Vogliamo presentarvi stralci da un libro di attualità e di grande successo che ci racconta il '68 e quell'epoca incredibile.
Scrittori
e scrittrici che hanno vissuto quel periodo e giovani che lo guardano con gli
occhi di chi vive oggi:
storie
quotidiane, a volte rumorose, a volte riservate di una rivoluzione culturale
basata sugli ideali e sulla passione di viverli
Tante sono le opinioni sul Sessantotto, anche molto
diverse: c’è chi l’ha amato, chi l’ha vissuto intensamente, chi l’ha solo
osservato, chi si è defilato, chi è rimasto deluso, chi l’ha approvato e chi
no,
chi si è arrabbiato e chi ne ha avuto un sacro
terrore, chi l’ha combattuto strenuamente…
Nessuno è rimasto indifferente. E non lo è ancora oggi.
Nessuno è rimasto indifferente. E non lo è ancora oggi.
Presentazione dell’antologia
di Tiziana Viganò
Questi pochi minuti di immagini
racchiudono e ci donano, con la lucidità che è propria di ogni grande artista,
alcuni dei più importanti temi che hanno precorso e illuminato i primi
movimenti del Sessantotto.
Prima di tutto il desiderio di
un mondo nuovo, dopo distruzione del vecchio ordine basato su finzione e
ipocrisia, su oggetti e non persone, sugli status symbol e sul consumismo, su
una ricchezza di pochi prodotta a danno dei più; il desiderio di essere liberi
e padroni di se stessi, delle proprie scelte e della propria vita, come del
proprio corpo e dei propri desideri; la comunione con la Natura, un rapporto gioioso
e rispettoso con essa; la diversità come risorsa.
Ma soprattutto la libertà, in
tutte le sue declinazioni.
Andare fuori dagli schemi, avere
un’altra visione del mondo, cercare l’utopia: così erano cominciati i
movimenti giovanili negli anni Sessanta. Quello che spesso era bollato dai
conservatori come ribellismo giovanile, a volte per l’impreparazione, a volte
per l’ingenuità, esprimeva la necessità di cambiare, di uscire dalle regole della
vecchia società retriva, bigotta, oppressiva e diseguale, che privilegiava
l’economia aggressiva di stampo capitalista e consumista ai reali bisogni
dell’individuo, quelli spirituali, la libertà, la pace, la fraternità,
l’uguaglianza delle razze e dei generi, la legittimità delle religioni, delle
opinioni.
Che ne è stato di quegli ideali
meravigliosi che hanno mobilitato masse di giovani a livello planetario?
Confluiti nei movimenti prima studenteschi e poi operai hanno preso la via
della contestazione: in parte ne hanno formato lo zoccolo, per poi diramarsi in
molti rivoli che hanno avuto alterne vicende e sono approdate a ben diverse
conclusioni. Quali sono state le conseguenze del fallimento? Quali conquiste
sono valide ancora oggi e quali sono state disattese?
Quando, dopo un certo numero di
anni, un passato comune vuol mettersi in relazione con le nuove generazioni e
trasmettersi genera una nuova realtà che è la rappresentazione del passato. È
dunque nel rapporto con le altre generazioni e nel rivivere, ripensare
collettivamente vissuti comuni che si crea una storia. In questo senso molto
prossima alla creazione di un mito.”
(Franca Balsamo).
L’amicizia è epica: è l’incontro
casuale nella folla in un momento di lotta. È una familiarità che ricuce una
frattura, con il filo di nuovi
valori condivisi
L’educazione sentimentale per un’età di
passaggio
di Franca Balsamo
Torino, 1968-oggi
I leader erano “I” leader,
la mia amica Laura era per me innanzitutto la donna di Luigi e il suo ruolo
di “capo” politico, ai miei occhi di allora, le apparteneva in quanto inserita
nella rete di relazioni del clan dei maschi.
L’unica alternativa a un ruolo
femminile complementare era un travestimento. E io cercavo di essere una copia
del maschile. Talvolta me ne travestivo persino nell’abbigliamento, anche se
mai completamente. Al punto di generare un ibrido, come quando indossavo
pantaloni e minigonna insieme, con un ultimo appiglio simbolico a un femminile
in pericolo.
