di Alessia Ghisi Migliari, psicologa.
Mi intrufolo piano piano, qui tra voi.
Qualcuno, probabilmente, mi "conosce".
Sono "quella psicologa" di cui magari avete letto degli articoli, righe di artisti e
"follia" (o spietata luciditá).
In fondo, ci conosciamo un poco, no?
E proprio per questo voglio raccontarvi una storia.
Una storia che, anche lei, ha a che fare con l'arte e la psicologia.
Guardatevi attorno e sarete giá in tema: le vostre fotografie.
Non si possono snaturare queste pagine, e quindi resto sul filone creativitá;
solo che, al posto di essere flebile racconto, vi parlo di qualcosa che pratico,
anche se non sempre, nella mia professione: le "Phototheraphy Techniques", qui
ancora relativamente poco note.
Sì, se foste miei pazienti potreste sentirvi chiedere di portarmi degli scatti di
voi e dei vostri giorni.
Non tentiamo noi con l'Arte di fermare l'attimo e intingerlo di significato? Di
lasciare una traccia eterna di quel che siamo stati e abbiamo sentito e pensato?
Perché un giorno qualcuno potrebbe trovarcisi a sua volta, decenni o secoli
dopo.
Questo è il potere imperituro dell'Arte.
Fermare, intingere, una traccia, un pensiero, un sentimento, un momento:
esattamente quello che molte fotografie sono o vogliono essere, se ci riflettete.
Un gioco: se vi chiedessero cosa portereste su un'isola deserta,
scommettiamo che nella lista dei primi dieci oggetti, le vostre foto ci sono?
Le "Phototheraphy Techniques" sono state definite, plasmate e categorizzate
dalla psicologa canadese Judy Weiser, e mi hanno talmente affascinato che ho
deciso mi sarei formata anche in questo universo in cui l'espressivitá diventa un
mezzo per svelarsi.
In psicologia, come vedete spesso nei film, si usano spesso stimoli visivi per
"scoprire" - si chiamano test proiettivi, e sono molti.
Qui stiamo parlando di qualcosa di somigliante e diverso assieme - ritorna alla
memoria un meccanismo simile a quello per cui l'opera d'arte svela l'autore, il suo
messaggio, e l'umanitá tutta.
Con lo psicologo o lo psicoterapeuta, potete quindi ritrovarvi ad osservare
scatti di vostra produzione; vostri ritratti, più o meno rubati; autoscatti; fotografie
della vostra famiglia e degli eventi biografici più o meno incisi in noi; potreste
anche essere invitati a concentrarvi su "opere" più neutre, che fanno parte di un
nostro album, e che proponiamo al paziente.
E che sia una sola foto, o molte, che l'atmosfera sia ludica od ombrosa, che si
maneggino o si facciano interagire le vostre foto, infiniti sono i modi e le domande
che noi potremmo farvi.
E suona minaccioso, ma è in realtá un processo, un viaggio in cui emerge ciò
che si è stati, si è, o magari si è prossimi ad essere.
Si è in un ambiente protetto, dove quella piccola realtá bidimensionale fra le
vostre dita può svelare, far comprendere per la prima volta (un poco rubato a T.S.
Eliot), rivedere, ricostruire.
Ci si può scoprire, nel senso pieno del termine.
E, da qui, indirizzarsi verso una strada.
La consapevolezza è notevole architetto.
Quindi le fotografie come territorio inesplorato che porta alla vostra mente, una metafora, un simbolo, e la realtá.
Siete i viandanti in voi.
Per cui quanti segreti, appesi alle pareti di casa...
E si costeggiano le scogliere di un mondo interiore sempre ricco, affascinante, dai paesaggi mozzafiato.
Meritevoli, appunto, di un fotografo: voi.
E se anche ho poca classe o distinzione nel pubblicizzarmi qui, vi volevo accennare di questa dimensione del mio lavoro, solo una parte, ma che tanto (da scrittrice e fotografa) amo.
Brevemente, perchè non può essere altrimenti.
Sono tecniche vaste, vasto il loro approccio, potenzialmente oceanico.
A quante domande si è disposti a dare un volto?
Ogni volta che veniamo fissati su pellicola (o nel virtuale, ormai), è un romanzo.
"... Tu sorridevi e non guardavi".
Ne avete una anche voi, vero?
Che magnifico dono, se potesse raccontarsi.
Per approfondimenti ed eventuali consigli:
alessia.ghisi@yahoo.it
vivida-mente.com
Le foto e la psicologia, le foto come terapia o l'indagine psicologica attraverso le foto, sono un tema sempre interessante.
RispondiEliminaMi viene in mente anche questa cosa che avevo raccolto tempo fa, paragonando la foto allo specchio... La superficie dello specchio e' un poco la separazione tra due mondi, quello in cui si muove la nostra persona e quello al di la', impenetrabile e a cui noi possiamo solo rubare alcune viste parziali, simmetriche, cercando di capire come ci vedano gli altri e con quali espedienti mimici e gestuali poterci accattivare del consenso. Anche la foto forse ha un intento simile: superficie d'intermediazione tra il reale e l'appartenenza, tra la veridicita' di una rappresentazione e la appropriazione di una emozione da ascrivere al proprio patrimonio di esperienze condivise.
Lacan cita Seneca: “Specula seducunt imagines suas”, per sottolineare che la propria immagine speculare ci seduce per tutti gli atteggiamenti che in esso possiamo assumere e riguardare. Lacan ha scritto anche di un «campo immaginario», un luogo diverso dal nostro «subconscio», dove noi collochiamo le aspirazioni accantonate per «mediare» con il nostro prossimo.
Ciao