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lunedì 9 marzo 2015

Oggi parliamo di...Enzo D'Alò

Di Boris Bertolini


Nella mia ancor breve, e spero non già agli sgoccioli, carriera di autore su queste pagine, mi sono prefissato l’obiettivo di alternare pezzi dedicati ad autori internazionali ad altri incentrati su figure di casa nostra.
È quindi con enorme piacere che ora mi accingo a raccontarvi di uno dei registi più interessanti del panorama nazionale dell’animazione.
Di Enzo D’Alò non si può di sicuro dire che non sia un artista a tutto tondo: nato a Napoli nel 1953, il suo primo contatto con l’arte e le sue forme di espressione avviene in campo musicale.
Enzo D'Alò

Le sue prime esperienze in tal senso infatti lo vedono nelle vesti di musicista Jazz, in qualità di suonatore di Sax e Flauto traverso[1].
Alla fine degli anni Settanta, una prima svolta: chiamato ad effettuare il servizio militare, D’Alò decide invece di presentare domanda per compiere il Servizio Civile, venendo destinato a svolgerlo presso un laboratorio che si occupa di realizzare film di animazione per bambini.
In questo periodo D’Alò apprende i segreti della tecnica di animazione grazie agli insegnamenti di Lotter Heninger, regista di animazione tedesca ed autrice di “Le avventure del principe Akhmed”. 
In particolare, questa maestra delle ombre cinesi, lo introduce a quelli relativi all’animazione in diretta. Sempre in quel periodo, era il 1979, conosce un’artista francese di nome Frances Bernard, cui anima e musica un film dedicato a “Pinocchio”, personaggio che, vedremo più avanti, sarà destinato a rivestire un ruolo fondamentale nella carriera di D’Alò[1].  
La sua opera prima come regista e sceneggiatore è del 1996 e si intitola La Freccia Azzurra.
La sua realizzazione ha visto la compartecipazione di numerosissimi disegnatori provenienti da svariati paesi, sotto la supervisione di S. Pautasso, ed ha richiesto svariati anni di lavorazione.

Francesco e Spicciola
In essa, si narra di un gruppo di giocattoli che, alla vigilia dell’Epifania, magicamente si anima e scappa dal negozio della Befana.
Il motivo della fuga è duplice: non vogliono tradire quella che essi sentono essere la loro missione esistenziale, cioè dare gioia e serenità a tutti i bambini, indipendentemente dalle loro disponibilità economiche, e vogliono mettersi sulle tracce di Francesco, un bimbo povero ma tanto desideroso di ricevere in dono un bellissimo modellino di treno, La Freccia Azzurra, appunto, che fa bella mostra di sé nella vetrina del negozio della befana.
Pertanto, il grande capo nativo americano Penna d’Argento, gli operai del meccano, la banda musicale, i soldati, il pilota d’aereo, l’orsetto di pelouche, il mago, le bambole, le matite colorate e naturalmente la Freccia Azzurra con il proprio equipaggio, si mettono in marcia, guidati dal fiuto di Spicciola, cane di pezza incaricato di trovare e seguire le tracce di Francesco.
Oltre a ciò, i giocattoli devono sfuggire a Scarafoni, assistente della Befana, il quale, accortosi della loro fuga, si mette immediatamente all’inseguimento.
A tale scopo, utilizza come mezzo di locomozione la scopa datagli dalla Befana stessa al fine di effettuare quelle consegne che lei, misteriosamente ammalata, non può fare.
Per ben due volte il malvagio assistente sarà sul punto di riacciuffare i giocattoli, ma in entrambi i casi finirà con l’avere sempre la peggio. 
Scarafoni e (sullo sfondo) la Befana

