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domenica 18 novembre 2018

Noi e il '68 .Ricordi


( cura di Tiziana Viganò?)

Vogliamo presentarvi stralci da un libro di attualità e di grande successo che ci racconta il '68 e quell'epoca incredibile.

Scrittori e scrittrici che hanno vissuto quel periodo e giovani che lo guardano con gli occhi di chi vive oggi:
storie quotidiane, a volte rumorose, a volte riservate di una rivoluzione culturale basata sugli ideali e sulla passione di viverli

Tante sono le opinioni sul Sessantotto, anche molto diverse: c’è chi l’ha amato, chi l’ha vissuto intensamente, chi l’ha solo osservato, chi si è defilato, chi è rimasto deluso, chi l’ha approvato e chi no,
chi si è arrabbiato e chi ne ha avuto un sacro terrore, chi l’ha combattuto strenuamente…
Nessuno è rimasto indifferente. E non lo è ancora oggi.


Presentazione dell’antologia  
di Tiziana Viganò

Questi pochi minuti di immagini racchiudono e ci donano, con la lucidità che è propria di ogni grande artista, alcuni dei più importanti temi che hanno precorso e illuminato i primi movimenti del Sessantotto.
Prima di tutto il desiderio di un mondo nuovo, dopo distruzione del vecchio ordine basato su finzione e ipocrisia, su oggetti e non persone, sugli status symbol e sul consumismo, su una ricchezza di pochi prodotta a danno dei più; il desiderio di essere liberi e padroni di se stessi, delle proprie scelte e della propria vita, come del proprio corpo e dei propri desideri; la comunione con la Natura, un rapporto gioioso e rispettoso con essa; la diversità come risorsa.
Ma soprattutto la libertà, in tutte le sue declinazioni.
Andare fuori dagli schemi, avere un’altra visione del mondo, cercare l’utopia: così erano cominciati i movimenti giovanili negli anni Sessanta. Quello che spesso era bollato dai conservatori come ribellismo giovanile, a volte per l’impreparazione, a volte per l’ingenuità, esprimeva la necessità di cambiare, di uscire dalle regole della vecchia società retriva, bigotta, oppressiva e diseguale, che privilegiava l’economia aggressiva di stampo capitalista e consumista ai reali bisogni dell’individuo, quelli spirituali, la libertà, la pace, la fraternità, l’uguaglianza delle razze e dei generi, la legittimità delle religioni, delle opinioni.
Che ne è stato di quegli ideali meravigliosi che hanno mobilitato masse di giovani a livello planetario? Confluiti nei movimenti prima studenteschi e poi operai hanno preso la via della contestazione: in parte ne hanno formato lo zoccolo, per poi diramarsi in molti rivoli che hanno avuto alterne vicende e sono approdate a ben diverse conclusioni. Quali sono state le conseguenze del fallimento? Quali conquiste sono valide ancora oggi e quali sono state disattese?

Quando, dopo un certo numero di anni, un passato comune vuol mettersi in relazione con le nuove generazioni e trasmettersi genera una nuova realtà che è la rappresentazione del passato. È dunque nel rapporto con le altre generazioni e nel rivivere, ripensare collettivamente vissuti comuni che si crea una storia. In questo senso molto prossima alla creazione di un mito.”
(Franca Balsamo).

L’amicizia è epica: è l’incontro casuale nella folla in un momento di lotta. È una familiarità che ricuce una
frattura, con il filo di nuovi valori condivisi

L’educazione sentimentale per un’età di passaggio  
di Franca Balsamo
Torino, 1968-oggi

