INTRODUZIONE - IL BOSCHETTO DI ARIANNA
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Primo dei racconti
brevi della Trilogia di Racconti
“eroticomici”, – ultimo progetto letterario di Enrico Jessoula – sorprende e diverte per il tono leggero con cui
l’Autore sviluppa una vicenda che sfiora tematiche molto attuali, tenendola
sospesa con garbato umorismo fino al tragicomico epilogo.
Marilou Ceria
IL BOSCHETTO DI ARIANNA
di Enrico Jessoula
“Stronza leghista” pensò Omar mentre affondava con
rabbia i suoi colpi in quella palla di lardo bianchiccia che gemeva e ansimava come
una vaporiera.
L’anatema gli era
venuto di getto, in italiano, perché solo così avrebbe potuto esprimere in modo
sintetico ed efficace quello che pensava di quella donna che giaceva sotto di
lui, ma che solo mezz’ora prima l’aveva respinto in quanto magrebino.
Era stato piuttosto
imbarazzante. Omar, immigrato clandestinamente in Italia nell’estate del 2010,
venticinquenne dal fisico di atleta, aveva incontrato subito il favore delle
donne e non aveva avuto difficoltà ad introdursi nell’ambiente milanese, città
apparentemente aperta alle diversità.
Successivamente aveva
bruciato le tappe nell’agenzia “POUR ELLE - servizi a domicilio”, come recitava
il banner sul sito web, fino a
diventarne la punta di diamante, il gigolò
da riservare alle clienti più importanti ed esigenti.
Così non si era stupito
quando Marion, l’italo-belga che coordinava le cosiddette ‘missioni’ dei
ragazzi, gli aveva assegnato una visita ad una top manager in una villa della
Brianza, con le raccomandazioni di rito:
- E’ una cliente di
riguardo, devi dare il massimo. Se le piaci, vorrà sempre te e potrai fare dei
bei soldi. -
Ma le cose non
erano andate come al solito, con la cliente che, data la libera uscita alla
servitù e salvate le apparenze con quattro chiacchiere ed un aperitivo in
salotto, comincia ad occhieggiare nervosamente la porta della camera da letto.
Tutto diverso,
stavolta. Palla di lardo gli aveva
aperto la porta con un sorriso che le si era spento immediatamente sul volto;
era addirittura indietreggiata con un fremito di terrore:
- Ma tu chi sei? -
aveva chiesto, lasciandolo interdetto.
- Sono Omar, mi
manda l’agenzia… -
Lo sapeva
benissimo, la top manager, che lo mandava l’agenzia; solamente non si aspettava
che fosse di colore. Era andata su tutte le furie e, senza degnarlo di uno
sguardo, gli aveva girato le spalle e si era precipitata ad afferrare il
cordless da una mensola dell’ingresso. Aveva telefonato in agenzia urlando
isterica a Marion che non voleva un extracomunitario, che le faceva schifo solo
l’idea di entrare in contatto con uno di quei parassiti “che venivano a rubare
il lavoro ai ‘nostri”.
Era seguita una
lunga trattativa. Non è dato sapere quali argomenti abbia usato Marion ma
dovevano essere stati molto persuasivi se la top manager ne era uscita
progressivamente ammansita, fino a sibilare la domanda conclusiva:
- Insomma, lei
parla per esperienza personale o per sentito dire? -
- Io parlo sempre
per esperienza personale - aveva risposto seccamente Marion, ponendo così fine
alla discussione.
Riagganciato il
telefono, Palla di lardo si era
rivolta freddamente a Omar:
- Seguimi, fammi
vedere cosa sei capace di fare. -
Pochi minuti dopo,
come già sappiamo, la donna delirava tra gemiti, rantoli e mugolii tra le
braccia del magrebino.
“Povera stronza leghista”.
Il pensiero lo
colpì per la seconda volta, proprio nel momento in cui la donna aveva
cominciato a dimenarsi furiosamente, stringendolo come se volesse stritolarlo.
