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sabato 22 ottobre 2016

OGGI PARLIAMO DI… HAYAO MIYAZAKI - Parte terza

Di Boris Bertolini

Eccoci di nuovo insieme per affrontare la terza e ultima parte di questa vera e propria maratona dedicata al Maestro dell’animazione per eccellenza, Hayao Miyazaki.
Dopo "Porco Rosso", sembra volete tirare per un po’ il fiato: si limita, si fa per dire, a scrivere sceneggiature (come nel caso di "I sospiri del mio cuore" del 1995, per la regia del suo sodale di sempre, Takahata) o a realizzare un videoclip musicale, nella fattispecie "On Your Mark", per il duo pop giapponese Chage & Aska.

 I protagonisti di “On Your Mark”


Ebbene, amiche e amici, se ne avrete la fortuna, vi consiglio di non farvi sfuggire l’occasione di dargli un’occhiata in quanto, al di là della qualità della musica e del testo della canzone (che esulano dalla nostra analisi), il video è un piccolo gioiello.
Realizzato secondo i più classici temi e stilemi del Maestro, viene da pensare che il titolo della canzone si riferisca proprio “al segno” che egli ha lasciato su tutta la produzione.
Si arriva così al fatidico 1997, anno in cui esce nelle sale "La Principessa Mononoke"; in esso ci viene raccontata la storia del principe Ashitaka, il quale, vittima di una maledizione che lo ha colpito combattendo contro un cinghiale indemoniato, deve abbandonare il proprio villaggio, per andare alla ricerca dell’antidoto.
Egli giunge perciò in un luogo in cui si sta combattendo una battaglia sanguinaria tra gli abitanti della Città del Ferro, guidata con piglio sicuro da Eboshi, e gli spiriti e gli animali che vivono nella foresta limitrofa, alla cui testa troviamo San, detta Mononoke.
San/Mononoke ed Ashitaka
Ashitaka cerca di porsi come mediatore del conflitto in corso, ma a complicare le cose ci si mette Jiko Bou, emissario dell’Imperatore, incaricato da questi di recuperare la testa del Dio della Foresta: secondo la leggenda, infatti, chi la possiede si garantisce l’immortalità.
Per poter compiere la propria missione, Jiko Bou chiede e ottiene l’aiuto di Eboshi, la quale, a dispetto del fatto che la sua città sia sotto assedio, si lancia nell’impresa, incurante pure del fatto che in questo modo si deve esporre anche agli attacchi di San/Mononoke.
La spedizione ha successo, Jigo ed Eboshi riescono a decapitare il Dio della Foresta; tuttavia, questo fatto scatena una catastrofe di tali dimensioni da sconvolgere e distruggere tutto il circondario, inclusa la Città del Ferro.
Solo la restituzione al Dio della sua testa, operazione compiuta da Ashitaka e San, permetterà alla natura di ritrovare il proprio equilibrio e ritornare a fiorire.
A seguito di ciò Eboshi comprenderà il significato profondo del vivere in armonia con gli elementi, mentre Jigo accetterà con una buona dose di realismo l’impossibilità di portare all’Imperatore quanto da questi desiderato.
Ashitaka, liberato finalmente dalla maledizione, rimarrà a vivere nella Città del Ferro, aiutando i suoi abitanti a ricostruirla ed essendo così anche vicino a San, la cui dimora, la foresta, è tornata ad essere per tutti un luogo di pace e prosperità.
Questo lungometraggio rappresenta un vero punto cardine nella produzione miyazakiana: pur affrontando una tematica a lui molto cara e già presentata in altre sue produzioni, le novità che il Maestro introduce in questa pellicola sono tali e tante da farla diventare una pietra angolare della sua carriera creativa.
Il Dio della Foresta
Innanzitutto, e come rarissime volte è capitato, qui abbiamo un vero protagonista maschile: Ashitaka, che rappresenta l’apice di una parabola che inizia con Conan e passa attraverso Pazu (ricordate? Il ragazzino minatore che aiuta la protagonista Sheeta in “Laputa - Il castello nel cielo”) e Porco Rosso.
Egli non è quindi solo una utile ed efficiente “spalla” della protagonista femminile, ma assume un ruolo di motore dell’azione, sebbene, in questo caso, da una prospettiva molto particolare.
