!-- Menù Orizzontale con Sottosezioni Inizio -->

News

mi piace

domenica 18 marzo 2018

La forma dell’acqua – film di Guillermo del Toro


di Annalisa Petrella


Una fiaba per tempi difficili

Attraverso questa storia volevo celebrare le diversità, le imperfezioni e, soprattutto, l'altro, vale a dire chi è diverso da noi. Non mi interessava parlare di tolleranza, bensì d'amore.
Baltimora, 1962. Elisa Esposito, una Sally Hawkins in gran forma (la ricordiamo in Blue Jasmine), è muta e lavora come donna delle pulizie in un importante centro di ricerca aerospaziale dove un giorno gli scienziati trasportano in grande segretezza una misteriosa creatura anfibia, proveniente dal Rio delle Amazzoni, per sottoporla a esperimenti in vista della competizione con i sovietici per la conquista dello spazio. Quando la donna scopre la presenza della creatura ne rimane attratta, se ne innamora e ne è ricambiata. Farà di tutto, con l’aiuto dei suoi amici più cari, Zelda, afroamericana (Octavia Spencer), e Giles, vicino di casa omosessuale (Richard Jenkins), per strapparla al suo triste destino di cavia e alla violenza di Strickland (Michael Shannon), spietato agente governativo che ha il compito di difendere “la risorsa” ad ogni costo. Siamo in piena Guerra Fredda e la vicenda si trasforma in un intrigo spionistico con tanto di inseguimenti e sparatorie per arrivare a un finale dolcissimo che riconduce il pubblico alla fiaba e gli permette di sognare.

Guillermo del Toro con La forma dell’acqua, che ha vinto quattro premi Oscar con ben tredici candidature, conferma il suo stile onirico e si rivela ancora una volta un grande narratore dei malesseri che affliggono la nostra epoca. La storia si svolge in un tempo meno recente ma ben sappiamo che il regista ci parla dell’attualità con tutti gli incubi da cui vorremmo risvegliarci e la scelta dell’acqua rappresenta il veicolo facilitatore per un dialogo evocativo di amore e rinascita.
La trama è “assurdamente assurda”, come dice il regista, la finzione, con allusioni all’horror classico, diventa realtà e lo spettatore viene accompagnato con grazia in un viaggio fiabesco dove i buoni e i discriminati uniscono le loro sofferenze e solidarizzano a dispetto dei veri mostri più o meno mimetizzati tra le persone “normali” che incrociano – e incrociamo - quotidianamente.
La storia si sviluppa in un crescendo contrappuntato da sapienti sprazzi di humour ed erotismo e fa risaltare la cura maniacale del regista per l’ambientazione, la fotografia e le musiche d’epoca. Ogni dettaglio è nella giusta collocazione: le automobili – bellissima la scena con la Cadillac -, i cartelloni pubblicitari in stile Norman Rockwell e la sala cinematografica Orpheum, collocata esattamente sotto gli appartamenti di Elisa e di Giles, dove si proiettano “La storia di Ruth” (1960) e “Mardi Gras” (1958) in una sala sempre più vuota nella lotta impari con l’onnipresente televisione che ha invaso le case e gli sguardi di ogni spettatore. Anche Elisa e Giles nelle lunghe serate si perdono davanti allo schermo in bianco e nero del televisore di casa seguendo i grandi varietà musicali con Bojangles, Betty Grable, Carmen Miranda e Alice Faye.
I numerosi piani sequenza della macchina da presa, che passano da un livello all’altro dell’edificio, sono una dichiarazione d’amore di Del Toro per il cinema e un invito a lasciarci trasportare senza remore dove i confini tra realtà e finzione si dissolvono.
In ogni scena l’oscurità regna sovrana, i colori richiamano le sfumature più buie dell’acqua, le pareti della stanza di Elisa ne sembrano intrise, il cielo di Baltimora è denso di pioggia, ma sono proprio le venature di questa penombra che rendono possibile una storia d’amore impossibile. Il dialogo – se così può essere definito il comunicare tra la “creatura” che non sa parlare e la donna muta – diventa eloquente, i gesti, gli sguardi, gli abbracci diventano credibili, ci sentiamo leggeri, sorridiamo e parteggiamo per loro, dentro di noi svanisce ogni paura del mostro, del diverso e la storia diventa elegia dell’amore.
Del Toro, che non è minimamente interessato alla verosimiglianza, si diverte a forzare sul fantastico e il meraviglioso, lo afferma fin dalla prima scena attraverso la voce narrante di Giles: - Come potrei raccontarvi questa storia? Come potreste credermi? – e riesce pienamente nel suo intento di realizzare un film poliedrico con un mostro, una favola romantica, una parabola sulla tolleranza, un thriller di spionaggio e un’ode al cinema classico.
Il regista messicano che ha sempre amato i film con i mostri, i suoi film più famosi sono Il labirinto del fauno (2006) e Pacific Rim (2013), a proposito di La forma dell’acqua, da lui definito il suo film migliore, ha raccontato che dopo essersi ispirato per anni ai suoi incubi di ragazzo questa volta ha scelto di ispirarsi ai suoi sogni. La narrazione ha evidenti nessi con Il mostro della laguna nera un B-movie del 1954, La bella e la bestia e La Sirenetta. Vi ritroviamo anche elementi che rinviano a Il favoloso mondo di Amélie Poulain nella lunga scena della preparazione di Elisa al mattino prima di andare al lavoro.
L’indimenticabile scena del ballo tra Elisa e la “creatura” sulle note dell’intramontabile You’ll Never Know è presa da Seguendo la flotta, film del 1936 con Fred Astaire e Ginger Rogers.