I giocattoli decideranno quindi di regalarsi a vari bambini, i cui nominativi sono presenti in una agendina persa dallo stesso Scarafoni.
Inoltre, poiché, come si suol dire, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, ecco che le malefatte di quest’ultimo vengono scoperte dalla Befana, che si attiva prontamente per porvi rimedio.
A latere della vicenda principale troviamo quella che vede protagonisti due ladruncoli da strapazzo, i quali vogliono svaligiare il negozio della Befana; essendo però assolutamente  inetti, coinvolgono Francesco nel loro piano criminale.
Il ragazzino, nonostante chiami la polizia e faccia arrestare i due malviventi, viene preso per loro complice ed arrestato a sua volta; solo l’intervento della Befana, indiscussa Autorità nel campo del giudicare i bambini, ne garantirà la scarcerazione permettendo al ragazzino di tornare a casa. 
Francesco, sulla strada del ritorno, si imbatte in un cucciolo di cane; questo però non è un cucciolo qualsiasi: si tratta di Spicciola che, grazie al fatto che nella notte della Befana tutto può accadere, si è trasformato in un cane in carne ed ossa.
I due perciò si ritrovano e Francesco decide di tenere con sé l’animale, reputandolo il migliore regalo che potesse mai ricevere.
Alla fine, Scarafoni viene arrestato, avendo cercato di fuggire con i soldi del negozio della Befana; egli inoltre dovrà rispondere del reato di truffa, giacché, notoriamente, non si deve pagare per avere i regali della Befana; Da notare come il suo arresto permetta a Scarafoni di scampare così alla rabbia della folla di genitori che egli ha derubato. 
Francesco, dal canto suo, riceve oltre a Spicciola un’ulteriore gratifica: la Befana lo nomina suo nuovo Assistente.
Gianni Rodari (1920-1980)
Tratta dall’omonima novella che Gianni Rodari (Omegna 1920 – Roma 1980), indiscusso maestro italiano della letteratura per bambini, scrisse nel 1964, quest’opera prima si sviluppa sulla sceneggiatura scritta a quattro mani dallo stesso D’Alò, assieme ad Umberto Marino.

Senza tradire l’impianto originale del racconto rodariano, e soprattutto senza alterarne le finalità ed il messaggio, D’Alò introduce nella storia alcune interessanti innovazioni o variazioni sul tema, che gli permettono di meglio focalizzare alcuni aspetti già insiti nel testo scritto originale.
Ecco allora l’apparizione di due nuovi personaggi quali i boriosi Carlo Alberto e Filippo Maria, altezzosi rampolli (dell’aristocrazia o della grande borghesia, poco importa), i quali sono mossi non da un reale desiderio di avere qualcosa con cui giocare e divertirsi, ma solamente dalla voglia di possedere l’ennesimo giocattolo, destinato a finire, dopo qualche giorno, sulla pila dei giochi non più utilizzati e di sfoggiare in questo modo le loro ingenti disponibilità finanziarie.
