di Heiko H. Caimi
Anna si
svegliò presto, come ogni giorno. La luce grigia di Milano filtrava attraverso
la finestra della stanza condivisa che chiamava, con una punta di amara ironia,
casa. Si stirò piano e raggiunse la cucina per farsi un caffè, attenta a
non fare rumore: le sue coinquiline, Mara, Clara e Giulia, dormivano ancora.
Era tornata a convivere, come ai tempi dell’università, ma senza la
spensieratezza di allora. La convivenza a cinquant’anni non aveva nulla di
romantico: era solo una misura disperata per sopravvivere agli affitti
impossibili di una città che sembrava disprezzare chiunque non avesse un conto
stellare in banca.
Quella mattina
doveva andare in zona Ticinese, dove per vent’anni aveva vissuto in un
appartamento che, seppur modesto, era stato il suo rifugio. Lì aveva costruito
una vita, con i suoi ritmi semplici e il calore dei vicini, che ormai
considerava una seconda famiglia.
Arrivò a
destinazione e, per un attimo, il cuore le si fermò. Al posto del suo palazzo c’era
una struttura moderna, un centro commerciale scintillante, tutto vetri e luci
al neon. Luxury Mall, recitava la scritta dorata. Restò immobile, come
se fosse stata colpita da un pugno allo stomaco.
Le scale che
aveva salito ogni giorno, il piccolo balcone dove aveva coltivato basilico e
menta, le serate passate a cucinare per sé e per i vicini… tutto spazzato via.
Al loro posto, un trionfo di negozi di lusso e franchising internazionali.
Entrò, quasi
ipnotizzata, spinta da una dolorosa curiosità. I pavimenti lucidi riflettevano
le sue scarpe consunte. In un angolo, un negozio di articoli da cucina vendeva batterie
di padelle e tegami che costavano più del suo stipendio mensile. Si immaginò,
per un attimo, comprare una di quelle pentole per la mensa dove lavorava,
servendo pasti semplici a ragazzini che divoravano tutto in pochi minuti.
Era tutto così
surreale. Aveva perso la sua casa per questo. Per un centro commerciale. Non
per un ospedale, non per una scuola, ma per un tempio del consumo. Era stata
sfrattata per un simbolo del lusso che non le apparteneva e che di sicuro non l’avrebbe
mai inclusa.
Si sedette su
una panchina di design e lasciò che il groppo in gola si sciogliesse. Piangeva
piano, con dignità, mentre attorno a lei i clienti sfogliavano cataloghi,
sorseggiavano caffè da bicchieri eleganti e si scattavano sorridenti selfie con
il nuovo sfondo brillante di Milano e con l’ultimo modello di iPhone.
Quando uscì, l’aria
fredda le sferzò il viso. Tornò verso la fermata dell’autobus con un peso sul
petto, ma anche una consapevolezza nuova. Milano non era più la città che aveva
imparato ad amare, ma lei non avrebbe lasciato che la schiacciasse. Forse
avrebbe trovato un modo per andarsene, forse no. Ma una cosa era certa: non
sarebbe mai diventata spettatrice passiva della sua stessa vita.
Mentre tornava
verso casa nell’affollatissima metropolitana, però, quello scatto d’orgoglio le
sembrò puerile ripensando alla sua stanza quattro metri per quattro
nell’appartamento condiviso. E lacrime silenziose cominciarono a scenderle
inarrestabili.
Coinvolgente, sembra di essere lì. Dolce e struggente.
RispondiEliminaQuanta realtà hai saputo condensare in poche pennellate, quanta amarezza per questa realtà “luccicante“ che ci schiaccia, distrugge i nostri ricordi, le nostre vite, ci trasforma da esseri umani in semplici consumatori
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