I leader erano “I” leader, la mia amica Laura era per me innanzitutto la donna di Luigi e il suo ruolo di “capo” politico, ai miei occhi di allora, le apparteneva in quanto inserita nella rete di relazioni del clan dei maschi.
L’unica alternativa a un ruolo femminile complementare era un travestimento. E io cercavo di essere una copia del maschile. Talvolta me ne travestivo persino nell’abbigliamento, anche se mai completamente. Al punto di generare un ibrido, come quando indossavo pantaloni e minigonna insieme, con un ultimo appiglio simbolico a un femminile in pericolo.
Ma forse in quel momento, fino a quel punto, ragazzi e ragazze avevano obiettivi comuni, un percorso comune. Si trattava dell’alleanza tra fratelli e sorelle, uniti insieme contro la legge del padre. Nella denuncia dell’autoritarismo delle istituzioni, non ci eravamo ancora ben rese conto che il “patriarcato” era il potere dei maschi. Ci voleva un’altra lente, quella del femminismo. E allora le madri sostenevano quella autorità e la trasmettevano ai figli e alle figlie: noi non vedevamo ancora la loro ambiguità.
Le donne hanno dunque partecipato alla sfera pubblica travestite da uomini: tuttavia fu una partecipazione fondamentale.
Per le donne della generazione precedente alla mia, solo pochi anni prima, la tappa obbligatoria e asse della vita era stato il matrimonio che le incanalava nelle regole e nelle gerarchie familiari. Ora fidanzamento e matrimonio entrarono nel ciclone della crisi culturale e istituzionale. Per noi rito di separazione e di solidarietà fu il movimento degli studenti. E attraverso il movimento le donne ebbero accesso per la prima volta a un rituale di passaggio maschile.


Luci e ombre di un grande movimento 

di Claudio Bernardino Foresti

Predore-Milano-Torino, 1972–1981

Ad agosto del 1978 entrai in Fiat come operaio e fui subito eletto delegato del Consiglio di Fabbrica. Furono anni difficili dal punto di vista politico e sindacale: alcuni delegati di linea scelsero la lotta armata, ma questo lo scoprii solo in seguito, quando iniziarono i primi arresti: infatti costoro in un primo momento conducevano una doppia vita, in fabbrica operai in lotta, all’esterno, in società, banditi. Anche la grande officina nella quale lavoravo fu coinvolta.
Patrizio Peci, uno degli esponenti di primo piano delle Brigate Rosse, riuscì a organizzare una colonna armata in alcune linee delle presse di Mirafiori, in atteggiamento di violento antagonismo nei confronti del sindacato. I delegati del consiglio di fabbrica però avviarono per tempo un dibattito difficile e impegnativo, sostenuti dall’esperienza di alcuni magistrati aderenti a Magistratura Democratica.
Non possiamo dimenticare che il 1978 fu l’anno dell’uccisione di Moro e della sua scorta: i brigatisti, esecutori del massacro, da qualcuno furono definiti “compagni che sbagliano”.
Nonostante le emozioni del momento fossero intense, in fabbrica si sviluppò una discussione interessante, perché si trattava di capire cosa stesse succedendo. Nonostante le ovvie difficoltà, i delegati del consiglio capirono, coinvolsero tutti i lavoratori e le iniziative coincisero con l’intervento del Generale Dalla Chiesa che sconfisse Peci.


Il nome sotto il tavolo 
di Gemma Girolami
Caronno Pertusella (Va), 1968-1974

(parla di bambini emigrati dal Sud Italia per lavorare nelle fabbriche della zona e del doposcuola organizzato da lei e da suo marito nella loro casa)
Erano bambini che, come i loro genitori, dovevano affrontare lo sradicamento culturale passando quasi sempre dal dialetto d’origine al dialetto locale.
Furesti che giorno dopo giorno dovevano conquistarsi anche il diritto a giocare. Molto spesso si rifugiavano in atteggiamenti regressivi che li facevano sembrare meno intelligenti, meno bravi, meno tutto o al contrario più aggressivi, più testardi, più arroganti. In una parola, bambini impegnativi.
Prima della conquista della scrittura, della lettura, delle tabelline o della storia, c’era la conquista della loro fiducia. Era un lavoro lento, ricominciato mille volte dall’inizio e quando si pensava di aver fatto qualche progresso magari arrivava la proposta dell’insegnante di spostare la figlia nella classe differenziata. E spesso i genitori analfabeti vedevano in me l’unica ancora di salvezza, colei che andando a parlare con la maiestra poteva allontanare la vergogna. Crescevamo insieme, noi e loro, arricchendoci a vicenda.


