!-- Menù Orizzontale con Sottosezioni Inizio -->

News

mi piace

lunedì 8 aprile 2019

Natahn Shaham - Il Quartetto Rosendorf



Di Annalisa Petrella

“Solo nelle mie orecchie – non c’è neanche una registrazione – sono conservati i momenti di ispirazione e di insostenibile tensione in cui il vecchio Quartetto Rosendorf, con cuori tempestosi suonava la Grande Fuga di Beethoven, sfidando Dio e gli uomini.” Egon Loewenthal.
Pubblicato nel 2004 da La Giuntina, Il Quartetto Rosendorf si rivela come un microcosmo di armonia grazie al potere vivifico della musica dove le regole sono rigorose e il sentimento viene filtrato da un’opera di distillazione che lo mostra in tutta la sua purezza.  
Nathan Shaham ha voluto raccontare la storia di quattro musicisti tedeschi ebrei, giunti come profughi dalla Germania in Palestina nel 1936, a seguito delle leggi razziali naziste, per unirsi all’Orchestra Sinfonica di Tel Aviv. La “Palestine Orchestra”, fondata nello stesso anno da Bronislaw Hubermann, aveva l’intento di riunire musicisti ebrei di valore, cacciati dalle orchestre europee a causa delle persecuzioni, per mantenere con l’Europa, sempre più lontana, un ponte di collegamento “culturale” al di sopra degli orrori dilaganti. Il grande Arturo Toscanini, per andare a Tel Aviv a dirigere il concerto d’inaugurazione della nuova orchestra, rifiutò un invito al festival di Bayreuth.


La narrazione è una polifonia raffinatissima che ha una struttura a specchio con le quattro voci dei musicisti del quartetto e la voce dello scrittore raccolte in cinque diari.  
Kurt Rosendorf, licenziato dalla Filarmonica di Berlino in quanto ebreo, per salvarsi è costretto a lasciare la Germania, la moglie, che è ariana, e la figlia quattordicenne promettente pianista, in un distacco dilaniante, non solo per gli affetti, ma anche per l’abbandono della cultura tedesca alla quale sente di continuare ad appartenere. Lo spostamento in Palestina per lui rappresenta soltanto una via di fuga dall’antisemitismo, nella nuova terra cerca di vivere al di là della storia e della geografia e la musica diventa la sua nuova patria. Fonda il Quartetto da camera Rosendorf, al quale verrà riservato tutto il tempo lasciato libero dagli impegni dell’orchestra, ne è l’autorevole primo violino e raccoglie intorno a sé gli altri tre componenti. “Un quartetto è una società umana in miniatura. Vi sono rappresentate tutte le relazioni umane, tutto l’arco delle emozioni che è compreso tra l’attrazione e il rifiuto, tra la competizione e l’aiuto reciproco. Un luogo affascinante.” (Konrad Friedman).
Konrad Friedman, l’unico sionista del gruppo fortemente attratto dalla causa d’Israele, assume il ruolo di secondo violino: “Un secondo violino che non sogna di far parte dei primi violini è un bene prezioso per un’orchestra. Suona la sua parte, certe volte noiosa, come se tutta l’opera si reggesse su di lui. Suona con l’umiltà del filosofo, che sa che se i coloristi non avessero perfezionato le tinte e i pennelli i pittori non sarebbero stati in grado di creare i loro capolavori”. Kurt Rosendorf.
Bernard Litovsky, abile violoncellista, è deciso a fermarsi in Palestina, dopo tanti spostamenti vorrebbe mettere radici, è un personaggio irrequieto, curioso, pieno di vita, talvolta imprudente al punto di trovarsi coinvolto in situazioni politicamente a rischio.
Eva Staubenfeld, l’unica donna del quartetto, è di una bellezza sconcertante e ha una personalità ipnotica, misteriosa e gelida che attrae inevitabilmente gli uomini. Vive la propria sessualità con una libertà assoluta, odia il fatto di essere ebrea e ha alle spalle un vissuto terribile, ma suona la viola con un talento eccezionale, durante le prove e i concerti la musica la trasfigura e dà voce alla sua anima.
Il diario dello scrittore Egon Loewenthal, sopravvissuto a Dachau, appare nel capitolo finale. Grande estimatore del quartetto, di cui segue tutti i concerti e le tournee, in amicizia con i singoli componenti è affascinato dall’armonia scaturita dall’insieme delle diverse individualità che durante le esecuzioni si fondono in un tutt’uno superbo.
“Fra tutti gli argomenti a disposizione, diranno, questo idiota ha scelto di analizzare le relazioni di un gruppo di musicisti che in questo nostro folle secolo suonavano le opere felici del secolo precedente! E’ probabile che non esista un luogo più lontano dalla realtà del nostro tempo di questa stanza dove quattro musicisti esercitano le loro dita per dare la loro interpretazione di opere che sono già state suonate un’innumerevole quantità di volte. Ma alla fine sono giunto alla conclusione che questa è stata una decisione giusta. Un quartetto d’archi è un microcosmo. E’ una sintesi dell’intera esperienza umana. Al suo interno nasce una fratellanza forzata nella quale sono tenuti sotto controllo tutti gli istinti umani, una fratellanza che è una condizione necessaria in ogni comunità che vuole portare a termine il proprio compito.”
Nei quattro diari dei musicisti ciascuno parla della propria storia anche in relazione alle dinamiche che intercorrono con gli altri tre componenti il gruppo ed emergono i lati più intimi e oscuri. Gli stessi eventi narrati da quattro voci diverse a volte sono dissonanti, i punti di vista si moltiplicano e i fatti e le relazioni si arricchiscono di sfaccettature inattese con spunti ironici molto godibili.
 Il diario dello scrittore tiene le fila di tutta la vicenda e aggiunge ai temi dell’esilio, dello struggimento di vivere in un paese estraneo privi del sentimento di appartenenza, della musica come patria dei “senza patria”, dei problemi legati alle complessità e ai conflitti nel nascente Stato d’Israele, quello della lingua madre. Loewenthal è infelice in una terra che non riesce a considerare “patria”, un luogo dove si viene guardati con sospetto se si parla la propria lingua, l tedesco, e si sente “Un uccello a cui hanno tagliato la lingua.”
La lingua tedesca è la sua Heimat, il fulcro della sua esistenza. “Chi si accontenta di un vocabolario di trecento parole non potrà mai capire perché noi scrittori non abbiamo altra patria che la nostra lingua madre. Uno scrittore senza una lingua è come un violinista dalle dita spezzate”.
Il romanzo, bellissimo, è soprattutto un tributo all’universalità della musica che trascende i confini, le divisioni, i conflitti e le sofferenze con il suo magico potere catartico.