Rispetto al primo anatema
aveva però aggiunto quel “povera”, una nota di compatimento che annientò di
colpo la rabbia che, sola, sosteneva la sua potenza sessuale.
Non migliorò la
situazione lo sguardo stralunato e incredulo della donna nel sentirlo ritrarsi
e uscire da lei:
- Cosa fai, sei
impazzito? Mi lasci così, a metà strada? -
Lui la guardò sconsolato,
con gli occhi scuri e buoni carichi di compassione per quella palla di lardo
bianchiccia che poco prima aveva odiato:
- Se vuoi, posso… -
tentò di rimediare Omar, ma l’altra sibilò gelida:
- Puoi solo
rivestirti e filare alla svelta: tra tre minuti esatti libero i cani - aggiungendo
beffarda - ne ho una dozzina e tutti feroci. -
- Cos’hai
combinato, Omar? Lasciare sul più bello una delle nostre clienti eccellenti non
è da te. -
- Non so cosa mi è
successo; posso solo dire che lei si era comportata male con me. -
- Sì, lo so, la
telefonata. Per convincerla le avevo dovuto promettere la luna e tu fai cilecca
proprio con lei. Capisci che ne va dell’immagine della società. -
- Io non ho fatto
cilecca, ho solo avuto un momento di compassione, mi ha fatto pena. -
- Pena? Sappi che la
capa è furibonda e non avrà certo crisi di compassione nei tuoi confronti, lei!
Sei licenziato, Omar; anzi, ti prego di non farti più vedere da queste parti,
prima che accusino me di aver fatto una scelta sbagliata. -
Non gli ci voleva
proprio. Il suo permesso di soggiorno era prossimo alla scadenza e non era dunque
il momento adatto per perdere un contratto di lavoro, indispensabile al
rinnovo.
Omar venne
risucchiato dalla vita dei primi tempi dopo lo sbarco in Italia. Una vita di
espedienti, alloggi rimediati in modo avventuroso presso amici o compagne
occasionali che per fortuna non gli mancavano.
Cominciò a
frequentare assiduamente gli Internet point alla ricerca di un lavoro onesto e
stabile che sembrava non esistere. Passò lunghi giorni a scorrere elenchi,
finché fu colpito da un annuncio strano: offrivano vitto, alloggio e un piccolo
compenso a chi si fosse preso cura del giardino.
Scarabocchiò il
numero di telefono su un pezzetto di carta ed uscì subito dal locale per non far
capire agli altri che aveva trovato qualcosa. Per lo stesso motivo, si
allontanò parecchio prima di ricopiare il numero sul cellulare e chiamare per fissare
un appuntamento.
La voce dall’altra
parte del filo era di una donna anziana che gli dette subito del tu e gli
chiese da quale parte del mondo venisse.
Non si stupì della
domanda, perché la sua pronuncia italiana era ancora imperfetta; piuttosto si
preoccupò e rimase per qualche secondo indeciso se dichiarare la verità.
- Sono magrebino -
farfugliò infine, sperando che la donna non capisse.
- Magrebino - reagì
vivacemente la donna - di dove: Marocco, Libia, Tunisia, Algeria? -
- Marocco, sono di
Marrakesh - proseguì lui, esitante.
- Marrakesh -
ripeté la donna, sdilinquita - che posto di sogno. Quella piazza che sembra il
centro del mondo; stai lì e immagini le carovane che vi convergono da tutte le
direzioni - un attimo dopo, cambiando repentinamente tono:
- Se puoi venire
alle cinque, ti spiego cosa c’è da fare. Sono sicura che ci metteremo d’accordo
- poi con un sospiro - il Marocco, quanti bei ricordi… -“Questa perlomeno non è leghista” pensò Omar dopo aver
riagganciato. Il pensiero lo indusse a ridere da solo dello sconvolgente cambio
di vita che gli si prospettava, da gigolò
a giardiniere, dalle sessuomani irriducibili alla vecchietta che curava
amorosamente le piante del giardino.
