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martedì 16 febbraio 2021

LA ZUAVA

 Di Giorgio Olivari

Elide era nata nel ventisei: nata fascista.

Figlia di un ferroviere obbligato ad avere la tessera del partito: l’unico permesso dal regime. Le piaceva il sabato fascista ed essere una “Giovane Italiana”, perché questo le consentiva di lasciare Maniago e partecipare a qualche gara di corsa o di salto. Dopo la prima “commerciale”, però, aveva dovuto abbandonare la scuola, perché i suoi non potevano più permettersela. Elide amava la matematica, mentre i lavori “donneschi” non la entusiasmavano per niente, ma non aveva avuto molta scelta.

Fu mandata a servizio a Venezia, presso una famiglia benestante. Dover sempre dire “sì signora” le faceva male al cuore. 

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    Illustrazione di Sam Franza   

  

Tre mesi dopo telefonò al padre pregandolo di andare a prenderla. 

Non ebbe il coraggio di confessare i propri timori, legati soprattutto alle attenzioni che il padrone di casa le dedicava: le occhiate e i commenti che riceveva non le piacevano affatto.                                                                                                                                            

Non ebbe il coraggio di confessare i propri timori, legati soprattutto alle attenzioni che il padrone di casa le dedicava: le occhiate e i commenti che riceveva non le piacevano affatto.    

La ragazzina secca e sgraziata partita per la città stava trasformandosi in una splendida, giovane donna. La sua figura esile, avendo accesso a una dispensa ben fornita nonostante la guerra, si era riempita nei punti giusti, diventando un goloso frutto maturo. I capelli color cioccolato, per contrasto con la carnagione chiara, le davano un’aria esotica, e stuzzicavano le fantasie dei maschi quando andava al mercato di piazza del Popolo. Difficile vivere lontano da casa, senza le amiche, senza un fratello a vegliare sulla sua rispettabilità.

«Tornare al paese non si può, almeno per ora; la situazione peggiora ogni giorno. Cerca di resistere», le scrisse la madre.

Ma non dovette resistere a lungo. La padrona si accorse che, con il marito in giro per casa, Elide preferiva aver sempre fra le mani qualche verdura da sbucciare. Prese la scusa che si feriva spesso in cucina, con la mezzaluna o con i coltelli, e la rispedì a casa. Non era vero che si tagliava di continuo, anche se si sentiva attratta dall’affilatura delle lame: stregata da quel freddo, lucido acciaio. A ogni modo era riuscita a tornare a casa.

Dopo un anno e mezzo prese il posto della madre al cotonificio. Un lavoro da schiavi, sempre in mezzo alla polvere, dove pagavano pochissimo.

Non ci si lamentava mai ad alta voce e nessuno scioperava, per paura di essere licenziato. Il malcontento aleggiava nell’aria sudicia dei capannoni.

Voci di piazza borbottavano che i tedeschi avrebbero portato i macchinari in Germania, e i primi ciclostilati di protesta comparvero nei reparti.

Era al cotonificio, lavorando ai cascami, che aveva ripreso l’uso delle lame. A differenza di tante altre donne non ne aveva paura.

Franco, il caposquadra, era molto serio e schivo. Nessuno sapeva come mai non fosse stato arruolato. Pettegolezzi se ne sentivano a proposito di presunti suoi rapporti col podestà, ma la verità non la conosceva nessuno. A Elide capitava di alzare la testa, mentre era indaffarata, e di incrociare i suoi occhi che la studiavano. Quelle attenzioni non le davano fastidio: i suoi sguardi erano differenti da quelli che si era sentita addosso a Venezia.

Avevano iniziato a fare qualche tratto di strada assieme, in bicicletta, andando allo stabilimento o tornando a casa di sera.

Per caso o no, lui la raggiungeva lungo il tragitto e scambiavano qualche parola. In reparto Franco le girava alla larga, ma quando si incontravano fuori era impacciato e gentile.

Dopo parecchia flanella si era deciso e l’aveva invitata fuori. Al cinema si erano baciati la prima volta, e a Elide quella sensazione era sembrata incredibilmente calda, la scoperta quasi irreale di una parte di sé che fino ad allora non aveva mai conosciuto. Un tuffo al cuore. Si fidanzarono.

Era al cotonificio che si innamorò.

La timidezza di Franco sembrava sparita e ora le dimostrava i propri trent’anni facendola sentire una donna. Lui profumava di tabacco d’ambra e a lei piaceva il suo modo di sorridere, con la cicca a un lato della bocca. Teneva sempre una roncola a serramanico nella tasca e, quando lo osservava usarla, le brillavano gli occhi.