Ci sentivamo più grandi della nostra età 
di Angelo Gavagnin
Marghera, 1968-1970

Per fortuna nel 1969 scoppiò un’altra bomba, ma questa volta sparse amore e musica: Woodstock fu l’apoteosi, i dati ufficiali parlarono di quattrocentomila giovani presenti ma c’è chi dice fossero un milione. I più noti gruppi di allora si alternarono sul palco che divenne un mito. 
Subito dopo il 1970 iniziò un’altra rivoluzione: nacquero le prime radio libere. Secondo i miei ricordi c’era già chi trasmetteva, ma solo il 28 luglio 1976 una sentenza della Corte Costituzionale sancì la legittimità delle trasmissioni radiofoniche private, purché a diffusione locale. Da quel momento ognuno poté parlare e discutere via etere superando il monopolio della comunicazione di stato. Adesso, che siamo abituati agli eccessi di comunicazione, non ci rendiamo conto che a quei tempi esisteva solo la RAI e c’erano solo tre canali: fu eccitante! Radio che diffondevano musica per molte ore al giorno e radio di quartiere: questo erano le prime radio libere. Trasmettevano da un appartamento che doveva avere un terrazzo più alto possibile per posizionare l’antenna e coprivano una decina di chilometri e poco più, la gente telefonava per discutere o anche solo scherzare, per vivere la novità di sentire la propria voce per radio.
Io ho lavorato alla prima radio libera della mia città, RadioMestre103, si sentiva solo fino a Marghera e in realtà non riusciva a coprire neanche tutta l’area. Trasmettevo un programma di musica dal nome “Musica della notte”: tra un pezzo e l’altro introducevo qualche argomento sul quale discutere e mettevo in onda le telefonate senza nessun filtro.

Il mio non-Sessantotto              
di Mirella Guerri
Milano-Rescaldina, 1966-1975

Di quel periodo e degli anni successivi ricordo le ragazze che andavano in giro con le gonne lunghe, molto fiorite, con zoccoli di legno aperti dietro e con la parte superiore di cuoio nero. Ne avevo un paio anch’io che mettevo in terrazza quando mi occupavo delle mie piante. I ragazzi cominciavano a portare i capelli lunghi. Ricordo un’amica con tre figli adolescenti, il preside di uno di loro gli aveva intimato di tornare a scuola con i capelli corti e la madre mi raccontava che stava cercando un’altra scuola dove mandarlo, dato che la richiesta del preside per lei era inaccettabile. Io ero sconvolta, mai avrei fatto cambiare scuola a un figlio (amici, insegnanti, abitudini) per un motivo simile!
All’istituto magistrale statale da me frequentato, noi ragazze non potevamo andare in pantaloni, ma con la gonna sotto al grembiule nero, non potevamo tenere i capelli sciolti, ma raccolti in trecce o coda di cavallo, i jeans non si portavano ancora, certo sarebbero stati vietati; nessun giorno di sciopero o di autogestione, non esisteva neppure la parola. Nessun voto politico, ma neppure le più brave riuscivano a vedere i dieci o raramente i  nove, semplicemente non venivano dati i voti molto alti.


Sessantotto, avanti ancora!   
di Raúl Della Cecca
Mendoza (Argentina)-Milano, 1968 -oggi

Ho sempre lavorato nell'ambito dello spettacolo, per sorte, fortuna o vocazione.
Nel Sessantotto lo schermo per i sogni era gigante, come quello del cinema. La riduzione ai minimi termini, in fatto di dimensione dell'immagine, e preciso per cattiveria anche di qualità, è arrivata molto più tardi.
Ora la fruizione modello serial su schermi tascabili la dice lunga circa i messaggi veicolati dagli attuali autori.
La tecnologia ha promosso tutti fotografi e registi, grazie agli strumenti di ripresa digitali abbordabili.
Siamo nel “Don Quijote” di Cervantes, sono proclamati todos caballeros, tutti cavalieri. Quantità contro qualità.
Non voglio però negare che a questi livelli, per me bassi, ci siamo arrivati anche per una lunga catena d'errori nati in quel periodo travagliato, dove si doveva realizzare tutto subito, come se il tempo fosse un fattore a esaurimento.
Diciamo che quel tempo aveva fatto da volano per la ricerca verso quello che immaginavamo fosse positivo, tra cambiamenti ormai francamente improcrastinabili e illusioni infantili di ribaltamenti impossibili.
Un'intera generazione, nel mondo occidentale, almeno ci ha provato.
Oggi, come puoi vedere, le persone che amano il cinema, anche giovani, cercano di studiarlo soprattutto al passato prossimo: Kubrick, De Palma, Godard, Pasolini, Truffaut, Rossellini, Polanski, Bresson, Edwards... Lo stesso vale per la musica. Nessuno ha interrotto nel tempo gli acquisti, pardon i downloads, dei Beatles e dei Pink Floyd, dei Rolling Stones, di John Lennon o di De André.
Altri artisti dai successi molto più recenti, magari bravissimi per alcuni critici, dopo lo spazio di un effimero award hanno perso il posto che stavano facendo in fila per entrare nella storia.
Vorrà pur dire qualcosa tutto questo?

