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venerdì 4 luglio 2025

Regina di plastica con tacco 12


di Heiko H. Caimi

 

a Silvio Lazzaroni e alla sua Alina

 


Ioana sapeva benissimo di essere osservata. Anche quel mercoledì mattina al supermercato, tra il banco frigo e la promozione 3x2 sulle mozzarelle di bufala, sentiva gli sguardi come puntine da disegno sul collo. La cassiera fingeva di sistemare le monete nel cassetto, ma intanto cercava di contare le sue ciglia finte (erano ventotto a occhio nudo, trentadue con l’invidia). Il commesso, invece, aveva ormai sviluppato la rara abilità di localizzare il centro esatto della sua scollatura con la stessa precisione con cui i cercatori d’oro individuano le vene metalliche nel fango.


La signora con il petto di pollo bio e l’aria da vegana delusa la scrutava come si fissa un imprevisto sul conto corrente: con riprovazione e un pizzico di curiosità. “Come può permettersi scarpe così?”, si domandava. Domanda legittima, risposta semplice: Ioana lavorava. Di notte, prevalentemente, ma anche di giorno, quando capitava. Lavorava con metodo, impegno e un senso estetico che sfuggiva alle logiche sindacali. Ed era l’unica, nel raggio di tre chilometri, ad avere i talloni sempre idratati.

Gli uomini, quelli erano più comprensivi. A loro piacevano le forme, tutte, anche quelle che non capivano. Il marito della vegana delusa, per esempio, aveva appena smesso di confrontare i prezzi dei würstel bio per dedicarsi, con maggiore soddisfazione, alla geometria dei suoi fianchi. Ioana sorrideva. Gli uomini erano creature adorabili, ingenue come panni stesi al sole: bastava poco per farli sventolare.

Ne conosceva uno, specialissimo: un uomo dalla voce triste e dal portafogli impaziente. Veniva da lei ogni martedì, come se il martedì fosse un giorno sacro e lei un altare con il wi-fi. All’inizio si limitava a pagare e sospirare, ma poi aveva preso a parlare. Parlava tanto, con la lingua disidratata di chi ha sete di ascolto ma si rifiuta di bere. Aveva una moglie, due figli adulti che chiamava “rami secchi” e una collezione di rancori così curata che sembrava un bonsai emotivo.

Una sera le aveva porto una scatolina lucida con un anello dentro. «Voglio sposarti», aveva detto. Era il genere di proposta che si fa dopo due bicchieri di troppo e un divorzio simulato nella testa. Ioana, che conosceva la matematica meglio della poesia, aveva calcolato il valore dell’anello, il prezzo medio di una vita da regina, e poi aveva risposto con una carezza. Lenta, come una promessa che non verrà mai mantenuta. Gli aveva baciato la guancia e, da quella sera, non l’aveva più visto.

Quando, mesi dopo, vide la sua foto su un giornale abbandonato nel bar, accanto a una donna dall’aria straniera e alle parole “nuovo matrimonio” e “espansione del fotovoltaico in Romania”, scoppiò a ridere. La risata le uscì così, senza preavviso, come le mestruazioni nei film francesi: tragica ma elegante. Tutti si voltarono. Lei si scusò educatamente, richiuse il giornale e ordinò un caffè.

Pensò che gli uomini sono davvero straordinari. Alcuni cambiano moglie, paese e mercato azionario, ma restano sempre fedeli alla propria mitologia: quella in cui una donna rumena con tacchi da tredici centimetri li salva da se stessi con una frase intelligente e un colpo di phon.

Del resto, pensò Ioana sorseggiando il suo caffè, se una donna rumena è troppo bella per fare la badante, come aveva sentito dire al bar qualche giorno prima, allora dev’essere per forza una puttana. E se un uomo italiano è troppo gentile per essere sincero, allora dev’essere sposato. Tutto tornava. L’equazione era perfetta, come quelle bugie che la gente ama raccontarsi: semplici, infondate e rassicuranti.

Lasciò una moneta lucida sul piattino e uscì a testa alta, domandandosi, con un sorriso appena accennato, che aspetto avesse la verità, e se per caso portasse il tacco dodici.

 

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