«Lavorare ai cascami è troppo duro per una ragazzina come te», le ripeteva quasi ogni giorno. Forse la verità era un’altra: la disinvoltura con cui la vedeva maneggiare quelle lame lo preoccupava un tantino.

Pretese e ottenne di farle cambiare reparto.

Una domenica, appena fatto l’amore, stavano mangiando della polenta fredda col radicchio distesi sul fieno. Ridevano. Dopo aver diviso un pezzo di formaggio, Franco prese a passarle il taglio curvo della roncola lungo il braccio. Sentì un improvviso formicolio e le venne la pelle d’oca.

«Sei una donna pericolosa!», le disse quando si accorse della sua reazione.

Sfiorò la spalla e poi il collo mentre il brivido la prendeva ormai alla gola: si baciarono lungamente e rifecero l’amore.

Fu quel giorno nel fienile che le parlò dei partigiani per la prima volta, del fatto che era antifascista e che presto sarebbe scappato sulle montagne.

«Quando questo succederà», le aveva detto, «il mio nome di battaglia sarà Sfera».

Le disse anche che, da quel giorno in poi, sarebbe stata dura rivedersi, e che per questo le aveva cambiato reparto: «per abituarti all’idea».

L’otto settembre Franco mantenne la parola.

Prima di andarsene volle farle un regalo. Le portò un coltello a serramanico, una zuava con l’impugnatura di corno, e volle baciarla un’ultima volta.

«Ho l’intenzione di svelarti un segreto», le disse mentre apriva il coltello. «Sai come evitare che questa lama possa ferirti?».

«No, che non lo so», rispose lei ipnotizzata dal riverbero dell’affilatura in controluce.

«Dobbiamo farle assaggiare il tuo sangue», proseguì Franco mentre incidendole delicatamente il polpastrello all’anulare. «In modo che ti riconosca e non ti faccia mai del male».

Le prese in bocca il dito sanguinante, mentre il respiro di lei tornava lento alla normalità. Sorrise e fecero l’amore prima di dirsi addio.

L’otto settembre cambiò anche la vita di Elide.

Dopo due settimane le recapitarono un biglietto firmato Sfera.

Stava bene e le chiedeva di portare un pacchetto oltre il Tagliamento; di portarlo a un’osteria di Spilimbergo, ma di attraversare a Braulins che era meno rischioso.

Fascista era nata: mica doveva morirci!

Prese la bicicletta e, dopo aver ottenuto il permesso al comando, fece i primi quaranta chilometri di strade bianche come staffetta. Sul manubrio teneva la sporta e, infilato in tasca, il coltello.

Parecchie volte nei mesi successivi pedalò avanti e indietro dai posti di blocco. A volte doveva fare la carina coi tedeschi, o vedersela coi fascisti. Spesso erano solo dei ragazzi poco più grandi di lei; le controllavano il permesso e frugavano nella sporta. Non guardavano fra le pagine di “Grand Hotel” o nella camicetta, dove portava biglietti e bigliettini.

Arrivò l’estate.

A quel che si diceva i tedeschi se la stavano vedendo brutta, e sembrava che a giorni avrebbe rivisto finalmente Franco, il suo uomo. Ma erano solo false speranze.

Improvvisamente i treni, fra Amaro e Gemona, vomitarono cosacchi e nella piana non si parlava d’altro. Gli arrivi si protrassero per dieci lunghi giorni: uomini a cavallo con mitra, pistole e spade alla cintura; carri con donne e bambini; ovunque puzza di pelli fresche di concia; coperte, pagliericci, casse e fieno, sacchi di patate trasportati alla meglio su sgangherati e sconnessi carri primitivi.

Che cosa ci facevano in Carnia degli sbandati come quelli?

Non lo avevano capito giù al paese. Non l’avevano capito i partigiani.

Al vedere quelle carovane di profughi, i paesani si erano limitati a guardarle sfilare quasi con compassione, senza considerare quegli uomini malmessi come degli invasori.

Lo capirono ancor meno i tedeschi. Bastava guardarli in faccia, i crucchi: avevano sperato nell’arrivo di quei nuovi alleati, ma solo prima: prima di incontrarli e perdere definitivamente ogni speranza.

Al cotonificio sostenevano che li avrebbero alloggiati nelle case del paese.

In piazza Elide prese informazioni da un ragazzo della Decima M.A.S. I fascisti sembravano gli unici a credere nei cosacchi.