Ashitaka infatti, nello schierarsi al fianco di San, e pur non nascondendo i sentimenti nei suoi confronti, non condivide l’odio che questa prova verso il genere umano (San è stata abbandonata nella foresta dai suoi genitori, come ci viene spiegato dalla sua madre adottiva, una lupa gigantesca).
Allo stesso modo, pur non essendo d’accordo con la mentalità di Eboshi, la quale considera la foresta come un luogo senza altro valore se non quello ricavabile dal suo più totale sfruttamento, le riconosce il merito di aver liberato le donne che lavorano nella Città del Ferro dal loro precedente stato di schiavitù e di aver accolto, dando loro riparo, diversi ammalati di lebbra, rifiutati dal resto del consesso umano. 
Ecco quindi che la sua decisione, alla fine del film, di rimanere in città assume il significato di provare a costruire una nuova mediazione tra due mondi solo apparentemente inconciliabili.
Un’altra novità di questo film la troviamo nel modo in cui vengono presentati i punti di vista dei vari protagonisti: essi sono esposti in maniera paritetica e in modo tale per cui è difficile quasi poter dire che l’uno o l’altro siano assolutamente da respingere.
C’è, in effetti, una parte di ragione sia nel radicalismo di San, che vede giustamente in Eboshi colei che non rispetta la natura, sia anche nella “centralità industriale” di questa, che per contro considera il lavoro operaio il migliore modo per ottenere dignità e riscatto sociale.
Non siamo, tanto per capirsi, di fronte a personaggi che agiscono come un Lepka o un Mushka qualsiasi, cattivi a tutto tondo, e nemmeno come una Kushana, che abbiamo visto essere spinta da una mentalità obsoleta; qui la cosa si fa più raffinata e, di conseguenza, anche più sottile.
Ciascuno degli attori in campo si muove reclamando le proprie buone ragioni, che effettivamente esistono.
Ecco quindi che il ruolo di mediatore, assunto da Ashitaka, vuole significare che un diverso approccio votato alla convivenza tra attività umana e rispetto della natura è doveroso e anche possibile, in virtù del fatto che “La Natura non è senza fine ed i suoi poteri rigenerativi […] non sono garantiti. Per quanto potremo approfittare di questi poteri e sfruttarli per i nostri scopi, e quanto lontano dobbiamo considerare il futuro che i nostri discendenti erediteranno?”[1]
Non è un caso che, alla fine, San/Mononoke decida di cessare gli attacchi alla Città del Ferro e che Eboshi si renda conto che un maggiore rispetto della Foresta e dei suoi abitanti non potrà che giovare a tutti.
Infine, anche dal punto di vista del character design, "La Principessa Mononoke" apre una nuova stagione: in esso viene meno quella continuità nei tratti, soprattutto nei lineamenti delle protagoniste femminili, che aveva legato tra loro tutte le precedenti realizzazioni del Maestro.
Con questo non voglio dire che la qualità de "La Principessa Mononoke" non sia al livello dei lavori che l’hanno preceduto, tutt’altro; si tratta solo di un mutamento generale, se così vogliamo dire, “estetico”.
Secondo una linea di pensiero, "La Principessa Mononoke" rappresenterebbe una versione aggiornata di "Nausicaä della Valle del Vento"; è indubbio che la tematica è comune, così come Eboshi e Jigo facciano tornare alla mente, nel loro modo di pensare e di agire, Kushana e Krotowa, rispettivamente.
In realtà, ci sono un paio di notevoli differenze, che balzano evidenti agli occhi degli spettatori. 
In primo luogo, Nausicaä rappresenta il punto di congiunzione tra la società degli uomini e la natura; ella non si sottrae al proprio doppio ruolo di governante della propria comunità e allo stesso tempo di protettrice della natura, soprattutto senza perdere il sentimento di amore verso tutti.
San, invece, come detto, è nemica dichiarata degli uomini, che combatte con tutte le sue forze e tutto il suo disprezzo e solo il sentimento che nasce in lei per Ashitaka le fa mitigare questo astio.