Ma forse in quel momento, fino a
quel punto, ragazzi e ragazze avevano obiettivi comuni, un percorso comune. Si
trattava dell’alleanza tra fratelli e sorelle, uniti insieme contro la legge
del padre. Nella denuncia dell’autoritarismo delle istituzioni, non ci eravamo
ancora ben rese conto che il “patriarcato” era il potere dei maschi. Ci voleva
un’altra lente, quella del femminismo. E allora le madri sostenevano quella
autorità e la trasmettevano ai figli e alle figlie: noi non vedevamo ancora la
loro ambiguità.
Le donne hanno dunque partecipato
alla sfera pubblica travestite da uomini: tuttavia fu una partecipazione
fondamentale.
Per le donne della generazione
precedente alla mia, solo pochi anni prima, la tappa obbligatoria e asse della
vita era stato il matrimonio che le incanalava nelle regole e nelle gerarchie
familiari. Ora fidanzamento e matrimonio entrarono nel ciclone della crisi
culturale e istituzionale. Per noi rito di separazione e di solidarietà fu il movimento
degli studenti. E attraverso il movimento le donne ebbero accesso per la prima
volta a un rituale di passaggio maschile.
Luci e ombre di un grande movimento
di
Claudio Bernardino Foresti
Predore-Milano-Torino, 1972–1981
Ad agosto del 1978 entrai in Fiat come operaio
e fui subito eletto delegato del Consiglio di Fabbrica. Furono anni difficili
dal punto di vista politico e sindacale: alcuni delegati di linea scelsero la
lotta armata, ma questo lo scoprii solo in seguito, quando iniziarono i primi
arresti: infatti costoro in un primo momento conducevano una doppia vita, in
fabbrica operai in lotta, all’esterno, in società, banditi. Anche la grande
officina nella quale lavoravo fu coinvolta.
Patrizio Peci, uno degli esponenti di primo
piano delle Brigate Rosse, riuscì a organizzare una colonna armata in alcune
linee delle presse di Mirafiori, in atteggiamento di violento antagonismo nei
confronti del sindacato. I delegati del consiglio di fabbrica però avviarono
per tempo un dibattito difficile e impegnativo, sostenuti dall’esperienza di
alcuni magistrati aderenti a Magistratura Democratica.
Non possiamo dimenticare che il 1978 fu l’anno
dell’uccisione di Moro e della sua scorta: i brigatisti, esecutori del
massacro, da qualcuno furono definiti “compagni che sbagliano”.
Nonostante le emozioni del momento fossero
intense, in fabbrica si sviluppò una discussione interessante, perché si
trattava di capire cosa stesse succedendo. Nonostante le ovvie difficoltà, i
delegati del consiglio capirono, coinvolsero tutti i lavoratori e le iniziative
coincisero con l’intervento del Generale Dalla Chiesa che sconfisse Peci.
Il nome sotto il tavolo
di Gemma Girolami
Caronno Pertusella (Va), 1968-1974
(parla
di bambini emigrati dal Sud Italia per lavorare nelle fabbriche della zona e
del doposcuola organizzato da lei e da suo marito nella loro casa)
Erano bambini che, come i loro
genitori, dovevano affrontare lo sradicamento culturale passando quasi sempre
dal dialetto d’origine al dialetto locale.
Furesti
che giorno dopo giorno dovevano conquistarsi anche il diritto a giocare. Molto
spesso si rifugiavano in atteggiamenti regressivi che li facevano sembrare meno
intelligenti, meno bravi, meno tutto o al contrario più aggressivi, più
testardi, più arroganti. In una parola, bambini impegnativi.
Prima della conquista della
scrittura, della lettura, delle tabelline o della storia, c’era la conquista
della loro fiducia. Era un lavoro lento, ricominciato mille volte dall’inizio e
quando si pensava di aver fatto qualche progresso magari arrivava la proposta
dell’insegnante di spostare la figlia nella classe differenziata. E
spesso i genitori analfabeti vedevano in me l’unica ancora di salvezza, colei
che andando a parlare con la maiestra poteva allontanare la vergogna.
Crescevamo insieme, noi e loro, arricchendoci a vicenda.
Ci sentivamo più grandi della nostra età
di Angelo Gavagnin
Marghera, 1968-1970
Per fortuna nel 1969 scoppiò un’altra bomba,
ma questa volta sparse amore e musica: Woodstock fu l’apoteosi, i dati
ufficiali parlarono di quattrocentomila giovani presenti ma c’è chi dice
fossero un milione. I più noti gruppi di allora si alternarono sul palco che
divenne un mito.
