dicesse qualcosa di sbagliato.
-Chiamami
quando ti passa.
Se
ne andava. Mi sentivo ancora più sola. Credo sia stato a quel punto che smisi
di nuovo di mangiare.
Forse
gli piacerei di più se tornassi come prima, forse anche lui tornerebbe quello
di prima. Ero sempre triste, arrabbiata, quel nodo allo stomaco che la prima
volta aveva sciolto con uno sguardo era tornato ancora più stretto. Svenni in
ufficio, se Eleonora non fosse venuta a chiedermi di pranzare insieme non so
quanto ci avrebbero messo a trovarmi, chiamarono l’ambulanza.
Rimasi
una notte in osservazione con la flebo attaccata al braccio, volevano chiamassi
i miei genitori e che mi ricoverassi ma non volli. Feci chiamare Matteo invece,
lui avrebbe ascoltato me e non i dottori.
-Ma
che cazzo fai?
Comparve
sulla porta come un fantasma, gli occhi contornati dalle occhiaie e i vestiti
stropicciati.
-Ciao.
-Ciao,
ciao… Credevo l’avessimo finita con questa storia.
-Mi
dispiace.
Mugolai,
mi veniva da piangere ma ero troppo debole.
-Non
devi chiedere scusa a me. Perché ti fai questo?
-Non
sono io, non lo faccio apposta. Mi si forma un nodo e il cibo non passa, non
sento più la fame.
-Lucas?
È colpa sua?
-No,
è colpa mia. È il mio corpo e ne ho perso il controllo.
Si
sedette sul bordo del mio letto, mi mise una mano sulla spalla e mi diede un
bacio in fronte.
-Non
voglio mi ricoverino, non voglio mi diano di nuovo le medicine. Sono stata
meglio e lo farò ancora.
-Va
bene, vieni a stare da me per un po’.
Rimase
sulla sedia di fianco a me tutta la notte, nella stanza del pronto soccorso, e
il giorno dopo mi portò a casa sua. Lucas non lo avrebbe fatto, oppure sì?
Mi
preparò uova e pane tostato per colazione, rimase con me per assicurarsi che
finissi tutto. Ci misi quasi mezz’ora ma ce la feci, poi però lo stomaco prese
a farmi male e mi venne la nausea.
Non
lavorava quel giorno e stette a casa, riuscii a consumare pranzo e cena anche
se in porzioni piccole di cibi leggeri.
-Lia,
sii sincera, ti tratta male? All’inizio mi sembravi felice ma ora vedo della
tensione.
-Quando
siamo insieme è dolce e carino, mi fa ridere, sto bene. Poi però mi lascia sola
con le mie paure, mi dice che non gli piaccio, ha smesso di presentarmi con
orgoglio anzi sembra vergognarsi… Spesso però sono io che voglio mi dica
qualcosa di brutto.
-Perché
dovresti volerlo?
-Non
lo so, forse voglio portarlo al limite per vedere se rimane. Sono una brutta
persona.
-Ognuno
è egoista in amore, anche quando diamo tutto. Lo so che non lo fai apposta, che
non è questione di dieta estrema la tua. Ma ricordati che il nodo che senti sta
solo nella tua testa, sforzati di mangiare qualcosa.
-Non
dirlo a Lucas però, lo farò io quando sarò pronta.
Annuì
e sparecchiò la tavola. Presi il telefono e vidi diversi messaggi non letti,
anche due chiamate. Tutte di Lucas che non sapeva cosa mi fosse successo. Mi si
scaldò il cuore.
-Pronto?
- lo chiamai.
-Che
fine avevi fatto? Mi sono preoccupato.
-Scusa,
ho avuto un’emergenza in famiglia e sono rimasta dai miei, non sono riuscita ad
avvisarti.
-Capisco.
Non sparire mai più così, non sapevo che fare.