«Si sono ribellati a Stalin», le disse quello riportandole frasi di propaganda. «I fieri cosacchi alleati dei tedeschi hanno varcato le Alpi per spazzare via i comunisti bolscevichi».

Al comitato invece c’era preoccupazione: dicevano che per puzzare puzzavano ed erano sporchi, ma non avevano certo paura ad avventurarsi su per la montagna per stanare i partigiani, a differenza delle camicie nere. Sembrava che avessero ridotto male una donna che portava la gerla: erano arrivati suonando il corno e facendo roteare le spade e poi l’avevano violentata lì, sulla strada.

Invasero tutta la zona. Il comando tedesco gli aveva promesso quella terra. Sarebbe stata la loro nuova casa, e cercarono subito di metter radici.

Elide continuò a fare la staffetta evitando le strade dove, si diceva, ci fossero i cosacchi. I rischi aumentavano e sempre più spesso si trovava a pensare alla possibilità che qualcosa potesse andar storto.

Quel giorno le diedero una lettera da portare a Faedis e decise di andarci di notte. Partì in bicicletta nel pomeriggio e si spinse fin quasi a Cividale, poi aspettò il buio e via, a piedi per l’ultimo tratto.

Il chiarore di un fuoco era visibile da lontano. Rallentò il passo e si spostò a lato della strada. All’improvviso li vide, si avvicinò alle prime case e si nascose dietro a un muretto.

Calzavano berretti di pelliccia, e alcuni avevano cartucciere a tracolla; indossavano divise grigioverdi o sudici corpetti di cuoio.

Il coprifuoco non sembrava preoccuparli, e bottiglie passavano di mano in mano: mani tozze, abituate a vivere all’aperto, allenate a prendere ciò che serve senza chiedere il permesso.

Il canto che si levava dalla piazzetta era un lamento privo di significato alle orecchie di Elide. Sciabole dai bagliori lucenti riflettevano il chiarore delle fiamme, sporchi mocciosi si rincorrevano in tondo.

Si sentiva una statua di pietra: che cosa doveva fare?

Le loro lame erano lunghe e ricurve, enormi falci senza manico dall’impugnatura massiccia. Un motore sofferente arrancava lontano, su per la strada. Due uomini, all’udire il rombo, si voltarono e guardarono nella sua direzione.

Urlarono qualcosa di incomprensibile e, dopo un istante, dei passi alle sue spalle la fecero trasalire. Prima ancora di capire che cosa stava accadendo una spinta decisa la sbatté in mezzo alla carreggiata.

«Schnell!». L’uomo indossava la giacca di un’uniforme tedesca, ma i pantaloni avevano una banda rossa lungo il fianco e calzava stivali col pelo.

«Schnell!», urlò ancora. Il suono era come masticato.

Elide non riusciva a impedirsi di fissare il pugnale infilato nella cintura del soldato. La spinse verso l’accampamento, allo scoperto, impugnando la pistola.

Lei non riusciva a parlare. Le facce attorno al fuoco si rilassarono vedendola; una sorrise, forse per effetto dell’alcool.

«Mein Haus. Casa mia», riuscì a pronunciare infine.

«Papier! Papier! Schnell!», ordinò il cosacco mettendo la pistola nella fondina.

«Ja, papier. Mein Haus. Vado a casa». Prese dalla tasca della gonna il lasciapassare e lo porse al soldato.

Lui lo aprì avvicinandosi al falò. Elide cercava di farsi più piccola. I bambini avevano smesso di girare in cerchio e le sgranavano gli occhi addosso.

La squadravano anche gli altri. La bottiglia di grappa passava di mano in mano, e un altro sorriso dai pochi denti le si piantò addosso.

Il cosacco guardò il foglio, fece un ghigno divertito e lo lasciò scivolare nella fiamma: una vampa arancione lo mandò in fumo.

Bruciò assieme a buona parte della sicurezza di Elide.

Lo sdentato si alzò. Lei finse di non aver paura, ma era quasi certa di non riuscirci troppo bene. L’uomo le si avvicinò. La ragazza conosceva quello sguardo, ne comprendeva il significato, ma c’erano i bambini e non le avrebbe fatto del male, o almeno così sperava.

Il soldato la prese per un braccio e la trascinò su un lato della piazza. Gli altri ridevano, lui continuava a spintonarla. Il braccio le faceva male.

«Nicht angst. Nicht angst frau…», le disse.

«Mein Haus. Casa», ripeteva Elide sempre meno convinta.

La spingeva verso un carro, nel prato; era oramai chiaro quello che la aspettava.