Non era del tutto certo
di voler fare un passo del genere, ma forse era l’occasione giusta per
inserirsi nel tessuto sociale dei milanesi ‘normali’, lasciandosi alle spalle i
circuiti del vizio e del piacere. Dette un’occhiata all’orologio: mancava circa
un’ora all’appuntamento e si avviò a piedi verso Baggio, un quartiere a lui
sconosciuto che lo sorprese per l’aspetto di corpo estraneo, di città nella
città, così diversa dai quartieri del centro.
Giunse a
destinazione cinque minuti prima dell’ora fissata, davanti ad una villetta rustica
e modesta che corrispondeva all’indirizzo che la signora gli aveva dettato.
Suonò, perché fa
sempre una bella impressione che uno arrivi con leggero anticipo; sentì lo
scatto dell’apriporta e spinse il cancello.
La signora Rosa doveva
essere intorno ai sessant’anni e si presentò con un vestituccio da casa che ne
aveva almeno trenta, di anni, e un paio di infradito di colore indefinibile
abbelliti, se così si può dire, da una margheritona di plastica gialla.
Restò per alcuni secondi
imbambolata a guardarlo ammirata prima di condurlo a visitare la casa.
- La casa è piccola,
ci abitiamo solo io e mia figlia. Ci sono due camere da letto e un bagno al
piano superiore; qui al terreno, questo saloncino all’ingresso e la cucina
semi-abitabile. Però nel seminterrato c’è un ampio locale con un divano letto
che, se accetti, diventerà il tuo regno. -
Sembrava molto
interessata a convincerlo, tanto che dopo qualche secondo proseguì:
- Potrai farci
quello che vuoi; c’è la televisione, puoi usare il telefono e il computer.
Unica condizione, niente donne, anche se il divano letto è matrimoniale:
l’abbiamo preso perché era in sconto e inoltre è più comodo, soprattutto per un
ragazzone come te.
- E… il lavoro che
devo fare? - mormorò Omar, quasi intimidito da quell’accoglienza così gentile.
La signora Rosa
sospirò profondamente, prima di affrontare con decisione l’argomento:
- Il lavoro è in
giardino. Seguimi, che ti spiego. Una volta facevo tutto io: potare,
annaffiare, trapiantare, concimare. Ma sai, caro… non mi hai detto come ti
chiami. -
- Omar, mi chiamo
Omar, signora. -
- Sì, caro Omar,
con l’età mi è diventato faticoso. Inoltre, una volta c’era mio marito ad
aiutarmi nei lavori più pesanti; ma poi, pace all’anima sua… -
- La signora è
vedova? Mi dispiace - disse Omar con l’espressione più contrita di cui era
capace.
- Da dieci anni,
caro Omar. Mi ha lasciato qua, con la bimba a carico. Perché la mia Arianna
aveva sì venticinque anni, quando è morto il padre, ma era ancora una bambina…
- ebbe un attimo di riflessione, prima di continuare con un sorriso compiaciuto
- e forse è ancora oggi una bambina, anche se avrebbe l’età per essere una
mamma. -
Lo sguardo di Omar
spaziò sul giardino, più grande di quanto le dimensioni della villetta
lasciassero prevedere. Non tale, però, da impensierire un giovane energico come
lui. Pensò sorridendo che, in termini di fatica, poteva equivalere a tre clienti al giorno della sua
precedente attività. Era questa la particolare unità di misura che lui e i suoi
colleghi avevano inventato: in una specie di scala Richter della fatica fisica,
tre clienti rappresentava uno sforzo
medio-alto ma non devastante.
Arianna tornò dal
lavoro verso le sei e fu sorpresa nel vedere un uomo che annaffiava il
giardino. Sì fermò a lungo, non vista, ad osservarne la figura slanciata, il
torso nudo e scuro sui bermuda bianchi, a valutarne la muscolatura degli arti,
lunga e possente.