Sorrisi
mordendomi un labbro, non volevo sentisse quanto ridicolmente felice mi rendeva
il fatto che fosse in ansia per me. Ovviamente non mi chiese nulla né sulla mia
famiglia né sull’emergenza.
Dopo
due giorni in cui ero riuscita a mangiare senza rimettere tornai a casa,
poggiai la sacca coi vestiti sul divano e mi sedetti al pianoforte. Sopra di
esso stava la finestra, la aprì lasciando che i caldi raggi del sole di Maggio
entrassero nella stanza. Un filo di vento fece volare in terra uno spartito, lo
appoggiai sul leggìo e prendendo un respiro profondo suonai.
Fu
come riaprire una diga che a breve sarebbe tracimata. Le note che mi scorrevano
sulle dita leggere e persistenti come pioggia, mi mancavano così tanto. Io mi
mancavo così tanto, come avevo fatto a perdermi?
La
settimana dopo tornai al lavoro, mancavano meno di tre mesi alla fine del
contratto e io non avevo ancora trovato un ripiego. Pensavo ad altro. A Lucas,
al mistero dell’esistenza, al cibo, a Matteo, a quanto mi mancava suonare ma
avevo di nuovo smesso. Dopo quell’unica volta di nuovo cercai di sedermi sullo
sgabello verde, provavo ma incespicavo e dopo poco mi ritrovavo ferma a fissare
il vuoto preferendo guardare la tv o andare a letto.
Non
avevo mai voglia di niente. Uscivo con le amiche; con Lucas che si era calmato
di nuovo, riuscivo anche a scherzare ma sotto sotto avrei preferito essere da
un’altra parte. Dove, di preciso, non saprei.
-Non
hai più la voce di prima.
Gli
dissi una notte mentre si era girato dall’altra parte per dormire. Con voce
assonnata mi rispose che non capiva. Mi aveva chiamata uscito da lavoro dicendo
che aveva bisogno di parlare, che era una brutta giornata e stare con me lo
calmava. A cena mi aveva raccontato dell’esperimento fallito e dei calcoli non
riusciti, del direttore del progetto che parlava come fosse semplice ma non lo
era. Si lamentava, mi diceva che io non potevo capire e doveva solo accettare
che tutto fosse un disastro. Alla fine ero riuscita a cambiare argomento, farlo
ridere e si era calmato.
-Prima
avevi una voce particolare in certi momenti, un sussurro grave con cui mi
parlavi quando avevi voglia di fare l’amore. Ora non lo hai più.
-Così?
- disse con voce strozzata.
Sorrisi
scuotendo la testa. Fece un altro paio di tentativi per farmi ridere e ci
riuscì. Dormimmo abbracciati quella notte, sentivo il suo respiro calmo sulla
schiena e mi feci piccola per stargli più vicino. Premevo il braccio con cui mi
avvolgeva contro il petto, baciandogli le dita, per quanto lo stringessi mi
sembrava sempre lontano.
Mi
tornarono alla mente tutti i ricordi dei primi mesi insieme, i momenti
romantici e felici, poi affiorarono i litigi e le incomprensioni e le volte che
mi aveva ignorata e quelle in cui lo avevo incolpato del nulla.
Solo
un brutto periodo, pensavo, già ora siamo più tranquilli. Io mangio, lui mi
guarda, stiamo bene e non voglio che finisca.
Le
bugie che una si racconta.
Presto
tornarono i problemi. Spariva per giorni dicendomi che doveva stare solo per
riflettere, chiesi se per caso non c’era un’altra e mi diede della paranoica,
poi tornava dicendo che mi amava e si sarebbe fatto perdonare. Avrei preferito
mi picchiasse.
Quando
spariva così faceva la mia fame, quando tornava riuscivo a mangiare. Non facevo
in tempo a elaborare una sensazione che cambiava, mi sentivo in preda alla
marea. Un giorno venne sotto casa a dirmi che stava lavorando a un progetto per
l’esercito di cui poteva parlare poco, che era il suo sogno ma io ero
ugualmente importante, quindi “Scusa se non ci sono stato ma ti giuro che ho
capito quanto sei importante.”