Emblematico, e per certi versi sconvolgente, il loro dialogo iniziale, che si svolge mentre si recano, accompagnati da Silvana, la loro governante, a consegnare presso il negozio della Befana la loro lista di richieste.
A fronte di una inverosimile quantità e varietà di pezzi richiesti da Carlo Alberto, Filippo Maria non trova di meglio che sollevare l’obiezione che forse i giocattoli inseriti nell’elenco sono pochi, rischiando di rimanerne sforniti “già a Pasqua”.
Sulla stessa lunghezza d’onda anche il modo, tronfio ed arrogante, con cui essi si rivolgono a Silvana, quando le ordinano di consegnare la loro lista, o con cui commentano il disordinato, ma sicuramente più vivo ed autentico, accalcarsi dei bambini davanti alla vetrina del negozio della Befana, meta di tutti nel giorno della vigilia dell’Epifania.
Analogamente, abbiamo la creazione di Scarafoni, assistente malvagio della Befana, che viene a sostituire la figura di Teresa, presente nel testo originale; giova sottolineare che questo è forse uno dei maggiori cambiamenti introdotti nel film, rispetto al libro, dal momento che il personaggio di Teresa è tutt’altro che malvagia (nel testo originale è invece la Befana ad avere un carattere burbero e poco incline al buonismo).
Scarafoni viene ad assumere il classico ruolo di antagonista, il cui primum movens è la brama di denaro, che lo spinge ad avvelenare la Befana, al fine di assumere egli il controllo del negozio di giocattoli e selezionare così, sulla base del portafogli, la clientela, cui fa pagare profumatamente i regali.
Chi fa le spese del suo cinismo e della sua grettezza è Francesco, figura immutata nella traslazione dal libro alla pellicola, il quale, essendo troppo povero (e per di più orfano) per poter pagare il suo agognato giocattolo viene scaciato in malo modo dal negozio.
Di nuovo, il dialogo fra il bambino e Scarafoni è paradigmatico delle contrapposte visioni del mondo.
Da una parte l’ingenuità, nel senso più puro del termine, di Francesco, che non si pone nemmeno lontanamente il problema della mancanza di denaro, ritenendo che la Befana, per definizione, porti i regali a tutti i bambini, indipendentemente dalla loro condizione economica; dall’altro Scarafoni, che lo tratta con disprezzo, come se il fatto di non avere soldi a sufficienza faccia di Francesco un rifiuto dell’umanità.
Questo dialogo è fondamentale nella dinamica del racconto poiché è da esso che scaturisce la decisione dei giocattoli di scappare.
Di più, Scarafoni dà a vedere anche quanto violenta e rude sia la sua indole, prendendo a calci e quasi distruggendo una modesta ma innocente ochetta a molla, che ha solo avuto il torto di trovarsi letteralmente tra i suoi piedi.
Quest’ochetta, peraltro, saprà cogliere a tempo debito la propria rivincita, aiutando per di più i giocattoli a sfuggire dalle grinfie di Scarafoni.

