di Heiko H. Caimi
a Silvio Lazzaroni e alla sua Alina
Ioana sapeva
benissimo di essere osservata. Anche quel mercoledì mattina al supermercato,
tra il banco frigo e la promozione 3x2 sulle mozzarelle di bufala, sentiva gli
sguardi come puntine da disegno sul collo. La cassiera fingeva di sistemare le
monete nel cassetto, ma intanto cercava di contare le sue ciglia finte (erano
ventotto a occhio nudo, trentadue con l’invidia). Il commesso, invece, aveva
ormai sviluppato la rara abilità di localizzare il centro esatto della sua
scollatura con la stessa precisione con cui i cercatori d’oro individuano le
vene metalliche nel fango.
La signora con
il petto di pollo bio e l’aria da vegana delusa la scrutava come si fissa un
imprevisto sul conto corrente: con riprovazione e un pizzico di curiosità.
“Come può permettersi scarpe così?”, si domandava. Domanda legittima, risposta
semplice: Ioana lavorava. Di notte, prevalentemente, ma anche di giorno, quando
capitava. Lavorava con metodo, impegno e un senso estetico che sfuggiva alle
logiche sindacali. Ed era l’unica, nel raggio di tre chilometri, ad avere i
talloni sempre idratati.
Gli uomini,
quelli erano più comprensivi. A loro piacevano le forme, tutte, anche quelle
che non capivano. Il marito della vegana delusa, per esempio, aveva appena
smesso di confrontare i prezzi dei würstel bio per dedicarsi, con maggiore
soddisfazione, alla geometria dei suoi fianchi. Ioana sorrideva. Gli uomini
erano creature adorabili, ingenue come panni stesi al sole: bastava poco per
farli sventolare.
Ne conosceva
uno, specialissimo: un uomo dalla voce triste e dal portafogli impaziente.
Veniva da lei ogni martedì, come se il martedì fosse un giorno sacro e lei un
altare con il wi-fi. All’inizio si limitava a pagare e sospirare, ma poi aveva
preso a parlare. Parlava tanto, con la lingua disidratata di chi ha sete di
ascolto ma si rifiuta di bere. Aveva una moglie, due figli adulti che chiamava
“rami secchi” e una collezione di rancori così curata che sembrava un bonsai
emotivo.
Una sera le
aveva porto una scatolina lucida con un anello dentro. «Voglio sposarti», aveva
detto. Era il genere di proposta che si fa dopo due bicchieri di troppo e un
divorzio simulato nella testa. Ioana, che conosceva la matematica meglio della
poesia, aveva calcolato il valore dell’anello, il prezzo medio di una vita da
regina, e poi aveva risposto con una carezza. Lenta, come una promessa che non
verrà mai mantenuta. Gli aveva baciato la guancia e, da quella sera, non l’aveva
più visto.
Quando, mesi
dopo, vide la sua foto su un giornale abbandonato nel bar, accanto a una donna
dall’aria straniera e alle parole “nuovo matrimonio” e “espansione del
fotovoltaico in Romania”, scoppiò a ridere. La risata le uscì così, senza
preavviso, come le mestruazioni nei film francesi: tragica ma elegante. Tutti
si voltarono. Lei si scusò educatamente, richiuse il giornale e ordinò un
caffè.
Pensò che gli
uomini sono davvero straordinari. Alcuni cambiano moglie, paese e mercato
azionario, ma restano sempre fedeli alla propria mitologia: quella in cui una
donna rumena con tacchi da tredici centimetri li salva da se stessi con una
frase intelligente e un colpo di phon.
Del resto,
pensò Ioana sorseggiando il suo caffè, se una donna rumena è troppo bella
per fare la badante, come aveva sentito dire al bar qualche giorno prima, allora
dev’essere per forza una puttana. E se un uomo italiano è troppo gentile
per essere sincero, allora dev’essere sposato. Tutto tornava. L’equazione era
perfetta, come quelle bugie che la gente ama raccontarsi: semplici, infondate e
rassicuranti.
Lasciò una
moneta lucida sul piattino e uscì a testa alta, domandandosi, con un sorriso
appena accennato, che aspetto avesse la verità, e se per caso portasse il tacco
dodici.
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