Poi aprì la porta
di casa e si diresse in cucina, sicura di trovarci la madre:
- Non dirmi che hai
trovato un aiutante… o è un volontario mandato dal Comune? -
- L’ho assunto in
prova per una settimana - rispose la madre, ignorando volutamente l’ironia
della figlia - poi se ci piace lo confermiamo. -
Arianna le rivolse
uno sguardo privo d’espressione:
- Deve piacere a
te, come lavora in giardino. O fa anche altro? -
- Ma deve piacere
anche a te, perché vivrà con noi, ceneremo assieme. Insomma, è come fosse un
ragazzo au pair. Noi gli diamo vitto
e alloggio e lui lavora per noi. -
- Sì, ma
l’importante è che vada bene a te. La cura di quel maledetto giardino è
diventata un’ossessione, per te e per me - concluse Arianna, dirigendosi con
aria indifferente verso il telecomando del televisore.
Le prime giornate
di lavoro furono più faticose del previsto: “quattro
clienti” ironizzò Omar tra sé e sé mentre grondava di sudore.
Non aveva un attimo
di respiro, anche perché la padrona si accomodava in un angolo del giardino e
non lo perdeva d’occhio un istante. Appena lui si rialzava dall’aver spiantato
e ripiantato un arbusto, lei era già pronta con un altro compito: “Omar
carissimo, dovresti potare la vite, già che ci sei. Prendi la scala grande…”
oppure “Bene Omarino, oggi è la giornata del concime, devi spargerlo con cura
dappertutto”.
Per giunta, quando
il lavoro sembrava terminato cominciava la fatica maggiore, perché la signora
Rosa esigeva che riordinasse tutto il prato e il giardino: se c’erano dei sassi
dovevano essere accumulati in una zona che la padrona chiamava pietraia, il
fogliame e i ramoscelli caduti a terra raccolti e buttati nel cassonetto, la
terra smossa eliminata con l’aspirapolvere. Da ultimo, il rastrello andava
passato sui vialetti in modo che apparissero ben pettinati.
Non v’è dunque da
meravigliarsi che, a sera, Omar si ritrovasse con la schiena a pezzi come mai gli
era capitato prima.
Ma non aveva
alternative. Così perseverò nel lavoro e si presentò il sabato a ritirare la
paga pattuita con la richiesta che gli stava maggiormente a cuore:
- Se la signora è
contenta di me, vorrei chiederle di mettermi in regola, per poter rinnovare il
permesso di soggiorno. -
- Quando ti scade?
- domandò laconicamente Rosa.
- Tra un mese -
rispose lui, bluffando nel tenersi un
paio di settimane di margine.
La signora Rosa
guardò il ragazzo negli occhi, poi rispose soppesando con cura le parole:
- Il lavoro che fai
è ottimo. Vorrei solo che ti dedicassi di più al boschetto di Arianna; se lo
farai, non avrò problemi a metterti in regola e farti ottenere il rinnovo. -
“Il boschetto di Arianna” pensò Omar,
ripercorrendo mentalmente la disposizione del giardino. C’era in effetti un
addensamento di piante in un angolo, un glicine e due o tre bignonie, che fino
a quel momento aveva trascurato: si ripromise dunque di dedicarcisi con maggior
impegno nella settimana successiva.
Il sabato seguente,
però, il giudizio non era cambiato:
- Caro Omar, te
l’ho detto: devi riuscire a prenderti cura del boschetto di Arianna - ripeté la
signora, sventolandogli dei fogli sotto gli occhi - guarda: ho già ritirato i
moduli per l’iscrizione e il rinnovo del permesso di soggiorno. Sta a te
meritarteli! -
Non volendo lasciar
passare un’altra settimana nell’incertezza, passò all’azione il giorno dopo.
Era domenica, giornata che Arianna dedicava alla cura maniacale della propria
persona, mentre la madre usciva per misteriose visite al vicinato.