I costi del film non sono stati strabilianti, Del Toro ha scelto di risparmiare, quando possibile, sugli effetti speciali della “creatura” anfibia che doveva suscitare empatia e ci ha lavorato per tre anni partendo dalla forma delle labbra che non dovevano terrorizzare bensì diventare attrattive, trattandosi di una storia d’amore.
Non ha invece risparmiato sulla scelta delle cineprese. La forma dell’acqua è piena di Steadicam (che permettono ai cameraman di camminare o correre dietro agli attori), Dolly (cineprese su carrelli) e Technocrane (cineprese montate su alte gru). Sono costose e rallentano la produzione, ma per del Toro erano necessarie perché «ritmicamente e musicalmente il film ne aveva bisogno».
Da ultimo è interessante notare la coerenza di Del Toro che fino in fondo rifugge dalle trasformazioni classiche che connotano un “negativo” e un “positivo” in contrapposizione: il mostro non si trasforma in principe, rimane tale, e la sua amata non recupera la voce. I due protagonisti non ne hanno bisogno sono belli e positivi così come sono, le loro solitudini si sublimano in un atto d’amore e diventano un grido di libertà in nome dei “diversi”.
Questo è saper fare cinema.



22 commenti:

  1. Annalisa scrivi: "Questo è saper fare cinema", io ti dico "questo è saper fare recensioni".
    Miriam

    RispondiElimina
  2. Sei molto brava a fare recensioni, ma questa è forse la tua migliore: è anch'essa onirica, leggendoti m
    i fai sperare in un mondo migliore... e non ho ancora visto il film!

    RispondiElimina
  3. ma che bello. è un piacere leggerti

    RispondiElimina
  4. Bella,profonda e documentata!

    RispondiElimina
  5. Recensione da Oscar per un film da Oscar, complimenti!

    RispondiElimina
  6. È un piacere raro leggere recensioni come le tue

    RispondiElimina
  7. Bello il film e bella la recensione!

    RispondiElimina
  8. La recensione è molto bella e denota una profonda conoscenza dell'arte cinematografica oltre che una grande sensibilità per le immagini offerte e per il racconto. Da profana, tuttavia, devo dire che il film, su cui avevo grandi aspettative, non mi è piaciuto molto, l'ho trovato un po' claustrofobico, molto buio, soprattutto piuttosto violento, come molti film attuali e come non erano quelli degli anni cinquanta. Quanto alla poesia, a mio parere, non emerge molto, cedendo il campo alla spy story e al thriller. Ma visto che ha riscosso tanti apprezzamenti sono sicuramente io che non ho capito...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie, Angela, del commento approfondito, è interessante avere diversi punti di vista.

      Elimina
  9. Nella tua bella recensione ho ritrovato in pieno l'atmosfera di questo film che è fiaba, fantascienza, spionaggio, ma anche omaggio al vecchio cinema e ai meravigliosi musical d'epoca, mentre la scena finale, con i due corpi che fluttuano nell'acqua, sembra un omaggio a Jean Vigo. Scrivine ancora di recensioni perchè sono molto interessanti e ben fatte. Stefania

    RispondiElimina
  10. Ho letto la tua recensione e mi sembra di apprezzare ancora di più il film.

    RispondiElimina
  11. Ho visto il film e mi è piaciuto molto, delicato e misterioso, l'incontro fantastico di due "diversi" che si amano nella loro unicità. La tua recensione è perfetta e mi fa venire voglia di rivederlo!
    Ludmilla

    RispondiElimina
  12. A dire la verita' era un film che non avevo voglia di vedere. Adesso ne ho colto l'aspetto poetico che me lo fa piacere. Bella lettura della storia. Brava, bella recensione.

    RispondiElimina