Subito dopo il 1970 iniziò un’altra
rivoluzione: nacquero le prime radio libere. Secondo i miei ricordi c’era già
chi trasmetteva, ma solo il 28 luglio 1976 una sentenza della Corte
Costituzionale sancì la legittimità delle trasmissioni radiofoniche private,
purché a diffusione locale. Da quel momento ognuno poté parlare e discutere via
etere superando il monopolio della comunicazione di stato. Adesso, che siamo
abituati agli eccessi di comunicazione, non ci rendiamo conto che a quei tempi
esisteva solo la RAI e c’erano solo tre canali: fu eccitante! Radio che
diffondevano musica per molte ore al giorno e radio di quartiere: questo erano
le prime radio libere. Trasmettevano da un appartamento che doveva avere un
terrazzo più alto possibile per posizionare l’antenna e coprivano una decina di
chilometri e poco più, la gente telefonava per discutere o anche solo
scherzare, per vivere la novità di sentire la propria voce per radio.
Io ho lavorato alla prima radio libera della
mia città, RadioMestre103, si sentiva solo fino a Marghera e in realtà non
riusciva a coprire neanche tutta l’area. Trasmettevo un programma di musica dal
nome “Musica della notte”: tra un pezzo e l’altro introducevo qualche
argomento sul quale discutere e mettevo in onda le telefonate senza nessun
filtro.
Il mio non-Sessantotto
di Mirella Guerri
Milano-Rescaldina,
1966-1975
Di quel periodo e degli anni
successivi ricordo le ragazze che andavano in giro con le gonne lunghe, molto
fiorite, con zoccoli di legno aperti dietro e con la parte superiore di cuoio
nero. Ne avevo un paio anch’io che mettevo in terrazza quando mi occupavo delle
mie piante. I ragazzi cominciavano a portare i capelli lunghi. Ricordo un’amica
con tre figli adolescenti, il preside di uno di loro gli aveva intimato di
tornare a scuola con i capelli corti e la madre mi raccontava che stava
cercando un’altra scuola dove mandarlo, dato che la richiesta del preside per
lei era inaccettabile. Io ero sconvolta, mai avrei fatto cambiare scuola a un
figlio (amici, insegnanti, abitudini) per un motivo simile!
All’istituto magistrale statale
da me frequentato, noi ragazze non potevamo andare in pantaloni, ma con la
gonna sotto al grembiule nero, non potevamo tenere i capelli sciolti, ma
raccolti in trecce o coda di cavallo, i jeans non si portavano ancora, certo
sarebbero stati vietati; nessun giorno di sciopero o di autogestione, non
esisteva neppure la parola. Nessun voto politico, ma neppure le più brave
riuscivano a vedere i dieci o raramente i nove, semplicemente non
venivano dati i voti molto alti.
Sessantotto, avanti ancora!
di Raúl Della Cecca
Mendoza (Argentina)-Milano, 1968 -oggi
Ho sempre lavorato nell'ambito dello
spettacolo, per sorte, fortuna o vocazione.
Nel Sessantotto lo schermo per i sogni era
gigante, come quello del cinema. La riduzione ai minimi termini, in fatto di
dimensione dell'immagine, e preciso per cattiveria anche di qualità, è arrivata
molto più tardi.
Ora la fruizione modello serial su schermi
tascabili la dice lunga circa i messaggi veicolati dagli attuali autori.
La tecnologia ha promosso tutti fotografi e
registi, grazie agli strumenti di ripresa digitali abbordabili.
Siamo nel “Don Quijote” di
Cervantes, sono proclamati todos caballeros, tutti cavalieri. Quantità
contro qualità.
Non voglio però negare che a questi livelli,
per me bassi, ci siamo arrivati anche per una lunga catena d'errori nati in
quel periodo travagliato, dove si doveva realizzare tutto subito, come se il
tempo fosse un fattore a esaurimento.
Diciamo che quel tempo aveva fatto da volano
per la ricerca verso quello che immaginavamo fosse positivo, tra cambiamenti
ormai francamente improcrastinabili e illusioni infantili di ribaltamenti
impossibili.
Un'intera generazione, nel mondo occidentale,
almeno ci ha provato.