365 giorni dopo piazza Fontana  
di Giancarlo Bosini
Milano, 12 dicembre 1970

«Fascisti! Oggi abbiamo una conferma in più che è sempre la polizia a creare i motivi del disordine. Sono dalla parte dei padroni.» commenta uno di questi compagni, mentre cerca di sbirciare fuori dall’alto finestrino di queste vecchie scale, dove siamo riusciti a rifugiarci.
«Ma anche loro sono proletari, possibile che non lo capiscano?»
«Saranno anche proletari, ma si comportano da fascisti. Ci aspettavano, avevano già programmato tutto. Oggi nel centro di Milano sono in corso contemporaneamente quattro manifestazioni; era ovvio che avrebbero colto al volo questa occasione per far vedere chi comanda. Ma adesso è tutto chiaro. Hanno gettato la maschera.»
«La manifestazione di piazza San Carlo è però del Movimento Sociale.»
«A quelli non avranno fatto nulla. Se la prendono solo con noi, mi gioco le palle.»
«Ma ci sono anche quelli del Movimento Studentesco della Statale, anche loro non se la staranno passando bene.»
«È sicuro; per arrivare in Duomo sono passato da via Larga, ancora non era successo niente, ma sembrava una polveriera pronta a esplodere. C’erano carabinieri e celerini dappertutto.»
Improvvisamente, sovrastando il fragore proveniente dalla strada, giunge fino a noi l’eco di qualche colpo d’arma da fuoco.
All’unisono tutti smettiamo di parlare. Sento il cuore accelerare. Poi altri colpi, secchi, in rapida successione. Pam! Pam! Pam!
«Cazzo! Qua sotto sta succedendo un vero macello.» ci dice il compagno di vedetta al finestrino. «Oltre ai candelotti, adesso hanno anche tirato fuori le rivoltelle. Ne ho intravisto uno sparare basso.»
«Ma com’è possibile sparare contro chi chiede solo di conoscere la verità?» dico, pensando all’attentato di piazza Fontana, costato la vita a diciassette persone, più quella dell’anarchico Giuseppe Pinelli, caduto dalla finestra della questura durante un interrogatorio.
«E’ chiaro, ci vogliono chiudere la bocca.»


Utopia e distopia      
di Tiziana Viganò
Milano, 1967-1978

E non dimenticherò mai il giorno in cui il delegato sindacale della Garzanti irruppe correndo nel corridoio dove c’era il mio ufficio gridando sconvolto «Hanno ammazzato Moro!»: piombammo tutti in uno stato di sgomento indicibile, di spavento, di incredulità, di delusione.
Non passò molto tempo per capire che un mondo era finito, che si apriva un altro orizzonte oscuro e incognito, dove molte cose conquistate avrebbero comunque germogliato e dato frutti, cambiando per sempre la società, ma che altri ideali sarebbero stati travolti per sempre dall’onda di esecrazione seguita ai cruenti fatti degli anni successivi.
Il mondo distopico che scrittori, visionari e profeti avevano previsto anni addietro avrebbe lentamente fatto breccia nella società, come un tossico che si infiltra lentamente nella linfa di una pianta, cambiandone la natura e disseccandola.
Forse il mondo e l’albero verranno salvati da un’altra utopia, che spero arrivi presto, simile o diversa, ma basata, questa volta, sulla pace.