Nathan Shaham è stato addetto culturale dell’Ambasciata d’Israele a New York e vicedirettore della Radiotelevisione israeliana. Oltre a scrivere, suonava la viola nel quartetto d’archi del suo kibbutz del quale era membro dal 1945.
 
Nathan Shaham


9 commenti:

  1. La magia della musica nella sua recensione

    RispondiElimina
  2. La musica spesso da senso alla propria vita. Bella la recensione, fa venir voglia di leggere il libro.
    Lucrezia

    RispondiElimina
  3. DALLA SUA RECENSIONE SI SPRIGIONANO NOTE DI VITA
    MIRIAM

    RispondiElimina
  4. La musica che suscita emozioni, la musica che evoca ricordi, la musica che guarisce le ferite dell'anima, la musica che semplicemente ti da piacere ... chi la conosce e ne gioisce sa qual è il suo fantastico potere, anche nei drammi dell'umanità! Recensione davvero invitante.

    RispondiElimina
  5. "La narrazione è una polifonia raffinatissima che ha una struttura a specchio con le quattro voci dei musicisti del quartetto e la voce dello scrittore raccolte in cinque diari": ambiente musicale, tema storico-culturale, biografia sono gli ingredienti che mi motivano alla lettura!! Grazie. Cinzia

    RispondiElimina
  6. E' un libro che mi catturò anni fa. Mi affascinò vedere la musica come la patria comune per uomini che, costretti ad abbandonare la propria patria d'origine, non ne avevano nessuna, in quanto Israele era una patria "in costruzione". La recensione di Annalisa ben restituisce l'ambientazione, i sentimenti, le sensazioni che trapelano dal romanzo. Ogni personaggio è ritratto esattamente come nel romanzo. Complimenti!

    RispondiElimina
  7. Romanzo affascinante che coinvolge e cattura. Affronta molti temi e Annalisa ne ha fatto una panoramica perfetta. Brava !

    RispondiElimina