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lunedì 25 gennaio 2016

Io Sono la Disintegrazione (Viva la Vida),

di Alessia Ghisi Migliari

Frida aveva sopracciglia unite – per non far scappare lo sguardo (uno sguardo attento, doloroso, costantemente rivolto dentro di sé).
Era nata nel 1907, messicana fino alla punta dei capelli, anche se metà delle sue radici venivano dalla vecchia Europa.
Una famiglia unita: padre fotografo talentuoso, amatissimo dalla figlia, e una madre devota e di carattere (con cui il rapporto fu ben più conflittuale) – tre sorelle e due sorellastre.
La sua infanzia fu relativamente serena, nella casa dalle tinte forti, in mezzo agli scatti del padre – eppure la bambina era già afflitta da un corpo sbagliato; per anni si è creduto fosse stata la poliomielite a renderla claudicante, mentre oggi si propende per la teoria che l’artista avesse la spina bifida, un grave difetto del tubo neurale.




In ogni caso, la malattia era in forma lieve e permise che i primi anni della ragazzina fossero allegri e molto movimentati, visto che Frida già mostrava una personalità ben radicata e poco accomodante.
Adolescente inquieta e sensuale, pur nel suo aspetto minuto e minuscolo, fu un incidente stradale a stravolgere la sua vita e a darci la pittrice – uno scontro, nel 1925.
L’autobus su cui era Frida andò in frantumi, e così la schiena, la gamba e il bacino della ragazza.
Le fratture quasi non si contavano e per mesi si pensò non sarebbe mai tornata a camminare.
Ebbe invece una quasi miracolosa (ma momentanea) ripresa che fece sperare che l’unico effetto a lungo termine dello scontro sarebbe stato un “semplice” accentuarsi della zoppia.
Fu nella lunga convalescenza, totalmente bloccata a letto, che iniziò (in una posizione scomoda – scomoda sotto le coperte e nella vita) a dipingere.
Per passare giornate orribili e statiche, prigioniera di se stessa, di un corpo tradito, di un corpo traditore.
Nessuno avrebbe immaginato che un tentativo di occupare il tempo avrebbe fatto nascere Frida Kahlo.
Il suo amore giovanile se ne andò mentre lei stava in quelle condizioni, la vita scorreva al di fuori, e Frida aveva solo se stessa e le sue quattro pareti.
Poi ecco appunto l’attimo che sembra di ripresa – l’attimo in cui va dal grande pittore Diego Rivera, enorme di mole ed ego, e gli chiede un parere professionale dei propri lavori.
E’ lui, quello che lei stessa avrebbe definito, con innamorata e furiosa ironia, il secondo incidente della sua esistenza: Diego.
Un epicureo, in un certo senso; dipingeva, si godeva la vita, pieno nelle forme e nel piacere. Brutto, piaceva alle donne per quella sua passionalità latina e istintiva e pare che nessuna riuscì a resistergli (neppure l’adorata sorella della Kahlo) – e Frida non fece eccezione, per una volta.
Si sposarono nel 1929 – in seguito si separarono e convolarono nuovamente a nozze.
Un amore complesso, quello dell’elefante e della colomba, come scherzosamente si definivano; lui traditore, lei innamorata ma non cieca e nemmeno casta.
Nel loro menage (anzi al piano di sotto) l’ex moglie e i figli di lui; tra loro, una quantità di donne (alcune amate anche da Frida), qualche uomo che fu più distrazione che altro e persino il celebre Trotsky, che aveva cercato rifugio in Messico.
E la pittura – furiosa, continua, necessaria nei lunghi periodi atroci.
I dissidi con la madre, i figli mai arrivati, il matrimonio complicato (critico fu il viaggio negli Stati Uniti, dove Diego, fervente comunista, si trovò stranamente bene e fu assai apprezzato, mentre la moglie rimpiangeva il suo Messico) e trentacinque interventi chirurgici – per lo più alla schiena, alla gamba e al piede.
Interventi ogni volta seguiti da mesi e mesi costretti nel gesso, una statua vivissima nel suo sudario colorato.
Un’esistere pieno ed estenuante, malgrado tutto; poche esposizioni, anche se storica fu la sua prima mostra in patria – il medico le aveva detto di evitare di alzarsi dal solito giaciglio e lei dunque si era fatta portare nel centro della sala, fra i suoi quadri.
Ironica, spietata, lei dipingeva la sua realtà – il sogno non le aveva voluto bene, il sognare le era penoso; la sua, una realtà surrealistica, ma – paradossalmente – oggettiva.
E poi la morte – dopo una vita di dolore fisico e psicologico.
Nel 1954, con l’arto ormai amputato, un fisico in sfacelo e un biglietto nel quale si augurava di non tornare più (ma non si crede si sia trattato di un suicidio – in ogni caso, le condizioni erano ormai tragiche).
Più di un suo dipinto su tre è un autoritratto – con Frida Kahlo non si tratta di vera psicopatologia: non c’è schizofrenia o altro, ma solo un’enorme e motivata ansia e un’ovvia depressione.
Ma lei era di più – della somma delle sue parti ferite e della sua angoscia.
I colori che usava quasi fanno male agli occhi: colori vividi, di Messico, di terra e di rosso, di pena (pennellate disperate e rabbiose, che non vogliono essere belle, ma raccontare, spiegare, disvelare).
Le due Frida, collegate, impossibili da slegare nei loro aspetti disgiunti ma non abbastanza; quel viso in cui almeno lo sguardo è tenuto assieme, le lacrime, la colonna spezzata, le facce dei famigliari, quelle radici che la legano al letto, al terreno, ferma, prigioniera – i feti, il corpo sezionato, il corpo studiato, riprodotto ossessivamente nelle sue imperfezioni, nei suoi sbagli.
Cantare la propria agonia non è per forza un narcisismo vuoto; è anche coraggio.
Il coraggio di scendere in fondo al dolore, per vedere se si riesce a scioglierlo un poco – anche perché è troppo da tenere dentro.
Il suo fu un narcisismo che diede un poema epico.
I piedi sofferenti, la gamba, se stessa, in quei colori fortissimi che graffiano, in quello sgretolarsi di certezze, in quei deserti aridi eppure così significativi.
E lei, la sua faccia, due dimensioni schiacciate su tela, in un’autobiografia continua che sferza.
E’un vento spietato, Frida, ed è stata sfortunatissima ma non ti viene da dirlo – troppo aveva dentro e ci ha dato, per avere in cambio una ignobile pietà.
La poetessa del dolore, della rabbia, del desiderio – di una vita, di movimento, di levità.
Un esempio di come non sia stata una mente fragile a donarci un grande artista, stavolta, ma semplicemente l’inevitabile e universale crudeltà che talvolta caratterizza la vita.
Lei che si domandava che se ne facesse dei piedi quando aveva le ali e poi sosteneva
Io sono la disintegrazione e infine nell’angolo del suo ultimo dipinto, pochi giorni prima della fine ha scritto (e probabilmente lo sentiva veramente, malgrado tutto)
VIVA LA VIDA.


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