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martedì 4 novembre 2014

"Morte di un uomo felice", di Giorgio Fontana

La premiazione alla Fenice
di Annalisa Petrella


 Premio Campiello meritatissimo a
 Giorgio Fontana
per “Morte di un uomo felice”


Il premio Campiello 2014 è stato assegnato, a mio avviso con pieno merito, a Giorgio Fontana, classe 1981, giovane scrittore varesino, per precisione di Caronno Pertusella, che con “Morte di un uomo felice” chiude un dittico, iniziato nel 2011 con “Per legge superiore”, entrambi pubblicati da Sellerio. Il tema che li accomuna è quello delle stragi negli anni del terrorismo.


In “Morte di un uomo felice” Fontana, che già a partire dal titolo del romanzo annuncia la conclusione della storia, ambienta i fatti nel 1981, tra l’altro, anno della sua nascita: è il periodo in cui il terrorismo in Italia raggiunse livelli di ferocia estremi e il protagonista, il magistrato Giacomo Colnaghi, che lavora nel tribunale di Milano, vive tutti i rischi e la tensione che le sue indagini comportano.
Da mesi si occupa di un caso irrisolto: l’omicidio di un politico democristiano rivendicato da una nuova banda armata. Colnaghi lavora tenacemente al caso con due giovani colleghi che si è scelto per costruire un confronto continuo sulle complesse problematiche dell’indagine. 
L’immagine del magistrato si delinea intorno a due punti focali: la ricerca di giustizia e, contemporaneamente, la ricerca delle cause che hanno determinato in molti giovani le scelte terribili della banda armata che continuano a seminare vittime innocenti nel Paese. Colnaghi vuole capire il punto di vista degli altri, prova a immergersi nelle condizioni di chi sta dall’altra parte, tenta di dialogare anche con gli assassini con l’obiettivo di una conciliazione tra il rigore richiesto dalla giustizia, che lui persegue, e un profondo senso di umanità e compassione. 
Nei momenti di disperazione per i continui attentati delle Br, di Prima linea e di tutte le bande armate, di fronte ai cadaveri di uomini innocenti uccisi perché nell’esercizio della loro attività venivano considerati nemici di un sistema folle, di fronte alle stragi nelle stazioni, sui treni, nelle piazze, è difficile non appellarsi a un desiderio di vendetta. Quando avevano ammazzato il magistrato Guido Galli, il 19 marzo 1980, Giacomo Colnaghi aveva raggiunto la piena consapevolezza che ognuno di loro poteva diventare un ostacolo da rimuovere nella strategia della tensione e  rabbia e dolore lo avevano fatto esplodere in un pianto disperato. Non ne poteva più di morti, di rivendicazioni insensate, di una guerra paragonabile a quella di trincea dove nessuno sembrava prevalere e non esistevano risposte agli interrogativi aperti. C’erano soltanto morti, e ancora morti, e dolore. 
A quel punto, nell’aula magna del Palazzo di Giustizia gremita di voci urlanti di magistrati, poliziotti e carabinieri che reclamavano tutela e vendetta, le parole del magistrato Generoso Petrella lo avevano folgorato e calmato: “Ricordate, noi non dobbiamo essere gli uomini dell’ira!” Queste parole erano diventate il suo imperativo categorico, chiaro, semplice, ma assai difficile da rispettare.
Colnaghi è un uomo per bene, un giovane di trentasette anni nato e cresciuto nell’hinterland di Varese, proviene da una famiglia povera, le sue doti intellettive e la sua sensibilità gli hanno permesso, tra stenti e sforzi immani, di laurearsi in giurisprudenza e di dedicarsi alla magistratura.
E’ sposato, ha due figli, uno stretto legame con la madre che abita con loro, ma il suo lavoro ha la priorità su tutto, le indagini sul terrorismo lo assorbono quasi totalmente e per questo ha scelto di vivere in un monolocale essenziale, privo di comodità, non ha nemmeno un televisore, al Casoretto, una delle zone popolari di Milano ai confini di Lambrate, per essere più vicino al tribunale, e soltanto nei fine settimana raggiunge la sua famiglia a Saronno. E’ credente, va a messa la domenica e la sera recita le preghiere, vive la sua religiosità con la naturalezza primitiva di un uomo solo di fronte al proprio Dio. Ama l’isolamento e il paesaggio della periferia milanese con le sue officine meccaniche, i portoni che si aprono su vecchie corti, i bar con i tavolini di alluminio e il deposito dei tram all’angolo con via Teodosio, gira in bicicletta per la città e respira l’aria milanese cogliendo squarci di umanità e poesia nascosti anche negli angoli più stridenti della metropoli.