Oggi, come puoi vedere, le persone che amano
il cinema, anche giovani, cercano di studiarlo soprattutto al passato prossimo:
Kubrick, De Palma, Godard, Pasolini, Truffaut, Rossellini, Polanski, Bresson,
Edwards... Lo stesso vale per la musica. Nessuno ha interrotto nel tempo gli
acquisti, pardon i downloads, dei Beatles e dei Pink Floyd, dei
Rolling Stones, di John Lennon o di De André.
Altri artisti dai successi molto più recenti,
magari bravissimi per alcuni critici, dopo lo spazio di un effimero award hanno
perso il posto che stavano facendo in fila per entrare nella storia.
Vorrà pur dire qualcosa tutto questo?
365
giorni dopo piazza Fontana
di
Giancarlo Bosini
Milano,
12 dicembre 1970
«Fascisti! Oggi abbiamo
una conferma in più che è sempre la polizia a creare i motivi del disordine.
Sono dalla parte dei padroni.» commenta uno di questi compagni, mentre cerca di
sbirciare fuori dall’alto finestrino di queste vecchie scale, dove siamo
riusciti a rifugiarci.
«Ma anche loro sono
proletari, possibile che non lo capiscano?»
«Saranno anche proletari,
ma si comportano da fascisti. Ci aspettavano, avevano già programmato tutto.
Oggi nel centro di Milano sono in corso contemporaneamente quattro
manifestazioni; era ovvio che avrebbero colto al volo questa occasione per far
vedere chi comanda. Ma adesso è tutto chiaro. Hanno gettato la maschera.»
«La manifestazione di
piazza San Carlo è però del Movimento Sociale.»
«A quelli non avranno
fatto nulla. Se la prendono solo con noi, mi gioco le palle.»
«Ma ci sono anche quelli
del Movimento Studentesco della Statale, anche loro non se la staranno passando
bene.»
«È sicuro; per arrivare
in Duomo sono passato da via Larga, ancora non era successo niente, ma sembrava
una polveriera pronta a esplodere. C’erano carabinieri e celerini dappertutto.»
Improvvisamente,
sovrastando il fragore proveniente dalla strada, giunge fino a noi l’eco di
qualche colpo d’arma da fuoco.
All’unisono tutti
smettiamo di parlare. Sento il cuore accelerare. Poi altri colpi, secchi, in
rapida successione. Pam! Pam! Pam!
«Cazzo! Qua sotto sta
succedendo un vero macello.» ci dice il compagno di vedetta al finestrino.
«Oltre ai candelotti, adesso hanno anche tirato fuori le rivoltelle. Ne ho
intravisto uno sparare basso.»
«Ma com’è possibile
sparare contro chi chiede solo di conoscere la verità?» dico, pensando
all’attentato di piazza Fontana, costato la vita a diciassette persone, più
quella dell’anarchico Giuseppe Pinelli, caduto dalla finestra della questura
durante un interrogatorio.
«E’ chiaro, ci vogliono
chiudere la bocca.»
Utopia
e distopia
di
Tiziana Viganò
Milano,
1967-1978
E
non dimenticherò mai il giorno in cui il delegato sindacale della Garzanti
irruppe correndo nel corridoio dove c’era il mio ufficio gridando sconvolto
«Hanno ammazzato Moro!»: piombammo tutti in uno stato di sgomento indicibile,
di spavento, di incredulità, di delusione.
Non passò molto tempo per
capire che un mondo era finito, che si apriva un altro orizzonte oscuro e
incognito, dove molte cose conquistate avrebbero comunque germogliato e dato
frutti, cambiando per sempre la società, ma che altri ideali sarebbero stati
travolti per sempre dall’onda di esecrazione seguita ai cruenti fatti degli
anni successivi.
Il mondo distopico che
scrittori, visionari e profeti avevano previsto anni addietro avrebbe
lentamente fatto breccia nella società, come un tossico che si infiltra
lentamente nella linfa di una pianta, cambiandone la natura e disseccandola.
Forse il mondo e l’albero
verranno salvati da un’altra utopia, che spero arrivi presto, simile o
diversa, ma basata, questa volta, sulla pace.