In
quel momento mi venne fame, molta fame. Andammo fuori a cena e presi i piatti
più abbondanti, dolce compreso. Tornati a casa mi venne la nausea, vomitai
tutto e passai la notte coi crampi allo stomaco. Rimase con me, non sapevo come
spiegargli che i crampi erano di fame, nemmeno io riuscivo capirlo.
La
mattina dopo ancora sentivo la pancia rumoreggiare, aprii il frigo ma nulla,
non avevo voglia di nulla ma una fame straziante. I giorni passavano ma quella
sensazione spaventosa non passava.
Ero
ancora più nervosa e irritabile. Dorica venne a portarmi la sua roba da
archiviare e mentre si lamentava di chissà quale stupida faccenda io gridai:
-Mio Dio, ma a chi importa?
Mi
vergognai subito.
-S…
scusa Dorica, non volevo. Non so cosa mi succede, perdonami.
La
sua espressione si fece ancora più cupa, disse: -Non fa niente.
Se
ne andò di fretta e non la vidi per tutta la settimana.
Andai
da Matteo a chiedere consiglio ma mi disse che forse erano voglie o un altro
disturbo psicosomatico.
-Magari
è Lucas, senti che non ti dà più quello di cui hai bisogno.
-Ma
no, ce la sta mettendo tutta, lo vedo. Credo stia fingendo. No, non avrebbe
senso.
-Forse
non è abbastanza.
Quelle
ultime parole mi si impressero nella mente.
Andò
avanti un altro mese. La moglie di Matteo era tornata a casa e lui era più
felice di un bambino a Natale. Mi parlò di quanto gli era mancata, di come era
bello vederla dormire nel loro letto, di quanto avrebbe lottato perché non se
ne andasse mai più. Li vidi insieme e quasi mi commossi, potevo sentire persino
le palpitazioni del suo cuore quando lei gli sorrideva.
Pensavo
a loro e quella sensazione vorace di insoddisfazione crebbe. Tentavo di
nasconderla, cercavo di rimanere calma ed essere dolce. Finì il mio contratto e
ancora nessun lavoro. Salutai tutti i colleghi con un abbraccio, anche Dorica
che sembrava avermi finalmente perdonato lo scatto d’ira.
Tornai
a casa e rimasi al centro della sala guardandomi intorno con sguardo febbrile.
Pensai
di suonare ma alla prima nota stonata lanciai in aria tutti gli spartiti e
ribaltai lo sgabello. Accesi la televisione ma qualunque voce mi dava ai nervi.
Provai a uscire per una passeggiata ma ogni minimo particolare della realtà mi
infastidiva. Guardavo le vetrine ma non avevo voglia di nulla, riuscivo solo a
pensare che avevo fame e non sapevo di cosa. Cominciai a correre e arrivai fino
a casa di Lucas.
Suonai
e mi aprì, salii le scale.
-Ciao
Lia.
Mi
disse con un sorrisetto tirato.
-Dimmi
la verità.
Mi
guardò perplesso e spaventato.
-Cosa
intendi?
-Tu
non mi ami più, amore mio, lo sappiamo entrambi.
-Ma
no, era solo un periodo. Ci sto lavorando, devo accettarti per quella che sei.
-Quella
che sono? Ma cosa ne sai tu di me? Cosa io so di te?
-Ti
conosco.
-Puttanate.
Si
fermò, mi chiese di sedermi e parlarne con calma ma io ero troppo agitata.
Traboccavo di energia e rabbia e rancore e fame di qualcosa che non esisteva.
-Tu
non sai nemmeno che suono.
-Suoni?
-Suono
il pianoforte e sono brava, ma da quando sto con te ho smesso. Perché c’eri
sempre tu, c’eri tu anche quando sparivi. Dove sono io in tutto ciò?