Scarafoni nella sua attività preferita: contare i soldi

Al di là delle libertà e delle rielaborazioni che D’Alò si è concesso, in relazione al testo originale, (quelle sopra riportate sono solo alcune tra le tante introdotte nel lungometraggio) è degno di nota il fatto che, nel suo film, egli rimanga fedele a due aspetti presenti nella pagine di Rodari.
Il primo è la descrizione delle differenze di classe presenti nella nostra società, differenze che fanno sì che possano convivere bambini come Francesco, costretto a lavorare pure la notte dell’Epifania, o Maria, che può ricevere dei doni solo se glieli porta la Befana, ed altri come Carlo Alberto e Filippo Maria, con tutta la loro sicumera da ricchi sfondati.
Il secondo è il tono con cui tutto ciò viene raccontato, in modo semplice ma senza banalizzazioni, avendo ben chiaro che il fine primo di Rodari era quello di insegnare, attraverso il racconto, il mondo ai bambini.
Trovo quindi assolutamente appropriato mostrare Francesco al lavoro nel cinematografo, (“Francesco, come mai lavori anche stasera” gli chiede la cassiera, che prosegue poi aggiungendo “alla tua età dovresti essere a casa ad aspettare la Befana”; ad essa egli risponde con un “Befana, la Befana non esiste!”, in grado di spiazzare anche il più scafato degli spettatori), per ricordare questa condizione, purtroppo ancora troppo attuale in molte parti del mondo.
Un discorso speciale merita senza alcun dubbio la mirabile musica scritta da Paolo Conte, che raggiunge qui delle vette notevoli per qualità espressiva.
Essa si mantiene sempre perfettamente in sintonia con lo svolgimento dell’azione filmica ed anche nei momenti, per così dire, più vicini ai canoni dei cartoni disneyani, cioè la scena del ballo sotto il piedistallo della statua ed il duetto canoro delle bambole nel momento del loro commiato dal resto del gruppo, essa è decisamente di classe superiore contribuendo in modo determinante a mantenere altissimo il livello generale dell’insieme.
Parlando ora dell’aspetto grafico, esso è di assoluta caratura: questo lungometraggio infatti si caratterizza per la sua morbidezza e delicatezza del tratto, così come per la scelta dei colori.
I movimenti della macchina da presa sono a loro volta praticamente perfetti, ognuno di essi rende al massimo il senso della scena, del dialogo e garantisce la giusta direzionalità del racconto cinematografico.
Non mancano poi, all’interno di una storia che contiene un certo grado di drammaticità, momenti di pure gags in stile “Tom & Jerry”, il cui indiscusso protagonista, chiaramente in negativo, è Scarafoni e che servono ad alleggerire il tono del racconto.
Curiose anche alcune chicche inserite qua e là da D’Alò: dall’incubo di Spicciola, che sogna di essere divorato dall’assistente della Befana a quest’ultimo che, proprio mentre i giocattoli stanno mettendo in atto il loro piano di fuga, spulciando le lettere ricevute dalla Befana, cita i nomi di Rodari e Conte come se fossero quelli di due bambini qualsiasi.
In chiusura, doveroso parlare del doppiaggio, che vede due attori, due veri e propri mostri sacri, del calibro di Dario Fo e Lella Costa dare voce rispettivamente a Scarafoni ed alla Befana; Dario Fo, in particolare, in questa sua performance dà veramente il meglio di sé, sfruttando fino in fondo il proprio repertorio di cambi di tono, di risate, di inflessioni; Lella Costa per contro non è da meno, garantendo così al suo personaggio quel calore e quell’umanità che non deve mancare. 
Vincitore nel 1997 di un “David di Donatello” e di due “Nastri d’Argento”, questo non è solamente la trasposizione cinematografica di un grande racconto per l’infanzia: è a sua volta una lezione di stile e di vita.
Dal 1997 inizia per D’Alò una collaborazione con Cavandoli, (l’autore de La linea, ricordate?) nella produzione di una serie dedicata al personaggio della Pimpa, la cagnolina a pois creata da Altan.
Le serie in verità furono due, una prima composta da 38 episodi (sui 50 programmati) della lunghezza di 10 minuti l’uno ed una seconda (successiva) di 20 episodi da 5 minuti l’uno. 
Questa produzione, finanziata dalla RAI, ha ricevuto un premio, alla rassegna “Cartoon on the Bay”, ed è stata trasmessa non solo dalla nostra emittente nazionale ma anche da altre a livello europeo 
L’anno dopo, siamo nel 1998, vede la luce il secondo capolavoro di D’Alò, anch’esso tratto da un libro, questa volta di un autore cileno, Luis Sepúlveda (Ovalle 1949-).
Luis Sepulveda (1949-)
Si tratta de “La gabbianella e il gatto” tratto da “La gabbianella ed il gatto che le insegnò a volare”, splendida metafora sulla diversità, la sua accettazione e quanto essa possa arricchire chi ne sa valorizzare le potenzialità.
Zorba, il protagonista, riceve da Kengah, femmina di gabbiano avvelenata dal petrolio, un uovo e le promette solennemente di prendersene cura, così come di prendersi cura di ciò che ne uscirà, insegnandogli per di più volare.
Inizia così una nuova vita per Zorba ed i suoi amici gatti che si devono trasformare nella famiglia della nuova arrivata, Fortunata, detta Fifì.
Il difficile sta proprio in questa particolare condizione: i gatti devono resistere alla tentazione di divorare l’uovo ed il suo contenuto e, più difficile ancora, trovare il modo giusto per farle imparare a volare mentre Fifì si deve abituare all’idea di non essere comunque un gatto, bensì un gabbiano.

Zorba e Fortunata (Fifì)