In secondo luogo, se in "Nausicaä della Valle del Vento"  la crisi trova una risoluzione prima che tutto precipiti, sebbene grazie a un escamotage narrativo che non aveva soddisfatto fino in fondo il Maestro[2], in "La Principessa Mononoke" per raggiungere  nuovamente l’equilibrio si passa necessariamente attraverso una “rottura” potenzialmente irreversibile.
Infine, in "La Principessa Mononoke" fa la sua prepotente apparizione l’elemento mistico-religioso, sotto forma di divinità, demoni e spiriti (come i Kodama, spiriti della foresta), direttamente presi dalla cosmologia tradizionale nipponica.
Il successo de "La Principessa Mononoke" è immediato e globale, e, conseguenza naturale di ciò, quest’opera fa incetta di premi e riconoscimenti.
Dopo una sosta di quattro anni, Miyazaki, nel 2001, produce "La città incantata", altra opera di mirabile fattura, che si inserisce, come "Kiki – Consegne a domicilio", nel filone del romanzo di formazione.
Protagonista è Chihiro, ragazzetta viziata e brontolona, che, durante il trasloco nella nuova casa, si imbatte assieme ai suoi genitori in un luogo strano e misterioso: apparentemente un parco giochi abbandonato.
Nonostante Chihiro, come guidata da un presentimento, incalzi i suoi genitori ad abbandonare quello strano posto, costoro, spinti da una esiziale curiosità, iniziano invece a esplorarlo, finendo con l’imbattersi in un ristorante ricco di ogni ben di dio culinario.
Chihiro ed Haku
I due adulti, in questo alquanto infantili, occorre dirlo, non resistono alla tentazione e iniziano a mangiare, finendo con il trasformarsi in maiali: il cibo da loro consumato infatti era destinato a tutt’altro genere di clienti e quindi essi vengono colpiti da un anatema.
Chihiro, rimasta quindi sola e intrappolata in questa città incantata, abitata da spiriti vari, deve necessariamente dare inizio a un percorso di maturazione che la porterà, attraverso svariate esperienze e prove, a sciogliere l’incantesimo che ha colpito i suoi genitori e quindi, in poche parole, a diventare adulta.
Di nuovo, il Maestro approfitta dell’occasione per parlarci di alcuni temi, più sociali questa volta, a lui cari: il lavoro in primis, come mezzo di affermazione individuale e “di classe”; la solidarietà, l’altruismo e la generosità, che la giovane protagonista impara a praticare, contrapposti all’egoismo e all’avidità di Yubaba, la strega che gestisce la città incantata, la linearità e l’onestà comportamentale e intellettuale, che fa da contraltare all’ambiguo comportamento di Haku, da un lato prezioso aiuto per Chihiro, dall’altro braccio destro di Yubaba, per la quale compie il “lavoro sporco”.
La strega Yubaba
Il tutto, però, e questa è indubbiamente una novità, in una chiave decisamente più surreale: è vero, come abbiamo già avuto occasione di sottolineare, che già in altri lavori magia e realtà sovente si mischiano (basti pensare a "Kiki – Consegne a domicilio"); qui però i rapporti si invertono, cosicché è la parte fantasmagorica a prevalere su quella reale; lo stesso finale del film è costruito in modo da creare, almeno per un attimo, un effetto di spiazzante “dejà vu” nello spettatore, che viene portato a pensare che tutto sia stato solo una visione.
Sarà l’aspetto decisamente malconcio dell’autovettura di famiglia a svelare che invece ogni cosa è decisamente accaduta.
Un altro “cavallo di battaglia” miyazakiano, che compare sin dai tempi di “Conan – Il ragazzo del futuro”, e che qui raggiunge uno dei suoi picchi più intensi, è la presenza di un personaggio anziano (o più spesso anziana).
Praticamente in tutti i suoi lavori, il Maestro ritaglia un ruolo fondamentale, ancorché a volte apparentemente secondario, a un personaggio della terza età; che si tratti della Gran Dama, di Dola o del nonno di Fio, tanto per citarne solo alcuni, questo tipo di personaggio ha il compito di essere un forte punto di riferimento soprattutto in chiave di “depositari e dispensatori di saggezza”.