Pandora: aspettando il Sessantotto 
di Massimiliano Barone
Milano, oggi

Mentre la mia mente continuava a solcare onde, la mia attenzione cadde su una strana figura apparsa sul vetro della finestra. Era la mia immagine riflessa, pallida, semitrasparente e semivuota. Vuota come le mie speranze, vuota come il nostro mondo privo di ideali e di ideologie e allora mi chiesi: c’è mai stato un mondo vero, reale, tangibile e pieno di ideali?
Le onde diventarono alte, il vento soffiò forte e le vele si strapparono. Eccolo avanzare, era il tifone del Sessantotto.
Dicono che sia stato un periodo straordinario, pieno di fermento e di grande partecipazione. Io non ero ancora nato. Non sapevo molto su quegli anni, fu mio zio a raccontarmi tutto. Inizialmente pensavo che fosse solo un periodo da dimenticare, un errore di gioventù che portò solo tanta confusione e scompiglio, fino al tragico epilogo degli anni di piombo e delle stragi. Non cambiò niente e morirono tante persone per niente, così pensavo. Poi mio zio mi spiegò tutto.
«Max, è giusto che tu debba comprendere cosa successe realmente nel Sessantotto.» Mi disse un giorno.


La responsabilità della mia generazione
di Barbara Nittoli
Legnano, oggi

Con questi presupposti le responsabilità della nostra generazione sono molteplici e fondamentali.
Innanzitutto dobbiamo riprendere a lottare per ciò in cui crediamo, se ci sentiamo svalutati e schiacciati in un sistema che non riconosce il nostro valore e i nostri diritti, proprio come ha fatto chi ci ha preceduto. I nostri nonni hanno combattuto guerre perché questo potesse essere un Paese libero e democratico, in grado di offrire diritti e possibilità a chiunque vi abitasse. I nostri genitori hanno lottato negli anni Sessanta e Settanta affinché potessimo vivere nella parità dei sessi, immuni da condizionamenti e limitazioni sociali e religiose. Noi non siamo stati abituati a combattere per ciò in cui crediamo, ma saremo la prima generazione più povera della precedente.
Da qui la necessità di raccontare ai nostri figli ciò che è avvenuto, affinché non diano per scontati i diritti di cui beneficiano, almeno in parte, e che sono stati conquistati con lotte a volte feroci.
Insegnare ai nostri figli a non accontentarsi, a non rimanere incastrati in ingranaggi sanguinari, che stritolano sogni e sacrifici e non offrono certezze né riconoscimenti, ma a impegnarsi per cambiare.
Abbiamo la responsabilità educativa di insegnare il rispetto per noi stessi e per gli altri, senza soffermarci sulle differenze di sesso, di orientamento sessuale, di religione o di pensiero.…
La responsabilità della nostra generazione è vivere ogni giorno dell'ideologia che animò quegli anni rivoluzionari, nutrirci di passione, libertà e uguaglianza, perché il Sessantotto diventi una parte di noi da non dimenticare più.

La Storia si crea quando si comincia a raccontare una storia: così tante voci si sono unite in questo libro
per delineare uno spartito corale sul Sessantotto, con gli anni del preludio e quelli del finale.

(dalla prefazione di Carlo A. Martigli)
Riparlare oggi del Sessantotto non significa riportarlo in vita, troppe cose sono cambiate. Va però ricordato che la storia del Graal insegna che non è importante la sua conquista, ma il percorso, la strada che viene percorsa, come se la meta fosse raggiungibile. Nel ricordo, ognuno porti la sua pietruzza: non costruiremo più la piramide che avevamo sognato, ma alla fine potremo dire di aver fatto la nostra parte.


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3 commenti:

  1. ho letto il libro e lo consiglio caldamente a tutti.
    Adriana

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  2. Si invita caldamente a leggere il libro; ma pure a proseguire la discussione.Per esempio la democrazia e il 68'. Oggi le cose sono cambiate. Alcune in peggio. Ma altre in meglio. Qualcuno ha già lanciato su La Stampa la proposta di inserimento del diritto a Internet in Costituzione. Che ne dite?

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