Il tutto condito dalla continua minaccia rappresentata dai ratti, il cui capo punta a rapire Fifì; egli infatti intende usarla come mezzo per uscire dal sottosuolo e conquistare il potere.
Attraverso varie peripezie e contrattempi, quali la fuga di Fifì dopo una scenata di gelosia di Pallino, dovendo affrontare incredibili pericoli, inclusa una missione di salvataggio di Fifì, caduta nelle grinfie dei ratti, e grazie all’intervento di una bambina, Nina, figlia di un poeta, la gabbianella riuscirà finalmente ad apprendere l’arte del volo, raggiungendo così uno stormo di gabbiani di passaggio con cui proseguire la propria esistenza.
Anche in questo caso, come nel precedente lungometraggio, D’Alò ed il suo co-sceneggiatore Marino, si concedono delle libertà rispetto al testo letterario originale per quanto riguarda la storia, ma, di nuovo, rimangono assolutamente fedeli allo spirito del romanzo, per quanto riguarda le tematiche fondamentali che lo permeano e che possiamo identificare nell’amore ed nel rispetto della natura, in tutte le sue varie forme, nella solidarietà e nella generosità disinteressata. Analogamente, gli autori si attengono alla visione che Sepúlveda ha dell’impatto dell’uomo su questo pianeta: un essere distruttivo (responsabile dello sversamento di petrolio che uccide Kengah) ma anche in grado, volendo, di riparare ai propri danni.
Incarna questo secondo ruolo il personaggio di Nina, una bimba, figlia di un poeta (metafora di Sepúlveda stesso), il cui intervento diventa fondamentale perché Fifì riesca finalmente a volare.
Dal punto di vista della realizzazione grafica, questo lungometraggio rappresenta un’evoluzione rispetto al precedente: il segno rimane morbido ed accattivante, ma si arricchisce di una migliore uso del colore, che viene anche utilizzato in modo da sottolineare la psicologia dei personaggi.
La regia è di nuovo impaccabile, nei movimenti di macchina e nelle inquadrature, sia che riguardino i personaggi sia che spazino sugli ambienti.
Riuscitissimo è anche il modo in cui vengono delineati i personaggi, in particolare il piccolo Pallino, che appare come un vero e proprio bambino, con le sue domande, le sue gelosie, i suoi gesti avventati ma mai cattivi, che lo aiutano a crescere.
Come nel precedente lungometraggio, anche questo si avvale di fior di doppiatori: da Carlo Verdone (Zorba) ad Antonio Albanese (Grande Topo), ed il medesimo Sepúlveda (Poeta).
Pure questo prodotto si è fregiato di riconoscimenti nazionali ed internazionali, un Nastro d’Argento nel 1999 e l’anno dopo il Premio del Pubblico del Festival di Montréal.
Si arriva così all’inizio del nuovo secolo, precisamente nel 2001, quando vede la luce la nuova fatica firmata da D’Alò: Momo alla conquista del tempo, tratto dal romanzo Momo di Michael Ende.

Momo e Cassiopea
Qui si narra di Momo, un’orfanella che ha il potere di portare la pace e l’armonia fra le persone e che, assieme alla tartaruga Cassiopea e Mastro Hora, combatte i Signori Grigi, esseri che rubano il tempo agli umani e se ne nutrono.
Momo, grazie alle proprie doti ed all’aiuto di Mastro Hora, in grado di bloccare lo scorrere del tempo, riesce  a sconfiggere questi esseri restituendo agli uomini il tempo sottrattogli dai Signori Grigi.
Il tema principale del cortometraggio, così come del romanzo da cui è tratto, è l’importanza del tempo di cui ciascun uomo dispone e dell’uso che ne viene fatto.
Analogamente a quanto traspare dal romanzo originale, anche nel film compare una discretamente feroce critica del modo in cui il tempo viene considerato, e di come viene sprecato nella società contemporanea occidentale.
Lo dimostrano il modo in cui ne parlano i Signori Grigi, in tutto e per tutto simili ad anonimi ma spietati funzionari di banca, che considerano il tempo alla stregua del denaro, ed il fatto che essi, per sopravvivere siano obbligati mandarlo in fumo.
Il Presidente degli Uomini Grigi