Omar vide Arianna
transitare dalla sala più e più volte. La osservò attentamente: era un botolo
informe, alto circa un metro e sessanta e pressoché squadrata, un
parallelepipedo senza curve né armonia. Anche il volto inespressivo e incolore,
i capelli e gli occhi castani, né scuri né chiari, banali, i lineamenti né
brutti né belli, la vestaglietta da casa impataccata, contribuivano a
conferirle un anonimato quasi perfetto.
Però non era
antipatica e soprattutto non era una stronza leghista. Perciò, all’ennesimo passaggio
la intercettò:
- Arianna, tu devi
farmi favore - disse tutto d’un fiato.
- Io? - rispose la giovane,
incredula, rallentando il passo.
Si alzò per andarle
vicino, deciso a farle capire quanto la cosa fosse importante per lui:
- Io bisogno di
permesso di soggiorno - disse - per questo devo fare pratiche, essere messo in
regola. -
- Chiedi a mia
mamma, lei è esperta di queste cose - rispose la giovane, cercando di
allontanarsi per togliersi da quell’impaccio.
- No, aspetta. Tua
mamma sa tutto, ma non completamente contenta di me perché devo occuparmi di
‘boschetto di Arianna’. Io cercato boschetto, ma non trovato… -
Per la prima volta
vide un lampo di vita percorrere quegli occhi, un sorriso incresparle le labbra,
prima di ricevere fredde disposizioni:
- Ho capito.
Siediti là sul divano che arrivo subito. -
Omar si accomodò
sul divano, cercando di indovinare quale indicazione avrebbe portato quello
strano essere privo di attrattive.
Passarono alcuni
minuti, poi il botolo informe rientrò.
Era nuda. O meglio,
indossava solo una canottiera color polvere
e un boschetto di peli scuri sul sesso: una vera foresta, che non doveva aver
mai conosciuto una depilazione.
Pensò che fosse
impazzita per il caldo, ma la donna indicò con lo sguardo quella macchia scura
e Omar finalmente capì; si portò le mani sul volto mormorando incredulo:
- Il boschetto di
Arianna. Ecco cos’è… ma cosa dovrei farci? -
Arianna era
arrivata attrezzatissima con creme, cerette e palette depilatorie, cerotti a
strappo, rasoi manuali ed epilatori elettrici; depositò tutto l’armamentario
sul tavolino, poi indicò il boschetto e disse:
- Sistema. Mamma
vuole che tu sistemi il mio boschetto, come hai fatto con le piante. -
Omar rinculò
spaventato:
- Ma io non so
fare… non fatto mai… -
- Però tu hai visto
altre donne depilate, no? Cerca di fare uguale - poi mormorò con tono
confidenziale - è la prima volta che mi depilo, sai? -
“Si vede” pensò Omar, mentre cercava di orizzontarsi
tra i vari strumenti.
Aveva temuto, o
forse sperato, che la madre rientrasse in quel momento a porre fine a quell’assurda
situazione. Ma non fu così. Dovette dunque cominciare a sfoltire la boscaglia
per poi applicare la ceretta, avvisando Arianna che la striscia adesiva le
avrebbe fatto male. Lei lo lasciò fare senza un lamento.
Dopo un’ora di
sudore e di lavoro, il sesso della donna fece finalmente capolino dal fitto del
bosco:
- Così mi piace -
disse lei battendo le mani come una bambina. Poi, lanciandogli uno sguardo
malizioso: - ma dentro non fai niente? Mamma ha detto di sistemare bene tutto,
dentro e fuori. -
Dentro? Percepì
improvvisamente la vicinanza del sesso femminile che, pur appartenendo a quel
fagotto informe, risvegliò di colpo il gigolò
che era in lui: la attirò a sé con decisione per ritrovarsi rapidamente dentro
di lei.
Da quel giorno Omar
non ebbe più pace. La ragazza, non più ragazza, aveva perso ogni ritegno e lo
seguiva dappertutto, pretendendo prestazioni sempre più frequenti, nei rari
momenti lasciati liberi dalla cura del giardino.