Ecco quindi che si viene a creare un legame intenso fra essi e i protagonisti, in special modo quando questi sono bambini piccoli; si veda in tal senso, ne “Il mio vicino Totoro”, la figura di Nanny, la quale diventa una seconda mamma, amata e rispettata da Satsuki e da Mei, o la stessa Gran Dama de "Nausicaä della Valle del Vento", vera e propria “memoria storica” del villaggio attorno alla quale si stringono tutti i bambini nei momenti di maggiore pericolo.
Tornando a "La Città Incantata", in questo lavoro di anziane Miyazaki ne piazza addirittura due, per di più gemelle: oltre a Yubaba abbiamo Zeniba, che ne è l’immagine speculare: quanto egoista e avida la prima, tanto generosa e altruista è la seconda.
Anche dal punto di vista stilistico, questa produzione è un ulteriore passo in avanti compiuto dal Maestro: pur mantenendosi fedele alla sua cifra, egli introduce delle novità perfettamente funzionali al clima generale del racconto e che, anzi, ne esaltano gli aspetti più surreali.
Tutto ciò varrà a "La Città Incantata" l’Orso d’Oro al Festival di Berlino e l’Oscar per il miglior film d’animazione.
Tempo tre anni e, nel 2004, ecco un nuovo, l’ennesimo, capolavoro di Miyazaki.
Sto parlando de "Il castello errante di Howl", che ci mostra la storia di Sophie, giovane lavoratrice in una bottega ove si fabbricano cappelli.
Ella, importunata da due soldati, in città a causa dell’imminente scoppio della guerra, viene soccorsa da Howl, giovane stregone; ciò scatena l’invidia della Strega delle Lande, interessata a impossessarsi del cuore di quest’ultimo.
La strega colpisce Sophie con un incantesimo che la tramuta in una vecchina; a causa di ciò, la protagonista deve abbandonare tutto.
Lungo il tragitto che la porta lontano dalla città, fa amicizia con uno spaventapasseri da lei ribattezzato “Tesa di rapa”, il quale la conduce alla magione di Howl, in cui Sophie si installa, autoproclamandosi donna delle pulizie.
In questo modo ella viene a fare la conoscenza degli altri personaggi che popolano questo edificio, che si sposta su quattro zampe: il giovane apprendista Markl e il demone del fuoco Calcifer, con cui Howl ha stipulato un legame di vita o di morte.
Il Castello errante di Howl
Sophie, inoltre, scopre che questa incredibile magione, oltre a muoversi grazie ai poteri magici di Calcifer, è dotata di un meccanismo che le permette di aprirsi, di volta in volta, su differenti paesaggi: la Capitale, un prato (che scopriremo poi essere il luogo di infanzia di Howl), e così via.
Sophie, attraverso il dipanarsi della storia, sarà in grado di rompere gli incantesimi che hanno colpito lei stessa e lo spaventapasseri, permettendo a entrambi di recuperare la fisionomia originaria (lo spaventapasseri non è altri che un giovane membro della famiglia reale), e a sciogliere il vincolo che lega Howl e Calcifer, rendendo al primo la sua anima e al secondo la sua libertà.
Infine, la ragazza riesce indirettamente a convincere la maga Suliman, vera “eminenza grigia” del conflitto in corso, a far cessare le ostilità.
Eh sì, perché il tutto si svolge durante un terribile conflitto, in un clima di totale delirio patriottico e propagandistico.
Non tardiamo a scoprire che lo stesso Howl, sebbene possa sembrare indifferente a quanto sta accadendo e perfino pavido di fronte a tutto ciò, sfruttando la propria capacità di trasformarsi in un grande e maestoso volatile, sta invece  combattendo una sua personalissima guerra contro chi ha voluto e sta portando avanti questo conflitto criminale.
Che dire di questa mirabile produzione? Innanzitutto che vi troviamo di nuovo una delle tematiche più sentite dal Maestro, e cioè la sua avversione per la guerra, di cui vengono mostrati tutti gli orrori, morali e materiali.
Molto efficaci le scene dei bombardamenti notturni, in cui il mirabile uso di colori e tecnica di animazione restituisce tutta la tragicità degli eventi.
Non da meno è la descrizione dei comportamenti delle persone, plasmate dalla propaganda pro-bellica e patriottarda.
In realtà, "Il castello errante di Howl" reca al suo interno un altro fondamentale messaggio: è un vero inno alla vecchiaia e ai pregi di questa fase della vita.