E che dire della trasformazione cui sottopongono la città, una volta che se ne sono impadroniti? Da tranquillo e felice borgo, dotato di una propria identità, questa viene snaturata in iper-moderna e tecnologizzata metropoli, tuttavia assolutamente anonima e spersonalizzata.
La stessa trasformazione cui vanno incontro i bambini amici di Momo, che all’inizio del film impariamo a conoscere come creature dotate di una spiccata fantasia è emblematica: essi sono risucchiati nel vortice del “divertimento” preconfezionato e, letteralmente, telecomandato.
Momo se ne salva poiché non smarrisce l’unica dote che la tiene al riparo da tutto ciò: la capacità di amare in modo sincero e disinteressato.
Dal punto di vista della realizzazione grafica, questo film si caratterizza per il suo aspetto spiccatamente duale: da una parte la bambina ed i suoi amici con i loro tratti morbidi ed i colori caldi; dall’altra i Signori Grigi, dai lineamenti spigolosi e dal colore, ovviamente, grigio.
Anche i movimenti di macchina sono caratterizzati da questa dualità: da una parte morbidi e tranquilli, ogni volta che protagonista è Momo, dall’altra veloci e nevrotici, quando ad essere inquadrati sono i suoi antagonisti. 
A somiglianza di quanto accaduto nei due lavori precedenti, anche in questo la musica assume un ruolo da protagonista, sebbene con un taglio leggermente diverso: mentre ne La Freccia Azzurra o ne La Gabbianella ed il gatto che le insegnò a volare la musica sottolineava momenti concreti della storia, qui essa illumina principalmente i momenti più idilliaci quasi a pagare una sorta di debito alla fantasia.
In questo senso bisogna rendere senza dubbio un omaggio a Gianna Nannini che rende il meglio di sé con i suoi brani ora toccanti ora incalzanti.
Il meglio D’Alò lo ottiene anche dai doppiatori, del calibro di Erica Necci (Momo) Giancarlo Giannini, nei panni del Presidente degli Uomini Grigi, Diego Abatantuono (Mastro Hora), Sergio Rubini e Neri Marcoré (due Uomini Grigi).
Due anni più tardi, nel 2003 è la volta di Opopomoz, fiaba ambientata a Napoli la vigilia di Natale.
Il protagonista, Rocco, geloso per l’imminente nascita del fratellino, viene convinto da tre improbabili diavoli a compiere il piano concepito da “Sua bassezza”: intrufolarsi nel presepe ed impedire la nascita del Bambin Gesù.

Sara e Rocco, i protagonisti

Purtroppo per i diavoli, anche Sara, cugina di Rocco, riesce ad entrare nel presepe e, grazie alla sua purezza e cristallina ingenuità, riesce a far fallire il loro piano.
Alla fine tutto si svolge come deve, compresa la nascita di Francesco, fratello di Rocco.
In questo lungometraggio, chiarissimo tributo del regista alla propria terra e cultura natale (in tutti i sensi), abbiamo il vero e proprio trionfo della napoletanità, nella migliore accezione del termine.


I tre diavoli inviati in missione sulla terra
Sebbene i personaggi si esprimano con un forte accento napoletano, se non addirittura nel dialetto partenopeo, non si scade mai nell’agiografia o, peggio, nella macchietta.
Anche gli stessi tre diavoli, sicuramente i personaggi più maldestri e buffi che siano mai apparsi nei lavori di D’Alò, mantengono uno stile che riesce a strappare, loro malgrado, anche un sorriso.
Questo quarto lungometraggio dal punto di vista della grafica e dell’animazione, può essere considerato come il più maturo, sotto diversi punti di vista.
Di nuovo, notevole apporto arriva dalla parte musicale, qui affidata alle sapienti mani di Pino Daniele, e dal cast dei doppiatori, un vero e proprio parterre de roi, che comprende Silvio Orlando, John Turturro, Peppe Barra, Oreste Lionello, solo per citarne alcuni (e senza voler mancare di rispetto agli altri!).
Vorrei a questo punto sottolineare una cosa: sia ne La freccia Azzurra sia in Opopomoz, viene citato uno pei personaggi più famosi, se non il più famoso in assoluto, della produzione letteraria per bambini italiana di tutti i tempi: Pinocchio.
E proprio a Pinocchio, che sembra essere un vero e proprio sogno ricorrente di D’Alò, sarà dedicato il prossimo lungometraggio realizzato da quest’autore che ha saputo regalarci delle autentiche meraviglie e delle pagine di cinema di animazione che devono essere considerate senza dubbio un patrimonio della nostra cultura contemporanea[1]. 


BIBLIOGRAFIA

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