Pandora: aspettando il
Sessantotto
di Massimiliano Barone
Milano, oggi
Mentre la mia mente
continuava a solcare onde, la mia attenzione cadde su una strana figura apparsa
sul vetro della finestra. Era la mia immagine riflessa, pallida,
semitrasparente e semivuota. Vuota come le mie speranze, vuota come il nostro
mondo privo di ideali e di ideologie e allora mi chiesi: c’è mai stato un mondo
vero, reale, tangibile e pieno di ideali?
Le onde diventarono alte,
il vento soffiò forte e le vele si strapparono. Eccolo avanzare, era il tifone
del Sessantotto.
Dicono che sia stato un periodo
straordinario, pieno di fermento e di grande partecipazione. Io non ero ancora
nato. Non sapevo molto su quegli anni, fu mio zio a raccontarmi tutto.
Inizialmente pensavo che fosse solo un periodo da dimenticare, un errore di
gioventù che portò solo tanta confusione e scompiglio, fino al tragico epilogo
degli anni di piombo e delle stragi. Non cambiò niente e morirono tante persone
per niente, così pensavo. Poi mio zio mi spiegò tutto.
«Max, è giusto che tu debba comprendere cosa successe
realmente nel Sessantotto.» Mi disse un giorno.
La responsabilità
della mia generazione
di Barbara
Nittoli
Legnano, oggi
Con questi presupposti le
responsabilità della nostra generazione sono molteplici e fondamentali.
Innanzitutto dobbiamo riprendere a
lottare per ciò in cui crediamo, se ci sentiamo svalutati e schiacciati in un
sistema che non riconosce il nostro valore e i nostri diritti, proprio come ha
fatto chi ci ha preceduto. I nostri nonni hanno combattuto guerre perché questo
potesse essere un Paese libero e democratico, in grado di offrire diritti e
possibilità a chiunque vi abitasse. I nostri genitori hanno lottato negli anni
Sessanta e Settanta affinché potessimo vivere nella parità dei sessi, immuni da
condizionamenti e limitazioni sociali e religiose. Noi non siamo stati abituati
a combattere per ciò in cui crediamo, ma saremo la prima generazione più povera
della precedente.
Da qui la necessità di raccontare ai
nostri figli ciò che è avvenuto, affinché non diano per scontati i diritti di
cui beneficiano, almeno in parte, e che sono stati conquistati con lotte a
volte feroci.
Insegnare ai nostri figli a non
accontentarsi, a non rimanere incastrati in ingranaggi sanguinari, che
stritolano sogni e sacrifici e non offrono certezze né riconoscimenti, ma a
impegnarsi per cambiare.
Abbiamo la responsabilità educativa
di insegnare il rispetto per noi stessi e per gli altri, senza soffermarci
sulle differenze di sesso, di orientamento sessuale, di religione o di
pensiero.…
La responsabilità della nostra
generazione è vivere ogni giorno dell'ideologia che animò quegli anni
rivoluzionari, nutrirci di passione, libertà e uguaglianza, perché il
Sessantotto diventi una parte di noi da non dimenticare più.
La
Storia si crea quando si comincia a
raccontare una storia: così tante voci si sono unite in questo libro
per
delineare uno spartito corale sul Sessantotto, con gli anni del preludio e
quelli del finale.
(dalla prefazione di Carlo A. Martigli)
Riparlare
oggi del Sessantotto non significa riportarlo in vita, troppe cose sono
cambiate. Va però ricordato che la storia del Graal insegna che non è
importante la sua conquista, ma il percorso, la strada che viene percorsa, come
se la meta fosse raggiungibile. Nel ricordo, ognuno porti la sua pietruzza: non
costruiremo più la piramide che avevamo sognato, ma alla fine potremo dire di
aver fatto la nostra parte.
"Sinfonia nera in quattro tempi", "Come le donne", "L'onda lunga del Titanic"
"Noi e il Sessantotto"
si possono richiedere direttamente ai miei recapiti personali qui sopra, presso gli editori Macchione, PMedizioni e Youcanprint
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ho letto il libro e lo consiglio caldamente a tutti.
RispondiEliminaAdriana
grazie Adriana!
RispondiEliminaSi invita caldamente a leggere il libro; ma pure a proseguire la discussione.Per esempio la democrazia e il 68'. Oggi le cose sono cambiate. Alcune in peggio. Ma altre in meglio. Qualcuno ha già lanciato su La Stampa la proposta di inserimento del diritto a Internet in Costituzione. Che ne dite?
RispondiElimina