La forzò con la schiena contro il pianale e, con una zampa sudicia, le accarezzò i capelli. Lei si aggrappò con le mani alle sponde, lui cercò di infilare una gamba fra quelle di lei. Cercava di resistere ma il cosacco era molto più forte.

Alle sue spalle il chiarore del fuoco.

«No, ti prego… No!». Cercò di alzare la voce, ma era solo un fiato quello che le sfuggì fra i denti.

Provò a resistere serrando le cosce; lui allora fece comparire una baionetta, lunga e affilata, e gliela fece balenare davanti agli occhi.

«Gut frau… Gut… Ruhig», ripeté con un alito tremendo.

Elide si bloccò al chiarore della lama; la forza nelle gambe venne meno. Ora le alzava la gonna e fu in quell’istante che la zuava le scivolò dalla tasca, la colpì sulla spalla e rotolò nella paglia sul fondo del carro.

Il cosacco non se ne accorse nemmeno. Trafficava con i pantaloni: una mano alla baionetta, l’altra alla cintura. Lei era inchiodata al carro, lui non riusciva a liberarsi del cinturone. Mise la lama fra i denti e ansimando la sollevò sul pianale; poi, con entrambe le mani, riuscì a liberarsi l’inguine.

Gli occhi della ragazza erano ipnotizzati dai riflessi del pugnale. La paura, viva, le faceva scorrere il sangue come un turbine.

Col respiro affannoso l’afferrò ai fianchi per trascinarla verso di sé. Le braccia di Elide annaspavano, cercando di aggrapparsi al legno con le unghie e, improvvisamente, sentì fra le dita il liscio corno del proprio coltello.

Lo afferrò. Aveva la gola serrata. Non gemette, non emise alcun suono. La mente lucida come il metallo.

Il naso camuso dell’uomo era sopra di lei, e la sua bocca le sbavava addosso mentre cercava di penetrarla.

Le mani, allungate sopra la testa, aprirono il serramanico nascoste nella paglia. Un lampo rischiarò la notte, congelando la scena sulle pupille di Elide. Un’esplosione, come una scarica elettrica, bloccò l’uomo nello stesso istante in cui la zuava gli trafiggeva il collo.

Raffiche di mitra e colpi di fucile echeggiarono attorno.

L’urlo animale si spezzò incontrando la lama che il soldato teneva in bocca.

I suoi denti stridevano, cercando inutilmente di scalfire l’acciaio della baionetta.

Elide avvertì il calore del sangue scorrerle lungo l’avambraccio.

Le mani la afferrarono al collo, in una stretta disperata. Lei estrasse la lama e colpì nuovamente. Lui smise di urlare in un soffio, caldo, che abbandonò la gola.

La sua presa perdeva forza. Le si afflosciò addosso, e lei lo spinse di lato provando a rialzarsi.

Non credeva di essere in grado di uccidere un uomo. Cercò di riprendere fiato, di capire che cosa accadeva. Urla e altri spari le rimbombarono alle orecchie.

Pulì meccanicamente la zuava, chiuse il serramanico e la rimise in tasca. Tre, quattro uomini sparavano verso l’accampamento cosacco indietreggiando nella sua direzione.

«Aiuto!», gridò finalmente allontanandosi dal carro.

Uno di loro si girò col mitra spianato e, vedendola, urlò: «Chi sei? Cosa ci fai qui?».

«Portavo dei messaggi… Mi hanno fermata».

«Qui non puoi più stare! Vieni con noi. Sei ferita?».

«No. Credo di no».

«Sei tutta sporca di sangue!».

«Non è mio».

«Andiamo! Vieni». La prese per un braccio e la sostenne nel buio. I suoi compagni coprivano la ritirata.

A poca distanza ritrovarono le biciclette, nascoste in un fosso. Il partigiano la fece accomodare sulla canna e, prima di avviarsi, Elide gli chiese notizie: «Per caso conosci un antifascista di nome Sfera?».

«Sfera? Sì, lo conosco, è con quelli della Brigata Osoppo».

«Sai mica come sta? Sono preoccupata per lui: è il mio uomo».

«Stai tranquilla. E' al sicuro alle malghe di Porzûs[1], lo riabbraccerai presto».

Fu in bicicletta che diventò la Zuava.

Quello il suo nome di battaglia.

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[1] Eccidio di Porzûs – febbraio 1945.

Uccisione di diciassette partigiani della Brigata Osoppo, formazione di orientamento cattolico e laico-socialista, da parte di un gruppo di partigiani legati al Partito Comunista Italiano.


(pubblicato con l'autorizzazione di www.inkroci.it)

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