Il Maestro ci dice, indubitabilmente, che, nonostante le problematiche fisiche che possono accompagnarlo (mirabile è la scena della salita sulla scalinata del Palazzo Reale), questo momento della nostra esistenza racchiude in sé il segreto della saggezza.
Ne è una prova la protagonista stessa, la quale fa della forza interiore e della consapevolezza di sé le armi vincenti; sebbene la sua vecchiaia non sia il frutto dello scorrere naturale del tempo, ella ha acquisito in ogni caso quelle virtù che vogliamo tipiche della terza età.
Due parole ora su Howl: a lui si addice ciò che avevamo detto di Porco Rosso, e cioè che si tratta di un protagonista opaco.
Sebbene sin dalla sua prima apparizione egli si presenti come un personaggio positivo, tuttavia rimane fino alla fine imprigionato in un qualcosa di ambiguo e apparentemente incomprensibile; solo Sophie, grazie alla proprie qualità umane, riuscirà a liberarlo da questo intreccio soffocante.
Ambientato in una città fantastica che si rifà, stilisticamente parlando, alle città nord-europee del primo ante-guerra, ne "Il castello errante di Howl" la bellezza e l’accuratezza, come sempre, del segno grafico che identifica personaggi e sfondi, sorregge magistralmente una storia in cui, ancora una volta, magico e reale convivono a stretto contatto di gomito.
Tra tutti i film realizzati da Miyazaki, "Il castello errante di Howl" è, assieme a "La città incantata", il meno “immediato”; esso, infatti, a parte l’evidente anti-militarismo, costante ideologica del Maestro, non disvela immediatamente il proprio contenuto filosofico e morale, ma lo lascia intravedere poco alla volta, chiedendo allo spettatore di compiere lo sforzo di “rompere la superficie” e di farlo fuoriuscire.
Nel 2006 "Il castello errante di Howl" ottiene la Nomination agli Oscar quale miglior film d’animazione, mentre nello stesso anno Miyazaki è insignito del Leone d’Oro alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia.
Due anni più tardi vede la luce "Ponyo sulla scogliera", delicata ma intensa favola dedicata all’infanzia.
In esso viene raccontata l’avventura di Brunilde, pesciolina rossa, figlia dello stregone Fujimoto e della Grande Dea Madre del Mare, la quale vuole diventare umana per vivere accanto a Sosuke, un bambino di cinque anni, con cui ha fatto amicizia.
Questa sua intenzione è ostacolata in tutti i modi da suo padre, come detto uno stregone umano il quale, disgustato dalla natura dei suoi simili, si è stabilito a vivere nel mare, in una sorta di “ritorno alle origini”.
Nonostante questo, però, la volontà di Brunilde è così forte da farla riuscire nell’intento; la pesciolina/bambina, ribattezzata Ponyo, si stabilisce dunque a casa dell’amico, iniziando un periodo di scoperta delle umane cose.
Brunilde e le sue sorelle
Questo atto, tuttavia, innesca uno scompenso nell’equilibrio della natura, causando un terribile Tsunami che flagella l’isola su cui vivono Sosuke e sua madre Risa e facendo scomparire tutte le navi, inclusa quella su cui lavora Kohichi, padre di Sosuke.
Al termine di varie vicissitudini e prove che i due bambini superano assieme, la Gran Dea Madre del Mare concede a Ponyo l’autorizzazione a diventare umana, previa sua rinuncia ai poteri magici e avendo altresì ricevuto da Sosuke la sua parola di prendersene cura.
Liberamente ispirata alla fiaba di Andersen “La sirenetta” [3], questa è una vera e propria storia per l’infanzia, che il Maestro ha voluto dedicare a tutti i bambini del mondo, a partire dai figli dei suoi collaboratori[4].
Ecco quindi che, qui, si torna a respirare un’atmosfera più solare rispetto alle precedenti produzioni e anche i momenti a più alta tensione emotiva vengono sviluppati in modo più “soft” rispetto ad altri lavori.
Questo è stato espressamente voluto dal regista, il quale si è prefissato l’obiettivo di parlare ai bambini usando un linguaggio e un tono al contempo semplici e in grado di trasmettere speranza.