-È
per questo che sparivo, Cecilia, non ti si può parlare quando sei immersa nelle
paranoie.
-Tu
mi ci affoghi nelle paranoie! E poi mi lasci sola, mi lasci sempre sola anche
se dovevi amarmi.
-Mi
dispiace. Ci ho provato ma non riesco a rimettere le cose a posto. Quindi è
finita.
-Perché
fai così? Perché mandi tutto a rotoli? Io ci credevo davvero in te, ho fatto
tutto quello che volevi senza chiedere mai nulla in cambio.
Gridai,
mi bruciavano gli occhi e il sangue ribolliva, cominciai a lacrimare.
-Cosa
vuoi che ti dica? Hai un bisogno disperato di dimostrare amore e te l’ho
lasciato fare anche quando il mio aveva cominciato a svanire.
Parlava
lento e calmo, come lo odiai.
-Voglio
che ti arrabbi, voglio che gridi. Per una volta non voglio essere l’unica a
morire, tu mi amavi?
-Sì,
davvero. Ti ho amata tantissimo anche se non come meritavi.
-E
allora disperati, ho bisogno che distruggi tutto. Smettila di arrenderti così a
qualunque cosa! La tua vita è un fallimento, la tua donna si sente sola e tu ti
arrendi. Sei un incapace.
-Hai
ragione. Non posso vederti così ti prego. È meglio se vai.
-Affrontami!
Guardami negli occhi mentre ammetti che è finita, quando mi dicevi “ti amo” non
lo facevi mai.
Il
suo volto si fece contrito, lo sguardo incredibilmente triste ma finalmente lo
alzò incrociandolo col mio.
-Non
ci riesco.
Mi
avvicinai, gli presi il volto tra le mani, avevo chiuso gli occhi e le nostre
fronti quasi si sfioravano.
-Dimmi
che non provi più nulla Lucas, ho bisogno di sentirtelo dire.
Lo
sentii tremare, mi baciò. Avvolse le braccia attorno alla mia vita, lo sentii
forte e vicino come non riuscivo da tempo. Mi ricordò quella prima volta sul
balcone, mi strinsi a lui sentendo come fremeva e quella fame che non riuscivo
a placare esplose, irradiandosi per ogni millimetro del mio corpo. Gli tolsi la
maglia e lui mi sfilò il vestito, mi spinse contro la parete e gli graffiai la
schiena. Gli baciai il collo sentendo le sue mani afferrarmi le cosce, lo
baciai di nuovo ma ancora non era abbastanza. Il suo respiro affannoso, il suo
profumo di tabacco, le sue labbra che percorrendo il mio collo scesero sulle
clavicole arrivando al seno. Lo spinsi facendolo girare, mettendo lui con le
spalle al muro e gli morsi il labbro. Uscì del sangue, era caldo, mi fermai a
leccarglielo dal bordo della bocca e quella voglia che da settimane mi
straziava parve placarsi, per poi invadermi con ancora più decisione. Gli morsi
il collo con violenza, strappai la carne, gli graffiai le braccia e il petto
fino a sentirgli le ossa. Quel sapore dolce e speziato, il sangue caldo mi
colava giù per la gola. C’erano grida? Cercò di ribellarsi? Non ricordo, non lo
sentii. Ero pervasa da un piacere che non era mai stato in grado di darmi, anzi
che io non ero mai riuscita a concedermi. Lo divorai fino alle ossa. Appagata,
la fame se ne andò rubandomi tutta l’energia di cui mi aveva colmata, svenni.
Mi
svegliai, non saprei dire quanto tempo dopo. Era mattina, mi rivestii e andai
alla fermata dell’autobus per tornare a casa. Salii e mi sistemai sul sedile
vicino al finestrino. Vedevo il portone del suo palazzo, la sua finestra si
aprì e lo vidi sporgersi e accendersi una sigaretta. È l’ultimo ricordo che ho
di lui.
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