La sera, Omar si
coricava distrutto. Mentalmente, rifaceva il conteggio scherzoso “il giardino dà fatica come quattro donne, Arianna
altre tre. Totale fa sette: troppe, davvero troppe” concludeva con un
sospiro prima di addormentarsi di schianto.
Aveva sperato che,
in cambio, la padrona avrebbe rallentato il ritmo del lavoro in giardino, ma si
sbagliava: Rosa lo seguiva come sempre, tutto il giorno, spronandolo non appena
lui sembrava sul punto di cedere.
Così Omar cominciò
a deperire vistosamente, giorno dopo giorno, le occhiaie scavate e lo sguardo inquieto
e sfuggente: non poteva andare avanti così. Sempre più frequentemente era
scosso da un tremito alle gambe, mai provato prima.
Se ne accorse anche
Arianna, che il suo amante stava perdendo vigore:
- Omaruccio mio,
non puoi ridurti così, con tutto quel lavoro in giardino. Adesso Arianna tua ti
prepara un bell’ovetto sbattuto; anzi uno zabaglione col marsala e poi ti mette
subito a letto. -
La parola letto gli
provocò un improvviso capogiro, accompagnato da un forte senso di nausea: già
prevedeva che Arianna si sarebbe infilata anche lei sotto le lenzuola, con
intenzioni non proprio riposanti.
Il sabato successivo
la signora Rosa si stupì di non vederlo arrivare di buon mattino per ritirare
la paga settimanale. Cominciò a cercarlo nel suo letto, in quello di Arianna,
in giardino. Lo trovò infine steso sotto un albero, bianco come un cero e con
gli occhi sporgenti dalle orbite.
Cercò di buttarla
sullo scherzo:
- Che ti succede,
Omar, sei morto? - sghignazzò, continuando subito con tono acido - ma guarda
cosa mi tocca vedere, il giovane e aitante collaboratore che se la dorme beato
in orario di lavoro. -
Lasciò cadere su di
lui la busta con la paga settimanale, proseguendo con tono di sfida - Ora sai
che faccio? Mi sdraio anch’io, qui di fianco a te: così vediamo come fa presto
ad andare in malora questo giardino. -
Omar guardò stupefatto
la donna che si sdraiava davvero, sia pure con fatica, al suo fianco e provò
nuovamente quella sensazione di nausea fortissima, con l’albero che girava vorticosamente
sopra la sua testa.
Per un attimo credette
di morire. Respirò profondamente e raccattò le poche forze rimaste per
rispondere, con lo sguardo mesto e la voce incrinata dalla fatica:
- Ma io finito
tutto in giardino; anche boschetto Arianna sistemato. Quando permesso di
soggiorno? -
La donna si chinò
su di lui e lo guardò intensamente negli occhi. Omar rabbrividì al contatto prolungato
della coscia flaccida di lei con la sua, notò lo sguardo insinuante, la voce improvvisamente
torbida:
- Presto lo avrai,
non essere impaziente. Sai cosa vorrei ancora da te? Che ti occupassi, poco
poco, anche del boschetto antico. -
Fissò stordito quel
volto appassito e trascurato, leggendo nel suo sguardo l’atto mancante alla
pratica del suo permesso di soggiorno.
L’acciottolato del
sagrato, di fronte alla chiesa parrocchiale, si prendeva gioco del carrello
porta-bare, facendolo traballare, saltare, inciampare, con grandi difficoltà
per gli addetti delle pompe funebri di cui si potevano intuire le imprecazioni
pronunciate a bassa voce, tra un sobbalzo e l’altro.
Era uno spettacolo,
quella bara che avanzava tra mille difficoltà con al fianco due vedove in gramaglie,
o almeno così sembravano: una più giovane, tra i trenta e i quaranta, l’altra che
poteva essere sua madre. Camminavano impettite ai due lati della bara, l’una
con la mano destra e l’altra con la sinistra appoggiata sul feretro; sembravano
non accorgersi dei continui inciampi che rischiavano di far ribaltare il
carrello prima dell’ingresso in chiesa.