Ponyo e Sosuke

A ben vedere, però, come sempre, questo film parla, e pure molto, anche agli adulti: in esso, infatti, possiamo ritrovare uno degli elementi principali di tutta la sua carriera produttiva e cioè l’ambientalismo e la necessità di proteggere la natura.
Emblematica la sequenza in cui una nave con rete a strascico solleva dal fondale ogni tipo di sporcizia e rifiuto gettato in mare dall’uomo.
Lo stesso tema principale dell’amicizia e del prendersi cura gli uni degli altri viene declinato in modo da essere efficacemente compreso sia dai grandi sia dai più piccoli.
In tutti i nostri appuntamenti dedicati al Maestro non abbiamo affrontato un aspetto molto interessante delle sue opere: le musiche del compositore Joe Hisaishi (pseudonimo di Mamoru Fujisawa), collaboratore fedele di Miyazaki, autore delle colonne sonore di tutti i suoi film, da "Nausicaä della Valle del Vento"  a "Ponyo sulla scogliera".
Ne parlo solo ora, anche se in verità l’argomento meriterebbe una intera trattazione  a sé stante, poiché mi piace sottolineare un momento musicale di "Ponyo sulla scogliera", che si lega in qualche modo anche al nome originale della protagonista.
Mi sto riferendo al momento in cui Brunilde (nome di partenza di Ponyo), decisa a raggiungere Sosuke, cavalca le onde del mare: non vi sarà difficile riconoscere nella musica di accompagnamento una parafrasi della “Cavalcata delle Valchirie”, costruita riarrangiando il tema principale del film “alla maniera di Wagner”; non v’è dubbio che già il nome stesso della protagonista abbia agevolato il compito di Joe Hisaishi.
Altra curiosità di questo film: per la prima volta, Miyazaki “tradisce” i tanti amati velivoli concedendo invece l’onore del proscenio a navi e natanti vari.
Per contro, non mancano figure tipiche della narrazione del Maestro, quali personaggi femminili dalla forte personalità (qui abbiamo Risa, la madre di Sosuke, il cui stile di guida ricorda molto da vicino quello di Lupin III) e nonnine per nulla rassegnate (le ospiti della “Casa dei girasoli”), il cui ruolo qui è leggermente diverso da quello solitamente riservato da Miyazaki agli appartenenti alla terza età: esse infatti non hanno un compito di guida morale o memoria storica, bensì di sostegno pratico (“fanno il tifo per Sosuke”, come esse stesse in coro dicono a Risa) al protagonista, con il quale instaurano, sin dall’inizio, un rapporto paritetico tipicamente “da nonna a nipotino”.
Anche colei che sembra contravvenire a questo modo di fare, la scontrosa e brontolona signora Toki, si rivelerà essere una preziosa alleata di Sosuke, essendo alla fine l’unica in grado di opporsi a Fujimoto.

Hayao Miyazaki
A questo punto, gentili lettrici e affezionati lettori, siamo giunti infine al termine di questi nostri appuntamenti dedicati al Maestro giapponese.
Senza avere la presunzione di aver dato una descrizione completa e definitiva dell’opera di questo autore, spero almeno di avervi instillato un po’ di voglia di vedere i suoi lavori che possiamo in tutta tranquillità annoverare tra i capolavori dell’arte cinematografica.

REFERENZE

1) Helen McCarthy, Hayao Miyazaki. Master of Japanese Animation, p. 201-202
2) Ryoko Toyama, Princess Mononoke. Frequently Asked Questions, www.nausicaa.net

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