Parallelamente alla storia dell’indagine nel romanzo si dipana la storia del padre di Giacomo Colnaghi, Ernesto, morto ammazzato dai fascisti a poco più di vent’anni in seguito a un’azione partigiana. Il legame tra il magistrato e suo padre, del quale non ha memoria perché all’epoca lui era in fasce, è strettissimo, nell’immaginario di Colnaghi Ernesto è stato il padre migliore del mondo, un idealista, un puro, un modello, votatosi alla causa partigiana con uno slancio irrefrenabile, un uomo che, pur avendo già moglie e due figli, non ha voluto rinunciare a un’azione pericolosa, ma giusta, che gli è costata la pelle. 
Giacomo sa che, all’interno della famiglia d’origine, l’eroismo di suo padre non è stato apprezzato, anzi è stato disapprovato da tutti, la sua morte ha lasciato una giovane vedova poverissima e due piccini da crescere, ma lui ne è orgoglioso, lo ama profondamente e avverte che il legame con lui è unico e indissolubile.
C’è poi un fatto incredibile che gli conferma che Ernesto lo ha amato al di sopra di tutto. Nell’attimo della condanna a morte, dopo essere stato massacrato di botte dai fascisti, Ernesto raccoglie in sé l’ultima scintilla di vita per scrivere una piccola frase su un pezzo di carta che passa di nascosto al Michelino: - Dai un bacio a Giacomo. 
 Null’altro, questo è quanto gli è rimasto di suo padre, un foglietto stropicciato che tiene sempre con sé, l’unica cosa da cui non si stacca mai, e quando la paura degli attentati e lo sconforto lo tormentano, quel pezzo di carta sgualcito gli trasmette la certezza che Ernesto è esistito davvero e che lo ha amato sopra ogni cosa.
L’ultimo capitolo del romanzo è bellissimo, i minuti che anticipano la morte del magistrato sono descritti con una sensibilità rara che ne mette a nudo l’anima, il ricordo degli affetti familiari, degli amici, dei colleghi e infine del padre, l’Ernesto, “l’uomo che mai conobbe, il ragazzo che gli lasciò un biglietto con il suo bacio”. 
Giorgio Fontana come scrittore è una certezza per quanto ha pubblicato finora, ma è sicuramente una promessa per la sua giovane età e per la passione letteraria che lo anima, quando ha ricevuto il Premio Campiello, ringraziando la giuria dei letterati e dei lettori, ha detto sorridente che il Campiello rappresenta uno stimolo, “una pacca sulla spalla per lavorare meglio. Come diceva Stephen King quando si scrive bisogna chiudere la porta e lasciare tutto dietro di sé, però poi quando si apre la porta e non si trova nessuno ci si rimane male”.  

18 commenti:

  1. Ho letto il romanzo e l'ho apprezzato. Bella recensione chiara e dettagliata. Giovanna

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  2. Anche a parer mio Giorgio Fontana è il presente e il futuro del romanzo italiano. La recensione di Annalisa Petrella gli rende onore con precisione e chiarezza..

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  3. finalmente un giovane scrittore di talento! Bella recensione
    Miriam

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  4. Una bella recensione che coglie sfumature e peculiarità di un giovane autore di talento.
    Ludmilla

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  5. Lucida e penetrante. Brava. Arianna

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  6. Fontana è una promessa e mi piace e la recensione è bella. Ivan

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  7. Annalisa, colpisci sempre nel segno!
    Loredana

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  8. recensione bella e appropriata. coglie lo spirito del libro, le sue sofferenze e la sua drammatica attualità storica.

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  9. Lo scopo di una recensione di un libro, è secondo me anche quello di spingere chi la legge ad acquistarlo o comunque leggerlo....e in questo ci sei riuscita perfettamente!! Lucrezia

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    1. Ne sono davvero contenta. Grazie. Annalisa

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