Bene o male, approdarono
alla navata centrale dove avanzarono con passo marziale fino all’altare, le
donne rigide come statue ai due lati del feretro.
Il parroco alzò le
mani al cielo per iniziare la funzione, ma fu subito interrotto.
- Stronza, sei una
stronza - sibilò la donna più giovane, volgendosi verso la madre, che finse di
non sentire.
Allora la giovane rincarò
la dose, alzando il tono di voce:
- Stronza e invidiosa.
Non potevi lasciarlo a me che ne avevo il diritto, che era il mio primo uomo?
Tu almeno, finché papà è stato al mondo... -
Don Lorenzo, il
parroco, non era certo un campione di coraggio. Preparato a recitare la
generica omelia di conforto, i soliti accenni alla vita vera che il defunto
aveva testé intrapreso, aveva fatto appena in tempo ad iniziare il discorso
quando le parole gli si erano spente in gola.
Ascoltava
impietrito la giovane e si guardava intorno perplesso, mentre dai fedeli saliva
un brusio sempre più forte, non tale però da coprire le parole delle due donne:
- Zitta, Arianna,
non fare la stupida - aveva sibilato Rosa a sua volta - tu non sai cosa sono
dieci anni di astinenza, da quando lui mi ha lasciato. E tutto per accudire te!
-
- Ma proprio con
lui dovevi interromperla, la tua astinenza? Non avevi notato com’era dimagrito,
emaciato, consunto? -
- Brava: chi l’ha
ridotto in quello stato? -
L’urlo della
giovane lacerò le volte della chiesa, mentre si scagliava contro la madre
puntandole l’indice contro:
- Tu l’avevi
ridotto in quello stato, tu e i tuoi maledetti lavori in giardino. Non ce la
faceva più a far niente. Neanche con me, ce la faceva più. -
- Con me ce l’ha
fatta benissimo. Tre sole volte, ma alla grande. -
Il nuovo grido di
Arianna risuonò alto davanti all’altare, mentre si avventava sulla madre:
- Stronza assassina…
tre volte alla grande, ma alla terza ti è morto tra le braccia… o forse sarebbe
meglio dire tra… -
- Cosa dici, scema,
non ti permetto… - gridò questa
volta la madre per interrompere quello sproloquio, togliendo la mano dalla bara
e ponendosi in posizione di difesa.
- Certo, ha esalato
l’ultimo respiro mentre te lo godevi… -
Don Lorenzo,
terrorizzato, alzò le braccia per invocare l’aiuto divino:
- Signore mio,
perché non ho fatto il corso da esorcista? - si domandò mentre impugnava un
crocefisso e lo agitava sopra le due assatanate, che nel frattempo erano rotolate
a terra, rifilandosi unghiate e morsi e un intero dizionario di insulti.
- Dominus vobiscum - tuonò il prete nel
vano tentativo di calmarle: le due si strappavano i capelli a vicenda
scalciando da terra, finché un calcio dell’una o dell’altra non fece cadere la
bara con un tonfo agghiacciante che rimbombò in tutta la chiesa, provocando un
fuggifuggi generale tra urla di sgomento.
Al parroco non
restò a quel punto che rifugiarsi in sagrestia, borbottando “Che scandalo, che
sacrilegio, proprio nella mia chiesa” prima di estrarre il cellulare dalla
tonaca e chiamare la polizia, che arrivò poco dopo a sirene spiegate.
I poliziotti
corsero verso l’altare. I loro occhi faticarono, nella penombra della chiesa, a
mettere a fuoco quella squallida scena: due donne laide che giacevano esauste, i
segni della lotta ben presenti in graffi e lividi e vesti lacerate, due statue
viventi dal respiro affannoso.
Con due boschetti in
primo piano.
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